Vietnam e Palestina/Israele: un confronto tra legge e guerra
Il testo che segue è la mia prefazione a un confronto di conflitti di eccezionale valore: Vietnam e Palestina/Israele. Queste due regioni mi hanno preoccupato per tutta la mia carriera professionale e nel corso della mia vita di cittadino attivista. Il libro, appena pubblicato dalla Michigan University Press, è anche una fonte di approfondimento sull’evoluzione del diritto internazionale in relazione a tali conflitti.
Making Endless War: The Vietnam and Arab-Israeli Conflicts in the History of International Law, Brian Cuddy and Victor Kattan, Editors, 2023
Come si evolve il diritto internazionale: Norme, precedenti e geopolitica
Prologo
Dobbiamo capire che questo volume dedicato alla rilevanza del diritto internazionale in queste due zone di guerra geograficamente distinte, in Medio Oriente e nel Sud-Est asiatico, nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale, è un’impresa molto particolare. Non sono a conoscenza di un’analoga ricerca di confronti e connessioni, né in relazione ai conflitti indocinesi né a quelli arabo-israeliani, per quanto riguarda le interazioni e le potenzialità del diritto. L’aspetto notevole di questa ricerca è che considera l’interazione tra i conflitti su scala regionale come una fonte di nuove norme di diritto internazionale e come un’occasione per eludere e giustificare le norme esistenti.
Il mio punto di partenza è prendere atto della motivazione degli attori politici principali in entrambe le configurazioni di conflitto a eludere i vincoli all’uso della forza imposti dalla Carta delle Nazioni Unite, un quadro costituzionale per il diritto internazionale redatto sotto l’influenza primaria della Seconda guerra mondiale, che ha raggiunto una particolare urgenza dopo l’uso delle bombe atomiche contro le città giapponesi. Questa influenza si è espressa con l’adozione di una logica di prevenzione della guerra, fortemente enunciata nelle parole iniziali del preambolo della Carta, “…per salvare le generazioni successive dal flagello della guerra”. Questo linguaggio era una risposta non solo alla devastazione associata alla guerra appena conclusa, con i suoi 60 milioni di morti, ma al timore che una guerra futura di proporzioni simili o maggiori avrebbe portato risultati ancora più catastrofici per il mondo intero. Le norme della Carta sull’uso della forza erano state concepite in modo molto restrittivo, suggerendo che il ricorso alla forza da parte degli Stati sarebbe stato legale solo se intrapreso per autodifesa contro un precedente attacco armato [articoli 2(4) e 51 della Carta delle Nazioni Unite] o in risposta a una decisione che autorizzava l’uso della forza da parte del Consiglio di Sicurezza. Come suggerisce l’introduzione dei curatori al volume, la Carta ha portato avanti l’ambizione trasformativa di proibire la creazione di guerre internazionali e la diplomazia coercitiva, limitando nel modo più comprensibile possibile il ricorso all’uso della forza a livello internazionale. Va compreso che queste ambizioni erano sempre legate all’autocontrollo e all’armonia tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, che godevano del diritto di veto, il che li esentava di fatto da un legame obbligatorio con le norme giuridiche internazionali che regolano la forza stabilite nella Carta. Anche se l’Assemblea Generale ha tentato di colmare questo divario tra il diritto internazionale e questo inquietante privilegio geopolitico, la sua autorità era costituzionalmente limitata alla formulazione di “raccomandazioni”, prive di forza obbligatoria.
La condizione geopolitica di fragile e sempre parziale armonia che prevaleva nel 1945 come risultato della recente vittoria sul fascismo conseguita dalle potenze alleate non durò a lungo. L’ONU è stata istituita con la speranza, sebbene contestata dai realisti politici fin dal suo inizio, che la combinazione di queste norme di contenimento e dei meccanismi di sicurezza collettiva del Consiglio di Sicurezza potesse garantire un mondo pacifico. Queste aspettative idealistiche sono state messe in discussione dagli eventi. Prima la Guerra di Corea (1950-53), poi la Crisi di Suez e l’Operazione del 1956, e soprattutto lo scoppio della Guerra Fredda, che spezzò per sempre la pia speranza che un’alleanza di guerra potesse trasformarsi in una coalizione di pace. Tuttavia, fino al decennio degli anni Sessanta gli antagonisti geopolitici continuarono ad attenersi in modo superficiale al quadro della Carta delle Nazioni Unite che limitava l’aggressività bellica, poiché l’attenzione continuava ad essere rivolta ad evitare una terza guerra mondiale o a non rispettare il tabù che vietava il ricorso all’armamento nucleare.
