Comprendere il passato per guardare al futuro
La storia è lo scenario nel quale si collocano e acquistano senso gli eventi dell’oggi. Comprendere il passato per guardare al futuro, come ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Guterres
“[…] nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili- o il lancio di razzi contro obiettivi civili […] È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza, la loro economia soffocata, la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite.
Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese […]”.
Sono parole chiarissime e inequivocabili, un fermo richiamo alle responsabilità di ciascuno nel processo di progressivo peggioramento della situazione.
Se non ci si interroga, infatti su come si è arrivati fin qui, nè su come se ne esce, in quale prospettiva che non sia quella dell’annientamento dell’altro, ma si persiste nella logica della risposta militare per perseguire la vittoria, ci sono alte probabilità che si arrivi a un allargamento del conflitto armato, in un momento già segnato da gravi tensioni internazionali che rischiano di andare fuori controllo.
Israele potrà forse sconfiggere militarmente Hamas, seppur a caro prezzo, con morti militari e civili da entrambe le parti, anche mettendo a rischio la vita degli ostaggi, ma è del tutto illusorio che una vittoria militare possa risolvere la situazione. Se si vuole neutralizzare Hamas bisogna ridare una speranza ai giovani palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.
Da troppo tempo la politica dei governi israeliani è stata contrassegnata, invece, da una precisa volontà di espansione territoriale e di imposizione violenta di uno status quo, senza alcun rispetto delle risoluzioni internazionali che imponevano a Israele il ritiro dai territori occupati dopo la guerra del 1967.
Nonostante ciò, soprattutto con la prima Infada del 1987/1988, la resistenza del popolo palestinese all’occupazione aveva trovato molte forme di lotta nonviolenta che hanno contribuito non poco a portare all’attenzione internazionale la questione palestinese (più di quanto non avesse fatto l’uso del terrorismo) e hanno condotto all’unico tentativo di comporre il conflitto, parziale e incompleto, gli accordi di Oslo del 1993-95, di fatto realizzati soprattutto negli aspetti più penalizzanti per i palestinesi, come la divisione del territorio nelle zone A-B-C, e con una politica sempre più contrassegnata dal controllo, con sbarramenti, check point, costruzione del muro, giustificato come difesa contro gli attacchi suicidi in Israele.
Nel 2018 la Knesset, il Parlamento israeliano, ha votato la legge che definisce Israele “stato degli ebrei”, contrassegnando in modo sempre più netto lo stato di Israele come stato esclusivo , nel quale chi non è ebreo ha meno diritti: uno stato di apartheid.
Contro questa situazione si è sviluppato a livello internazionale il movimento BDS, Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni, fondato nel 2005 da Omar Barghouti, come parte della lotta di liberazione del popolo palestinese. “Il movimento antirazzista e nonviolento BDS….si ispira alla lotta anti-apartheid sudafricana e al movimento per i diritti civili degli Stati Uniti. Ma affonda le sue radici in un’eredità secolare, spesso misconosciuta, di resistenza popolare indigena palestinese al colonialismo dei coloni e all’apartheid. Questa resistenza nonviolenta ha assunto molte forme, dagli scioperi di massa dei lavoratori, alle marce guidate dalle donne, alla diplomazia pubblica, alla costruzione di università, alla letteratura, all’arte”.
Tuttavia, come scrivono Rae Abileah e Nadine Bloch in un bellissimo articolo pubblicato da Waging Nonviolence e tradotto per il nostro sito,
“sebbene questa enorme storia di resistenza nonviolenta sia stata ben documentata, non è stata ampiamente coperta dai media tradizionali e certamente non è sotto i riflettori ora. Dobbiamo fare i conti con l’enormità dell’occupazione in corso e della pulizia etnica che continua nonostante queste azioni creative e coraggiose. Dobbiamo anche comprendere la grave repressione della resistenza nonviolenta palestinese e i doppi standard dell’Occidente quando si tratta di questa violenza.”
È dunque anche responsabilità nostra valorizzare e dare voce a queste esperienze che umanizzando la lotta palestinese possono conquistarle le simpatie e la vicinanza del mondo, invece che puntare sullo scatenamento dell’odio e della rabbia delle piazze arabe contro Israele e contro gli ebrei, come fa la politica di Hamas.
Ma anche nella società israeliana ci sono semi di nonviolenza da far conoscere e sostenere.
Con la prima Intifada sono nate le Donne in nero, organizzazione che poi si è sviluppata a livello internazionale e che si è sempre dichiarata contro l’occupazione dei territori palestinesi, alzando durante le veglie la manina nera con su scritto “Not in my name”. Ci sono i refusnik, obiettori di coscienza che rifiutano di prestare servizio nei territori occupati, gli obiettori di coscienza al servizio militare, che vanno in prigione perché Israele non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza, ci sono vari movimenti di base che lavorano insieme con palestinesi. Anche tra i sopravvissuti e tra i parenti di persone uccise o rapite nell’attacco di Hamas c’è chi dice che il bombardamento di Gaza non è a suo nome “Not in my name”.
Negli anni di questo conflitto si sono sviluppate esperienze straordinarie di collaborazione, empatia, lavoro contro l’odio e ricerca di una pace giusta, come, per citarne solo due la nascita dell’associazione mista The Parents’ Circle tra familiari di vittime palestinesi e israeliane che lavorano contro l’occupazione e la guerra, per la convivenza, oppure, su un altro piano, la pubblicazione a cura del Peace Research Institute in the Middle East del testo La storia dell’altro, un manuale di storia frutto della collaborazione tra docenti israeleiani e palestinesi che mette a confronto le rispettive narrazioni storiche lasciando una spazio bianco, per una possibile futura narrazione condivisa.
