Dalla questione energetica a quella militare: il caso dell’energia nucleare

Elena Camino, Nanni Salio

Siamo all’inizio degli anni ’80 del 1900. Giovanni Salio (detto Nanni), laureato in Fisica, lavora presso l’Istituto di Fisica Generale di Torino. A differenza della maggior parte dei colleghi – per lo più impegnati in ricerche teoriche o applicative – ha approfondito un ambito poco studiato, che comprende sia la riflessione epistemologica sulla natura e i limiti della conoscenza scientifica, sia l’analisi delle complesse relazioni tra scienza e società, passando dalla questione energetica a quella militare.

In questi anni Nanni sta diventando un punto di riferimento importante per quella fascia della società civile interessata a trasformare i conflitti in modo nonviolento, e a promuovere a tutti i livelli un clima di inclusione, cooperazione, sviluppo della ricerca spirituale…

Nanni colloca anche i suoi studi scientifici in una prospettiva di graduale trasformazione della società verso relazioni nonviolente – a livello personale e collettivo.  Si confronta spesso con Johan Galtung, sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 del Peace Research Institute Oslo, nel 1964 del Journal of peace research, e direttore della rete “Transcend International”.   Insieme a Galtung Nanni analizza in modo rigoroso le forme di violenza che affliggono le comunità umane, distinguendone diverse modalità di azione: la violenza diretta (dalla minaccia interpersonale al combattimento in guerra, a forme di inquinamento), la violenza strutturale, che caratterizza le istituzioni (regolamenti discriminatori, leggi ingiuste, mancata protezione ambientale) e la violenza culturale (come il razzismo, il colonialismo, il degrado di interi socio-ecosistemi ecc.).

Nel 1981 Nanni scrive un testo in cui propone alcune riflessioni sulla produzione e sull’uso dell’energia nucleare, nel quale fornisce informazioni puntuali di natura scientifico-tecnica, inserendole però nel complesso scenario storico e socio-politico globale.  Le trasformazioni del pianeta in risposta ai cambiamenti climatici in atto non erano ancora conclamate, e Nanni non ne fa cenno in queste pagine. Tuttavia, rileggendo queste pagine dopo più di 40 anni, si rimane ancora ammirat* dalla chiarezza e dalla lucidità con cui egli aveva presentato la questione dell’energia nucleare.

Tanto che, essendo riemersa di recente una aggressiva proposta di ritorno alla costruzione di centrali nucleari, indicate dai suoi sostenitori come soluzioni socialmente adeguate e ambientalmente sostenibili, la rilettura dello scritto di Nanni risulta ancora uno spunto di riflessione utile per smascherare il sistema di pensiero allora dominante, che si ripropone, amplificato ed esasperato, in questo tragico momento storico.

Di quell’articolo – pubblicato nel novembre 1981 –  abbiamo ritrovato una copia dattiloscritta un po’ sbiadita che trovate a questo link. Nelle pagine che seguono vi riproponiamo il testo in una versione più leggibile, che conserva, dopo più di 40 anni, il rigore, la lucidità e la lungimiranza con cui Nanni affrontava tutte le questioni.

(Chi volesse riprendere il tema può leggere altri contributi pubblicati in anni successivi: in particolare segnalo le note di Emanuele Negro prese in occasione di un seminario sulle scelte energetiche presso il CSSR.

Abbiamo chiesto ad Angelo Tartaglia (professore emerito di Fisica presso il Dipartimento di Scienza Applicata e Tecnologia del Politecnico di Torino) che per lunghi anni condivise con Nanni studi e impegno sociale nel campo dell’energia e in generale dell’impatto delle attività umane sull’ambiente, di rileggere il testo di Nanni ed esprimere un commento sulla sua eventuale attualità. Angelo ha accettato l’invito e ci ha inviato il testo che potete leggere qui:  L’analisi di Nanni sul nucleare è sempre attuale. (Nota di Elena Camino)


Dalla questione energetica a quella militare: il caso dell’energia nucleare

Giovanni Salio, Istituto di Fisica Generale, Torino novembre ’81

Scienza e tecnologia svolgono nella nostra società un ruolo di importanza fondamentale, ma ancor poco indagato per quanto riguarda la maggior parte degli effetti sociali. Negli ultimi quaranta anni esse sono diventate il motore dello sviluppo industriale e della stessa corsa agli armamenti, che è stata definita una ”corsa scientifico-tecnologica”. Ciò ha portato alla nascita di una gigantesca rete di interessi economici, nota col termine di complesso militare-industriale-scientifico. Un caso particolarmente emblematico e di enorme rilevanza sociale è quello delle connessioni tra industria elettronucleare (o “nucleare civile”) e proliferazione delle armi nucleari (“nucleare militare”).