La situazione è cambiata nel decennio degli anni Sessanta. Divenne chiaro che i vincitori della Seconda Guerra Mondiale si trovavano di fronte a sfide geopolitiche significative e possedevano ambizioni strategiche che non potevano essere soddisfatte aderendo alle norme della Carta. Ciò è emerso chiaramente nella guerra d’Indocina, in particolare nell’arena centrale del Vietnam. La nozione di autodifesa prevista dalla Carta non era applicabile, né l’estensione americana della guerra al Vietnam del Nord nel 1965 avrebbe consentito al Consiglio di Sicurezza di ristabilire la pace a causa del potere di veto detenuto dagli antagonisti geopolitici, Unione Sovietica, Cina e Stati Uniti. Per questi motivi la guerra d’Indocina, nonostante la sua portata e il livello di distruzione, fu intrapresa senza tenere conto o impegnarsi seriamente nel quadro delle Nazioni Unite o del diritto internazionale contemporaneo.[1] Il governo degli Stati Uniti, in particolare, emise elaborate giustificazioni documentali per le azioni forzate intraprese invocando il diritto internazionale. Le sue razionalizzazioni legali erano di natura partigiana e unilaterale, e come tali non convincevano la comunità scientifica dei giuristi internazionali.
Inoltre, sia in Indocina che in Medio Oriente, la guerra che ne risultò non fu tra entità politiche con capacità tecnologiche e tattiche simmetriche. Il diritto internazionale si era evoluto per affrontare guerre combattute tra Stati sovrani con capacità tecnologiche approssimativamente equivalenti e si preoccupava di limitare e regolare la guerra piuttosto che metterla fuori legge. L’esperienza della Seconda guerra mondiale convinse i vincitori che esisteva una lacuna nel quadro giuridico relativo alla protezione dei civili che vivevano sotto occupazione militare, dei prigionieri di guerra catturati e del trattamento dei soldati feriti sul campo di battaglia. Questa consapevolezza portò alla negoziazione delle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, un nuovo corpus giuridico che divenne noto come “diritto internazionale umanitario”.
Tuttavia, le Convenzioni di Ginevra si preoccupavano ancora delle guerre tra Stati sovrani. Le guerre in Indocina e in Medio Oriente degli anni Sessanta dimostrarono l’importanza di estendere il diritto internazionale umanitario (DIU) a condizioni di guerra prolungata all’interno di Stati sovrani, soprattutto quando l’intensità era amplificata da interventi esterni, guerre per procura e allineamenti geopolitici. Il riconoscimento della prevalenza di questo nuovo tipo di conflitto violento ha dato origine ai due Protocolli di Ginevra del 1977, ritenuti aggiuntivi ai trattati del 1949. In particolare, il Protocollo I, relativo alla protezione delle vittime nei conflitti internazionali, rappresentava un’area delicata per il diritto internazionale, in quanto metteva in discussione i diritti sovrani del governo territoriale, e ancora più delicata per gli Stati Uniti, in quanto estendeva esplicitamente la protezione del diritto internazionale umanitario (DIU) ai conflitti armati in cui un popolo lotta contro la dominazione coloniale, l’occupazione aliena o i regimi razzisti.[2] Ciò significava che il Protocollo I si applicava agli interventi stranieri nei conflitti armati interni che erano lotte per il controllo dello Stato. Il Protocollo II fu un po’ meno controverso, in quanto estendeva il diritto internazionale umanitario a conflitti non internazionali e non aveva alcuna attinenza con la diplomazia interventista, sebbene cercasse di rendere conto del diritto internazionale umanitario per le guerre puramente interne, pretendendo di porre dei limiti giuridici ai diritti sovrani territoriali precedentemente illimitati.