E tra i palestinesi c’è chi, come Alì Rashid, primo segretario della delegazione generale palestinese in Italia (ambasciatore di un popolo senza stato) in una intervista pubblicata da Volerelaluna, dice:
“Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia di un delirio che si chiama stato-nazione, segnato da confini che discriminano in nome di razze che non esistono e appartenenze funzionali all’esercizio del potere. La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano di dire no alla guerra. Nessuno ci ha condannato a farci a pezzi anche se ci assicurano che questo avviene per il nostro futuro. Perchè nella guerra non ci sono più, se mai ci sono stati, vincitori e vinti. Perchè la violenza segna chi la subisce e chi la fa”.
E ripropone l’idea dello stato unico democratico e binazionale, nel quale ebrei e palestinesi abbiano gli stessi diritti e possano convivere.
Era una prospettiva presente anche in alcuni intellettuali ebrei tra cui Hanna Arendt e Martin Buber oltre che in una parte del sionismo laico e democratico delle origini, che cercava una patria per gli ebrei (non degli ebrei), un rifugio contro le persecuzioni, i pogrom dei paesi dell’est europeo e anche della “civilissima” Francia dell’affare Dreyfus. “Una terra senza un popolo, per un popolo senza terra”, come invocava lo slogan sionista.
Comprensibile nel secolo delle nazioni e ancor più dopo la Shoah. Ma la Palestina non era una terra senza un popolo e, come Gandhi aveva previsto in una lettera ad amici ebrei scritta nel 1938, il progetto sionista di uno stato ebraico in Palestina sarebbe stato problematico, anche se lì erano da secoli presenti comunità ebraiche che convivevano tranquillamente con quelle arabe, come ricorda Rashid. L’aumento dell’immigrazione ebraica in breve tempo (“alyia”, ritorno alla terra dei padri) determinò in effetti crescenti conflitti con le popolazioni arabe residenti.
La questione fu affrontata dalle Nazioni Unite che con la Risoluzione 181 del 1947, tentarono di risolvere il conflitto definendo la partizione della Palestina storica in due parti, una per creare il “focolare ebraico”, l’altra per uno stato palestinese, con Gerusalemme sotto un regime internazionale speciale. Di qui, come sappiamo, nasce nel 1948 lo stato di Israele, mentre i palestinesi non accettano e si scatena la prima guerra tra paesi arabi e il nuovo stato ebraico. Guerra vinta da Israele, che conquista nuovi territori espellendo i palestinesi dai loro villaggi: è la Nakba, la catastrofe, che segna l’inizio di una politica di conquista e di controllo del territorio che purtroppo ha contrassegnato diverse fasi della storia di Israele, come storici ebrei tra cui Ilan Pappé hanno documentato.
In un seminario di approfondimento organizzato dalla Rete Pace Disarmo giovedì 26 ottobre, il direttore di Mehazkim, Eran Nissan ha concluso il suo intervento spiegando che in Israele finora hanno prevalso il “partito del controllo” (Israele può controllare l’intero territorio dal Giordano al mare ) e la sua versione ancor più di destra del “partito dell’apartheid”.
C’è anche un “partito dell’uguaglianza”, molto minoritario, che, con diverse prospettive, due stati, uno stato binazionale, una federazione, propone una soluzione di pari dignità e diritti per i due popoli.
Negli ultimi mesi però la situazione è cambiata e l’attacco di Hamas ha messo in evidenza che pensare di ignorare la questione palestinese e di normalizzare la situazione di occupazione tenendola sotto controllo è del tutto illusorio.
Potrebbe essere dunque l’ora di un radicale cambiamento, di una svolta capace di aprire un futuro di vera sicurezza per tutti, garantita dalla possibilità di convivenza: perchè non provare con il “partito dell’uguaglianza”?
Intanto, le notizie di stamattina citano le forti manifestazioni di vero e proprio antisemitismo avvenute ieri in Daghestan. Il feroce eccidio compiuto da Hamas contro civili inermi, tra cui donne e bambini per il solo fatto di essere ebrei, seguito dalla reazione brutale di Israele su Gaza ha acceso la miccia di un risorgente antisemitismo, che nulla ha a che fare con la legittima critica alla politica israeliana. Come scrive Carlo Rovelli sul Corriere della Sera di oggi, 30 ottobre, se si definisce antisemita chiunque contesti la politica di Israele non si combatte affatto l’antisemitismo, ma si contribuisce ad alimentarlo. E che “più ci lamentiamo e usiamo la violenza di Hamas come giustificazione per le nostre azioni, più forniamo argomenti emotivi proprio a chi ritiene che l’unica risposta possibile alla violenza sia ancora più violenza”.
La speranza di un futuro diverso non viene dai due opposti fondamentalismi, quello di Hamas e quello della destra israeliana, ma proprio da quei movimenti, persone che, nel conflitto, sanno “vedere l’altro lato”, sanno creare ponti, confrontarsi con l’avversario senza concepirlo come nemico da distruggere, ma come essere umano che cerca una vita giusta, dignità, riconoscimento e uno stato che rispetti e tuteli uguali diritti per tutti.
Fermiamo la violenza, riprendiamo per mano la pace. Su questo si dovrebbe impegnare il nostro governo, l’Unione Europea e la comunità internazionale tutta. E anche ciascuno di noi. È l’unica possibilità.
Per questo saremo in piazza anche a Torino nella fiaccolata per la pace del 2 novembre.
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