Questo tema rientra nella più ampia questione dei rapporti tra scienza e guerra, ma qui verrà esaminato isolatamente, sostenendo sostanzialmente le seguenti tesi:

  • Il ciclo di produzione dell’energia elettrica mediante centrali nucleari è tale da favorire inevitabilmente il processo di proliferazione delle armi nucleari. A tutt’oggi non esistono soluzioni esclusivamente “tecniche” per impedire la proliferazione.
  • Conseguenza immediata della proliferazione è il fatto che l’intero ciclo produttivo dell’energia elettronucleare richiede un livello particolarmente elevato di controllo che assume forme tipicamente militari. Si verifica cioè una tendenziale crescita del processo di ”militarizzazione diffusa del territorio”. Tutto ciò ha pesanti conseguenze sulle strutture sociali e porta allo sviluppo di quello che è stato chiamato lo “stato atomico”.

La scelta del nucleare pone infine una pesante ipoteca sul modello di sviluppo futuro e sulle reali possibilità di decollo delle tecnologie alternative, o dolci, che viceversa possono facilitare la realizzazione di una struttura sociale più decentrata e tendenzialmente autogestita. Per certi aspetti si può sostenere che questo è l’effetto sociale più importante proprio perché meno evidenti sono le connessioni dirette con la struttura militare che contribuisce a generare un determinato assetto sociale. Un esame esauriente di tutte queste interconnessioni, in particolare del secondo e del terzo punto, richiederà altri interventi specifici, data l’ampiezza del problema. Come sempre succede in questi casi si devono conciliare interessi opposti. In questa occasione mi limiterò prevalentemente a fornire dati e indicazioni di carattere generale, relativi alle implicazioni militari più dirette e accennerò solo superficialmente agli effetti indotti nella struttura sociale.

Una tecnologia e una scienza nate all’insegna della guerra

Dopo la scoperta della fissione nucleare, nel ‘39 gli scienziati si resero ben presto conto delle possibili applicazioni militari di questa scoperta, e si mossero rapidamente in varie direzioni: sul piano scientifico proseguirono freneticamente gli studi per approfondire la conoscenza della fissione, stabilirono le condizioni fisiche necessarie per un possibile uso militare, e ben presto ottennero la conferma dì questa possibilità dalla scoperta della reazione di fissione a catena.

Sul piano politico essi cominciarono a esercitare forti pressioni per la sospensione della pubblicazione “libera” dei risultati scientifici sul problema della fissione, sperando in tal modo di ostacolare i progressi degli scienziati rjmasti in Germania e dei quali non erano note con sufficiente chiarezza le  intenzioni di collaborazione o di  opposizione al nazismo.

Leo Szilard, lo scienziato di origine ungherese che ebbe più chiare sin dall’inizio le varie implicazioni politiche della questione, stilò la famosa lettera che doveva infine convincere il presidente Roosvelt  a istituire una commissione  di  studio sulla fattibilità della bomba e il suo varare il Progetto Manhattan. Questo progetto costituisce un punto di svolta significativo nella storia dell’organizzazione della ricerca scientifica: segna il passaggio dalla piccola scienza alla “big science”, dalla scala ancora semi-artigianale della ricerca a quella della grandissima industria (ricordiamo che il bilancio del progetto di costruzione della bomba fu di due miliardi di dollari e vi parteciparono circa centocinquantamila persone tra scienziati, tecnici e personale ausiliario). Ma costituisce anche un salto qualitativo di enorme importanza dal punto di vista delle relazioni tra militari e scienziati.

Se è vero che sempre l’innovazione scientifica ha avuto anche importanti risultati dal punto di vista militare e che, viceversa, sovente sono stati proprio i problemi di carattere militare a dare l’avvio allo studio di specifici settori della scienza, è anche vero che gli scienziati avevano svolto un ruolo del tutto secondario. E addirittura l’atteggiamento prevalente tra i militari era di scetticismo di fronte ai consigli che provenivano dal mondo scientifico sulle possibili applicazioni militari delle nuove scoperte.