Considerare tali conflitti come aventi diritto alla protezione internazionale è stato percepito come un indebolimento dell’autorità sovrana degli Stati nel trattare con i movimenti insurrezionali di opposizione senza essere soggetti alla responsabilità legale internazionale. Questa resistenza all’internazionalizzazione delle lotte anticoloniali riguarda direttamente le esperienze del Vietnam e della Palestina. In effetti, la diplomazia che ha prodotto il Protocollo è stata spinta dalle tattiche e dall’esperienza della guerra del Vietnam, che ha mostrato lacune nella copertura del diritto internazionale umanitario come specificato dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949.[3] L’importanza di esentare tali conflitti armati dal diritto internazionale umanitario fa parte dello sforzo geopolitico di mantenere la libertà di manovra geopolitica, come spiegano Cuddy e Kattan, nell’epocale passaggio internazionale dal precedente diritto internazionale incentrato sulla guerra totale alle nuove realtà di guerre limitate e senza fine, ma devastanti. La protezione delle popolazioni civili in questa nuova epoca di guerre post-coloniali, come in Siria, Yemen, Afghanistan, Iraq, Libia e Ucraina, suggerisce la necessità di un ulteriore rinnovamento e di un’efficace implementazione del diritto internazionale umanitario e del quadro generale del diritto bellico. Un merito di questo volume è quello di inquadrare questa transizione facendo riferimento alle esperienze del Vietnam e del Medio Oriente, con particolare riferimento all’irrisolta lotta palestinese. Questa lotta ha assunto una nuova rilevanza negli ultimi cinque anni a seguito di un emergente consenso della società civile sul fatto che le politiche e le pratiche di apartheid di Israele stanno bloccando la realizzazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese, a lungo negati.
Nel valutare questi sviluppi giuridici, due caratteristiche della società politica internazionale sono fondamentali e devono essere tenute presenti quando si parla di due zone di guerra geograficamente e psicopoliticamente distinte:
- il primato della geopolitica rispetto al diritto internazionale;
- il primato della necessità militare in situazioni di combattimento.
Queste due realtà, data l’assenza di istituzioni governative centralizzate a livello globale, hanno accentuato la marginalità del diritto internazionale nelle situazioni di guerra/pace, sia per quanto riguarda il ricorso alla forza che il comportamento delle parti nel corso della guerra.
Il riconoscimento di questi due vincoli definitivi sul ruolo del diritto internazionale in relazione alla guerra non deve portarci a conclusioni ciniche secondo cui “il diritto è irrilevante rispetto alla guerra” o che “il diritto internazionale non conta”. Il diritto internazionale è rilevante e ha importanza per diverse ragioni: dà potere all’attivismo della società civile; fornisce un canale per il dissenso interno alla guerra nelle società democratiche, sia nei circoli governativi che nella società civile; modera il comportamento degli Stati belligeranti nella misura in cui gli interessi reciproci sostengono il rispetto delle norme giuridiche internazionali (ad esempio, il trattamento dei prigionieri di guerra).
Durante la guerra del Vietnam, il governo degli Stati Uniti era più desideroso che in seguito di mantenere la sua immagine liberale di paladino di un ordine internazionale governato dal diritto, e quindi si impegnò a fondo per sostenere che le sue politiche e pratiche in Vietnam erano conformi al diritto internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite. Tali motivazioni legittimarono anche l’attivismo contro la guerra che poteva invocare il diritto internazionale per contestare il comportamento di Washington in Vietnam. Inoltre, ha incoraggiato i critici al Congresso a sollevare obiezioni con un linguaggio legale e costituzionale, e ha permesso a studiosi di diritto internazionale come me di essere invitati a testimoniare di fronte a commissioni del Congresso o a pubblicare articoli di opinione nei media tradizionali.[4]
Purtroppo, con la deriva più a destra della politica americana e l’influenza lobbistica dell’AIPAC e di altri gruppi sionisti, l’autorità del diritto internazionale e delle Nazioni Unite ha subito un forte declino. Gli Stati Uniti non investono più energie diplomatiche per sostenere un’immagine liberale e si affidano sempre più a minacce coercitive e al militarismo per perseguire i propri obiettivi di politica estera, soprattutto in Medio Oriente. Il ricorso a minacce illegali di attacco militare è stato al centro della diplomazia conflittuale statunitense/israeliana/saudita diretta all’Iran per diversi decenni. Questa tendenza ha raggiunto una sorta di culmine simbolico con l’imposizione di sanzioni al procuratore della Corte penale internazionale per aver raccomandato un’indagine sui crimini di guerra degli Stati Uniti in Afghanistan. Anche Israele ha risposto con una furiosa denuncia di questa istituzione internazionale per aver osato proporre un’indagine limitata sui suoi crimini nella Palestina occupata. Sebbene il governo statunitense, dopo un cambio di leadership presidenziale, abbia posto fine alle sanzioni imposte ai funzionari della CPI, si è rifiutato di accettare l’estensione dell’autorità della CPI per indagare su accuse contro se stesso o Israele. Dopo la crisi ucraina del 2022, il governo statunitense ha dato prova di un misto di ipocrisia e opportunismo, sollecitando le indagini della CPI sui crimini di guerra russi in Ucraina e l’incriminazione di Putin.