Lo stesso progetto Manhattan incontrò all’inizio non poche difficoltà: i militari non erano assolutamente in grado di rendersi conto della fattibilità o meno di armi nucleari. Ma da allora le cose sono profondamente cambiate e la scienza, considerata dalla comunità scientifica oltre che una attività creativa anche una attività ispirata alla più totale libertà, è diventata oggetto di un controllo strettissimo da parte dei militari. Per sostenere questa affermazione sono sufficienti pochi riferimenti: negli Stati Uniti il 50% degli scienziati lavora direttamente a problemi con finalità militari. Cifre analoghe valgono probabilmente per l’URSS, anche se non si conoscono dati precisi, mentre a livello mondiale ciò è vero per almeno ricercatore su quattro.

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Non è mia intenzione approfondire ulteriormente la questione dei rapporti scienza-guerra, ma è importante sottolineare come questo fatto costituisca già un primo passo verso quelle forme di militarizzazione diffusa che non necessariamente si realizzano solo con l’intervento diretto dei carri armati.

D‘altra parte il controllo dei militari sugli scienziati del progetto Manhattan fu totale e Otto Frisch ricorda nella sua autobiografia che “la bomba uccise la libertà dello scienziato”. Da allora ampi settori della ricerca scientifica sono stati sottoposti a segreto militare: prima i lavori sulla fissione e sul radar, poi in tempi più vicini a noi quelli sulla fusione nucleare o sui laser di potenza. L’altro effetto importante sulla ricerca scientifica fu l ‘estrema parcellizzazione del lavoro e la nascita di una struttura gerarchica che ricalca in pieno quella della grande industria.

Gli effetti indotti da questo gigantesco progetto furono diversissimi: dalla progettazione del primo calcolatore elettronico ad opera di Von Neumann alla nascita delle nuove industrie dei calcolatori e della produzione del combustibile nucleare.

Infine, dobbiamo ricordare che gli scienziati persero completamente il controllo politico dei risultati del loro lavoro e la bomba venne “utilizzata” direttamente per ben due volte, senza neppure tentare altre strade che pure erano praticabili (come è stato ampiamente dimostrato in seder di ricostruzione storica delle vicende di quegli anni). D’altra parte, questo fatto non deve stupire poiché le armi vengono costruite per essere utilizzate e non per farne la collezione.

Osserviamo ancora come gran parte delle questioni che oggi vengono nuovamente dibattute con grande partecipazione di massa ebbero già un precedente storico di notevole rilevanza agli inizi degli anni ’50 quando ci si rese conto che la corsa agli armamenti stava assumendo un ritmo frenetico. Oltre al dibattito sul disarmo, venne discussa anche la questione della “responsabilità morale” degli scienziati, e tutto ciò diede il via alla costituzione del “movimento degli scienziati per la pace” e alla fondazione del famoso “Bulletin of the Atomic Scientists”, ancora oggi la rivista più autorevole in questo campo, schierata in prima fila nella battaglia contro il nucleare civile e contro quello militare.

Il tema della responsabilità dello scienziato, o dell’etica della scienza, non deve sembrare secondario rispetto alla questione qui in esame, ma anzi sta nuovamente assumendo una importanza cruciale nelle analisi e nei dibattiti relativi alla corsa agli armamenti e al ruolo della scienza nella società contemporanea.  Pur non potendo sviluppare più a fondo questo argomento, è importante fare un breve cenno per dissipare fin dall’inizio un possibile equivoco: qualsiasi analisi di tempi di grande rilevanza sociale non può essere condotta in maniera esaustiva solo su un versante strettamente “scientifico”.

Ci si arresta ben presto di fronte a nodi che comportano una visione e una argomentazione più ampie, globali, che fanno intervenire altre dimensioni dell’analisi teorica. Allo stesso tempo, questi riferimenti e queste considerazioni che a molti possono apparire estranee alla argomentazione tecnico-scientifica sono necessarie per cercare di intaccare l’atteggiamento dominante tra gli scienziati e i tecnici, che ancora oggi è sostanzialmente quello della neutralità della scienza e degli scienziati: i risultati scientifici e tecnologici sono solo degli strumenti e quindi risultano essere neutri rispetto alla società: gli effetti sociali dipendono esclusivamente dall’uso buono o cattivo di tali strumenti.

Secondo questa tesi la responsabilità sociale è quindi sostanzialmente ed esclusivamente un fatto politico. Il problema a mio parere è tutt’altro che banale e ben lontano dall’essere risolto in modo efficace ed esauriente, anche se costituì uno dei cavalli di battaglia della contestazione degli anni ’60 e molto si è detto e si è scritto in questi anni.

Ciclo del combustibile e proliferazione nucleare

Prima di esaminare più a fondo le varie possibilità di costruzione della bomba, ricordiamo ancora che per molti anni l’unico sviluppo dell’energia nucleare avvenne solamente nel campo militare. L’inizio degli anni ’50 vede la corsa verso la costruzione della ‘superbomba’ la bomba termonucleare o bomba H, e il progredire della guerra fredda tra USA e URSS. E’ interessante notare come tutte le previsioni fatte dagli esperti militari e e dai consiglieri scientifici americani sul ritardo dell’URSS nella costruzione prima della bomba A e poi della bomba H furono nettamente contraddette dai fatti.

Come ricorda Zorzoli in ‘Chi ha paura del sole?’, “alla prima Conferenza internazionale di Ginevra sugli usi pacifici dell’energia atomica, nel 1955, il 70% dei programmi di sviluppo dei reattori era ancora rappresentato dai progetti militari, il più importante dei quali agli effetti dei successivi progetti civili era senza dubbio quello della Marina Militare”. E proprio dai programmi della marina militare statunitense doveva venire l’orientamento decisivo per i reattori civili prodotti in America. Infatti, i primi reattori di potenza effettivamente messi in esercizio furono quelli per due sottomarini, il Nautilus e il Sea-Wolf.

E si può aggiungere che oggi sono proprio i sottomarini nucleari, con una autonomia di navigazione che può arrivare a sette anni, a costruire l’arma strategica forse più importante in campo militare.

Passando ora a esaminare più da vicino la questione della costruzione della bomba, notiamo che il ciclo del combustibile per scopi civili è in larga misura simile a quello per scopi militari.

Tutti i cicli commerciali del combustibile nucleare sono alimentati dall’uranio. L’uranio naturale, all’estrazione, contiene solo lo 0,7% dell’isotopo fissile U235.  Questi bassi valori di concentrazione di U235  non sono sufficienti per dar luogo a un’esplosione. Le bombe richiedono una concentrazione di almeno qualche decina in %. Al variare della % varia la massa critica necessaria per la costruzione della bomba, cioè la quantità minima di materiale fissile indispensabile, come si può vedere nella seguente Tabella:

 

Materiale fissile  Massa critica (kg)
Plutonio militare 4
Plutonio industriale 8
Uranio 235 fortemente arricchito 17
Uranio 235 arricchito al 20% 250
Uranio 235 arricchito al 10% 1000
Uranio 235 arricchito al 5% o meno (combustibile per centrali ad acqua leggera) Non è utilizzabile per costruire la bomba

Alcuni tipi di reattori commerciali, ad esempio il CANDU di origine canadese, sono alimentati con uranio naturale o a basso arricchimento (fino al 3%). Tutto il combustibile uranifero irraggiato in qualsiasi reattore produce plutonio, contenuto nelle scorie del combustibile esaurito. Il plutonio può essere separato mediante il “processamento” delle scorie. Ancor oggi gran parte del lavoro relativo a queste due fasi del ciclo del combustibile è coperta da segreto militare.

Impianto di arricchimento

L’arricchimento dell’uranio può avvenire secondo vari processi.

  1. Diffusione gassosa: è la soluzione usata da parecchio tempo a fini militari e che solo in tempi più recenti è stata applicata a scopi civili, ad esempio nell’impianto francese di Tricastin. Sono impianti molto grossi, ad alto consumo di energia, che possono essere costruiti solo da grandi potenze industriali.
  2. Ultracentrifugazione: consente la separazione degli isotopi per differenza di peso. È considerata una tecnica che favorisce la proliferazione in quanto si può realizzare con impianti compatti, che si possono nascondere facilmente e sono accessibili anche a paesi tecnologicamente poco sviluppati che possiedano riserve di uranio.
  3. Metodi magnetochimici e metodi laser: sono stati scoperti recentemente e risultano ancora oggetto di studi e ricerche. In particolare, il metodo di separazione laser è coperto da segreto militare. Una sua eventuale diffusione potrebbe rendere il processo di arricchimento estremamente semplice. La Exxon pensa di renderlo commerciabile entro dieci anni.