La furia di queste reazioni suggerisce due interpretazioni opposte. La prima, la più ovvia, è il rifiuto degli Stati leader di rimettersi al diritto internazionale in contesti in cui le questioni di sicurezza nazionale o gli allineamenti geopolitici sono fondamentali. La seconda è che la furia delle reazioni alle accuse giuridicamente inquadrate suggerisce quanto i governi e i leader di questi Stati diventino profondamente sensibili quando vengono accusati di gravi violazioni del diritto internazionale da procedure credibili. In risposta, tali governi non cercano di difendere il loro comportamento, ma si muovono per screditare e indebolire le procedure internazionali di responsabilità, in parte come forma di controllo dei danni per evitare un peggioramento della loro reputazione internazionale. Anche se la Corte penale internazionale dovesse perseguire e condannare, non c’è quasi nessuna prospettiva che le sue sentenze vengano applicate, e quindi l’intera reazione è volta a salvaguardare la legittimità e a contrastare le imposizioni da parte del dispiegamento di politiche simboliche come influenze causali nelle tradizionali sfere di autonomia geopolitica e sovrana.
Breve commento sulle due zone di guerra
Per gli Stati Uniti in Vietnam le norme della Carta erano percepite come incoerenti con la missione di impedire una vittoria comunista nel Vietnam del Sud e una successiva unificazione del Vietnam sotto il controllo di Hanoi. A Washington si riteneva che fosse militarmente necessario estendere la zona di guerra oltre i confini del Vietnam del Sud per punire il Vietnam del Nord per aver rifornito l’insurrezione anti-regime guidata dall’NLF. Allo stesso modo, l’estensione della guerra al Laos e alla Cambogia fu motivata dal calcolo di interrompere il sostegno alla guerra nel Vietnam del Sud mantenendo un’area di base e mantenendo le catene di rifornimento che passavano attraverso la Cambogia. Un ragionamento simile ha prodotto attacchi aerei sostenuti degli Stati Uniti sul Laos, abusando illegalmente dei privilegi diplomatici e orchestrando questa campagna militare dall’interno dell’ambasciata americana nella capitale laotiana di Vientiane. In altre parole, le priorità della Guerra Fredda hanno prevalso sugli sforzi per limitare il ricorso alla guerra e alle tattiche di guerra. Dall’altro lato, le priorità della liberazione nazionale e della legittimità anticoloniale prevalsero anche sui vincoli legali.
In Medio Oriente erano all’opera fattori simili, anche se temperati da alcune considerazioni di bilanciamento. Negli anni Sessanta gli Stati Uniti cercavano ancora di bilanciare, almeno in pubblico, il loro impegno nei confronti di Israele con i loro interessi strategici vitali di mantenere un accesso favorevole alle forniture regionali di petrolio a prezzi accessibili situate nei Paesi arabi. A questo proposito, contrariamente ai desideri di Israele dell’epoca, gli Stati Uniti, insieme ai Paesi europei, cercarono di affermare il diritto internazionale rispetto all’acquisizione di territori con la forza, la principale premessa della risoluzione di sicurezza 242 adottata all’unanimità dalle Nazioni Unite dopo la guerra del 1967. Tuttavia, anche allora non c’era una volontà politica sufficiente per mettere in pratica la retorica, insistendo su un tempestivo ritiro di Israele.