Riprocessamento delle scorie

Gli impianti di riprocessamento costituiscono il punto chiave della tecnologia del plutonio. I paesi in grado di produrre plutonio a partire dall’uranio sono ormai numerosissimi (si potrebbe dire che non esistono praticamente limiti a questa possibilità), ma quanti dispongono degli impianti per la separazione del plutonio dalle scorie? Questa tecnologia è stata tenuta segreta per lungo tempo e sviluppata solo per scopi militari, negli USA a Stanford, in Inghilterra a Windscale, in Francia a Marcoule.

Gli impianti di ritrattamento su larga scala a scopi civili sono oggi un punto debole dell’intero ciclo del combustibile e al momento attuale sono stati chiusi tutti per ragioni di sicurezza, tranne quello di La Hague in Francia. Francia, Germania, Belgio e Italia hanno in progettazione o in costruzione impianti piloti. Per quanto riguarda l’esportazione, la Francia è particolarmente specializzata in questo settore e la Saint-Gabain Tecniques Nouvelles ha stipulato vari contratti: con il Giappone nel 1975 per l’impianto di Tokai-Mura, raddoppiato qualche anno dopo; con il Pakistan nel 1973; più o meno nello stesso periodo è stato stipulato un accordo con la Corea del Sud e con Taiwan. Anche per quanto riguarda l’India, il Canada aveva fornito un piccolo impianto di ritrattamento sin dagli inizi degli anni ’70.

Di Jack W. Aeby, July 16, 1945, Civilian worker at Los Alamos laboratory, working under the aegis of the Manhattan Project. – This image comes from the Google-hosted LIFE. Pubblico dominio, Collegamento

La costruzione della bomba

Le vie per costruire la bomba passano sostanzialmente attraverso l’utilizzo dell’uranio arricchito oppure del plutonio ottenuto dagli impianti di ritrattamento. Mentre per ottenere una bomba a partire dall’uranio 235 è necessario, per restare entro valori ragionevolmente piccoli della massa critica, raggiungere percentuali del 90 % di arricchimento, nel caso del plutonio il processo di costruzione è molto più semplice e diretto. La massa critica si mantiene sempre a valori bassi anche per percentuali dell’ordine del 10 o 20% di materiale fissile (Pu-239).

Sino a qualche tempo fa era diffusa la convinzione che fosse necessario utilizzare solo plutonio con elevato grado di purezza (cioè con un’alta percentuale dell’isotopo 239). E’ stato viceversa dimostrato che anche con plutonio industriale, come quello direttamente prodotto nelle centrali, e che contiene altri isotopi del plutonio, è possibile fabbricare bombe con un elevato grado di efficacia. Ovviamente, oltre alle strade più dirette per procurarsi il materiale fissile arricchito, cioè di tipo militare, esistono possibilità svariate, dl furto sistematico (anche in piccole quantità, perché sia difficile da rilevare) alle azioni di pirateria internazionale, come quelle condotte dai servizi segreti israeliani nel caso Plumbat.

Possibili misure di sicurezza

Le misure di sicurezza possono essere o prevalentemente di natura tecnica, oppure di natura politica.

Dal punto di vista tecnico sono state seguite due strade:

  1. Controllo del ciclo del combustibile con monitoraggio del materiale fissile prodotto. Il ciclo può essere seguito in tempo reale mediante un calcolatore che permette di rivelare eventuali sottrazioni di combustibile. Tuttavia questi accorgimenti, elaborati solo in sede teorica ma non ancora operanti, non garantiscono un controllo sufficientemente efficace (anche se introducono degli ostacoli) poiché le incertezze nelle misure della qualità di combustibile presente nelle varie fasi del ciclo oscillano tra il 10 e il 20% e consentono quindi un margine molto alto di copertura di eventuali furti.
  2. Messa a punto di cicli del combustibile “a prova di proliferazione”. Gli studi finora condotti, anche quelli più recenti e autorevoli, su questo tema sono in larga misura concordi nell’affermare che non esiste un ciclo che garantisca l’impossibilità della proliferazione. Sono tuttavia allo studio misure che tendono a ostacolare l’acquisizione di materiale fissile a scopo militare.