Ancora più rilevante per il focus del volume è il grado di elusione della norma della Carta sul ricorso alla guerra da parte degli antagonisti in Medio Oriente rispetto a Israele/Palestina. Sia Israele nel 1967 che l’Egitto nel 1973 hanno cercato di ottenere un vantaggio militare colpendo per primi, violando così apparentemente il requisito di un precedente attacco armato contenuto nell’articolo 51, anche se in ogni caso esistono contro-argomenti legali di tutto rispetto.[5] Entrambi i governi hanno difeso le loro azioni sostenendo che gli imperativi di sicurezza forniscono una convincente motivazione “legale” per la prelazione.
Per quanto riguarda le interconnessioni, entrambe le zone di guerra hanno prodotto conflitti che hanno ignorato il quadro fondamentale del diritto internazionale e della responsabilità istituzionale che è stato il segno distintivo degli sforzi di prevenzione della guerra dopo la Seconda Guerra Mondiale. La natura asimmetrica delle guerre ha messo a dura prova anche il diritto bellico durante i combattimenti, soprattutto in Indocina, ma anche in Medio Oriente, tanto che la guerra dopo il 1967 si è temporaneamente spostata verso gli sforzi palestinesi di perseguire una strategia di lotta armata che è stata designata come “terrorismo” da Israele e dai suoi sostenitori.[6] Durante i suoi vari attacchi militari contro la Gaza occupata, Israele ha mostrato un disprezzo per i vincoli del diritto internazionale, senza subire alcuna conseguenza negativa. Questa logica antiterroristica era stata utilizzata dagli Stati Uniti in Vietnam, ma con minore impatto a causa dell’esito della lotta e dell’assenza di un sostegno diffuso alla guerra in Occidente, anche negli Stati Uniti nelle sue ultime fasi.
Il diritto internazionale si evolve
In questo contesto è possibile comprendere meglio l’evoluzione del diritto internazionale. È importante rendersi conto che in un certo senso tutto il diritto internazionale è una “soft law”, a causa dell’assenza di procedure regolari di interpretazione e applicazione autoritaria, per non parlare dell'”esenzione geopolitica” dei vincitori della Seconda guerra mondiale implicita nel diritto di veto conferito dalla Carta.
Inoltre, il diritto internazionale in relazione alle questioni di pace e sicurezza soffre dei problemi speciali precedentemente menzionati, in particolare il primato della geopolitica e della necessità militare. La geopolitica manipola il diritto che regola il ricorso alla forza, mentre la necessità militare, per la sua priorità nelle circostanze di combattimento, rimodella costantemente il diritto che prevede l’uso della forza.
Un’importante interconnessione tra l’Indocina e il Medio Oriente è esemplificativa. In Indocina gli Stati Uniti hanno creato un forte precedente per ignorare le concezioni della Carta che regolano il diritto del ricorso alla forza. Hanno presentato alcune giustificazioni legali secondo cui il Vietnam del Nord era colpevole di “aggressione indiretta” per il suo sostegno all’insurrezione nel Sud, creando una base legale per estendere la guerra oltre il confine artificiale che delimitava il Vietnam del Sud. Dopo il presunto attacco del Golfo del Tonchino del 1964 alle navi americane in acque internazionali e l’attacco dell’NLF del febbraio 1965 a un campo militare americano nei pressi di Pleiku, il governo degli Stati Uniti spostò il suo fondamento giuridico su quello dell’autodifesa collettiva contro un precedente attacco armato [7] e sostenne che la Cambogia e il Laos avevano violato le leggi di guerra che regolano la neutralità permettendo che i loro territori fossero utilizzati per scopi ostili associati alle attività belligeranti del Vietnam del Nord.