Dal punto di vista politico si è seguita soprattutto la strada degli accordi internazionali, che ha portato alla stesura del trattato di non proliferazione (TNP) e alla costituzione dell’AIEA (Agenzia Internazionale di controllo dell’energia atomica), incaricata di effettuare i controlli presso le varie nazioni aderenti  al trattato di non proliferazione.

Sono state proposte anche altre soluzioni, finora inattuate:

  • Istituzione di un ciclo internazionale del combustibile (arricchimento e riprocessamento) con libero accesso per tutte le nazioni e controllo rigoroso del mercato internazionale del combustibile. Non c’è bisogno di molti commenti per rendersi conto della fragilità di questa proposta nella attuale situazione di crisi internazionale e tenuto conto dei grossi interessi economici presenti nel mercato del nucleare.
  • A più riprese è stato proposto, ma sinora senza esito positivo, un accordo internazionale per la messa al bando della produzione di materiale fissile per scopi militari. Lo scopo di questa iniziativa era quello di bloccare la proliferazione “verticale”, cioè l’aumento del numero di testate in possesso delle potenze nucleari e di ostacolare anche la proliferazione “orizzontale”, cioè l’allargamento alle nazioni che attualmente non possiedono ancora armi nucleari.

È interessante infine accennare a una posizione più “radicale”, quella espressa dal noto studioso di problemi energetici Amory Lovins, secondo il quale “condizione necessaria e sufficiente” per impedire la proliferazione è il definitivo abbandono dell’opzione nucleare anche per quanto riguarda la produzione di energia elettrica. Pur senza esaminare nei particolari quest’ultima posizione si può notare come ci sia una parziale sovrapposizione con la proposta del bando alla produzione di materiale fissile a scopi militari.

Inoltre, sempre a sostegno dell’argomentazione di Lovins, si possono citare le considerazioni svolte da Steven Baker al sesto corso dell’ISSODARCO (Scuola internazionale di ricerca sul disarmo e sui conflitti): “Il possesso di una capacità (nell’ambito del nucleare (civile) può creare un interesse a diventare una potenza nucleare anche là dove prima questo interesse era molto piccolo o non esisteva affatto”. E, ancora, un programma economico di (investimento) nell’energia nucleare può essere necessario per giustificare il costo di creare un’opzione al possesso di armi nucleari.

Un’altra misura di sicurezza che talvolta viene indicata come possibile è il cosiddetto “costo politico” che la scelta del nucleare militare dovrebbe o potrebbe comportare. La comunità internazionale dovrebbe cioè essere in grado di esercitare una forza di dissuasione tale da rendere troppo onerosa la scelta di diventare una potenza nucleare. Tuttavia, almeno due casi reali, quello di Israele e quello dell’India, insegnano che in effetti questi paesi non hanno pagato alcun prezzo politico per la loro scelta di costruire la bomba.

Secondo Baker “si hanno molte buone ragioni di pensare che con il procedere del tempo il costo da pagare in termini politici, tecnici ed economici per diventare una potenza nucleare continuerà a diminuire mentre cresceranno le difficoltà di mantenere una situazione di non proliferazione”. In altre parole, come afferma un recente editoriale nel New Scientist, “prima o poi le armi nucleari saranno nomerose come gli aerei di linea, a meno che non si verifichi qualche imprevedibile sviluppo sul piano degli accordi internazionali. A quel punto il problema non sarà più quello di fermare la diffusione delle armi nucleari, ma quello di renderne impossibile l’uso da parte dei singoli paesi”.

Conclusioni

Come ho già detto il tema in esame richiederà ulteriori approfondimenti, oltre a questo breve panorama introduttivo. Come tutti i problemi di grande rilevanza sociale ci si trova facilmente in situazioni estremamente contraddittorie, paradossali e che sovente diventano indecidibili su un piano strettamente “scientifico” e “razionale”. Tenuto conto di queste limitazioni e del carattere ancora provvisorio della presente analisi, credo tuttavia di poter concludere richiamando schematicamente alcuni punti  che ho sviluppato o ai quali ho accennato talvolta superficialmente:

  1. La scelta del nucleare si è rivelata via via più fallimentare dal punto di vista economico e finanziario, tuttavia viene ancora perseguita da numerose nazioni
  2. Di fatto il nucleare civile costituisce una delle occasioni migliori per giungere alla costruzione di armi nucleari senza pagare pesanti scotti politici in sede internazionale
  3. Gli interessi economici delle grandi multinazionali dell’energia nucleare sono tali da avere impedito sinora accordi su scala internazionale che impediscano la proliferazione e consentano al contempo di accedere liberamente al ciclo del combustibile nucleare a tutte le nazioni interessate
  4. Anche in sede politica, soprattutto con l’attuale amministrazione Reagan, non sembra esserci una reale volontà di controllo. Si teorizza anzi l’opportunità di una più ampia diffusione delle tecnologie nucleari e si sostiene (almeno a livello di propaganda) che anche la proliferazione orizzontale renderà “più sicura” la convivenza tra le nazioni perché agirà come deterrente.
  5. Una delle tesi che vengono sostenute dai fautori del ‘tutto nucleare’ (sia civile che militare), ad esempio da Teller, è che solo con queste armi si è garantita una pace di oltre trent’anni tra le nazioni europee, pur perdurando il confronto est/ovest
  6. Altra tesi avanzata da coloro che sostengono la necessità della costruzione di sistemi d’arma via via più sofisticati è la constatazione della impossibilità di controllo sulla ricerca scientifica e la conseguente inevitabilità della diffusione delle conoscenze scientifiche. Si è quindi nei corni di un dilemma dal quale si può sperare di uscire solo mediante scelte di carattere culturale e politiche di largo respiro e da realizzarsi su tempi lunghi.
  7. La tesi di Lovins, secondo cui è necessario e sufficiente abbandonare il nucleare per ridurre (e in prospettiva eliminare) il pericolo di guerra nucleare appare a molti troppo radicale e anche ingenua. Ma le valutazioni di ordine economico, relative sia al modello di sviluppo sia alla possibilità di decollo delle tecnologie alternative, non sembrano lasciare molti dubbi.
  8. È da tener presente tuttavia che un giudizio definitivo sul nucleare civile non può che essere, comunque, di carattere “storico” cioè vincolato in particolare alle attuali condizioni storico-economiche e di sviluppo della società contemporanea.

Bibliografia

In queste brevi note bibliografiche vengono indicati riferimenti non eccessivamente specialistici e facilmente reperibili, che consentano un approfondimento dei vari argomenti trattati nel testo.

Robert Jungk. Storia degli scienziati atomici. Einaudi, Torino, 1958.

A distanza di vari anni questo libro continua a essere un riferimento introduttivo importante per avere un quadro storico generale sui problemi soprattutto del nucleare militare. Dello stesso autore si veda anche Lo stato atomico, Einaudi, Torino 1976, che tratta invece prevalentemente dei problemi sociali annessi al nucleare civile.

Morton Grodzins, Eugene Rabinowitch, L’età atomica. Il Saggiatore, Milano, 1968.

È una interessante raccolta di documenti di quarantacinque scienziati che hanno partecipato, direttamente o indirettamente, alle vicende militari e politiche relative alla costruzione della bomba e al dibattito che si è aperto nella comunità scientifica sin dal ’45.

Walter C. Patterson, Che cos’è l’energia nucleare. Mazzotta, Milano, 1979. E’ un testo divulgativo che descrive con grande chiarezza gli aspetti tecnici e scientifici della produzione di energia elettronucleare. Contiene anche un capitolo sulla storia del nucleare civile.

Amory Lovins et al. Energia nucleare e bombe atomiche, Qual’Energia n.1, gen. Mar. ’81 pp 6-14 e n. 2, apr.giu. ’81, pp. 7-14. In questo articolo l’autore sviluppa con ricchezza di dati e di argomentazioni la tesi della necessità di abbandonare l’opzione nucleare civile per impedire la proliferazione nucleare e per consentire il decollo di una strategia energetico fondata su fonti rinnovabili.

Francois de Closets, La proliferazione nucleare, Nuova Scienza n. 11, novembre ’81, pp. 84-100.

Martin Barnes. Le nucléarie, l’énergie qui mène à la bombe, La Recherche vol. 12, nov. ’81, pp. 1268-1279.

Entrambi questi articoli esaminano il problema delle connessioni tra nucleare civile e nucleare militare presentando altri punti di vista e altre informazioni che integrano e completano quanto presentato nel presente intervento.


 

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