Sebbene Israele nel 1967 e l’Egitto nel 1973 non abbiano specificamente invocato i precedenti americani stabiliti nella guerra del Vietnam, la loro condotta è stata messa al riparo da un esame critico dalla combinazione di un indebolimento dell’impegno geopolitico nei confronti della concezione della Carta del ricorso ammissibile alla forza e dalla sensazione che questi specifici ricorsi alla forza fossero nel loro contesto “ragionevoli”. A causa dell’allineamento geopolitico con Israele, l’attacco egiziano a sorpresa contro Israele è stato legalmente condannato dai Paesi occidentali, ma in un modo che lo ha fatto apparire più come un’espressione della diplomazia dell’alleanza che come una dichiarazione di fedeltà al diritto internazionale. Questo punto di vista è confermato dalla prassi seguita negli anni successivi al 1973.
Era anche evidente che l’Occidente controllava il discorso giuridico internazionale sull’uso ammissibile e non ammissibile della forza. In questo modo la violenza degli attori non statali e dei movimenti di liberazione è stata demonizzata come “terrorismo”, mentre la violenza di Stato, anche se diretta a obiettivi civili, è stata trattata sotto le voci di sicurezza e autodifesa piuttosto che delimitata come “terrore di Stato”. Questo discorso ha avuto un impatto più ampio dopo gli attacchi dell’11 settembre agli Stati Uniti e con il lancio della cosiddetta “guerra al terrorismo”. Ha avuto un forte impatto nei contesti mediorientali, consentendo soprattutto a Israele di convalidare l’uso eccessivo della forza e le punizioni collettive come misure di sicurezza o come esercizio del diritto di ogni Stato sovrano a difendersi. In una certa misura, soprattutto negli ultimi anni, le Nazioni Unite hanno sfidato questo discorso pubblicando molti rapporti sulle violazioni israeliane delle Convenzioni di Ginevra e del diritto internazionale umanitario più in generale. Questa tensione tra il discorso geopolitico e quello delle Nazioni Unite è ciò che porta gli Stati Uniti e Israele, in particolare, ad accusare le Nazioni Unite di essere parziali quando si tratta di violazioni del diritto internazionale. È questa tensione, tuttavia, che incoraggia le iniziative della società civile a rivendicare la legittimità del diritto internazionale, come nel caso del sostegno alla campagna BDS o delle sfide all’apartheid israeliano.
Va notato, per inciso, che quando gli interessi occidentali sono coinvolti, come nel caso della recente aggressione della Russia all’Ucraina, il quadro della Carta viene nuovamente invocato come se fosse autorevole e vincolante come quando fu adottato nel 1945. In altre parole, il destino delle norme è legato al controllo del discorso normativo internazionale, soprattutto in relazione alla geopolitica della propaganda. Per i partigiani ciò evidenzia la rilevanza del diritto internazionale, mentre per i giuristi oggettivi suggerisce la manipolazione del diritto come strumento politico di autoservizio, invocando giustamente la critica dei doppi standard.
Conclusione
La principale conclusione raggiunta è che il quadro della Carta stabilito nel 1945 è stato notevolmente indebolito, se non reso del tutto anacronistico, dall’impatto combinato dell’opportunismo geopolitico e delle circostanze militari nelle guerre che hanno avuto luogo in Indocina e in Medio Oriente nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. In una certa misura, si può affermare che il quadro della Carta è sempre stato irrealistico, dato il carattere di un sistema di ordine mondiale stato-centrico che comprendeva attori egemonici riconosciuti come tali dal loro diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, una realtà depotenziante che divenne pienamente evidente solo dopo l’inizio della Guerra Fredda.
Anche la natura dei conflitti, che consisteva in movimenti nazionalisti, non era prevista dal tipo di ordinamento giuridico previsto per il secondo dopoguerra e non era in grado di affrontare le sfide normative della guerra asimmetrica o delle guerre di liberazione nazionale.
Esiste anche un’importante tensione riguardo all’orientamento del discorso normativo. L’Occidente cerca un discorso statalista con una discrezionalità illimitata per gli attori geopolitici, ad eccezione, ovviamente, dei suoi rivali che devono essere ritenuti pienamente responsabili in riferimento al quadro della Carta delle Nazioni Unite. Il Sud, e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, sono generalmente favorevoli alle rivendicazioni dei movimenti nazionalisti e alle lotte anticoloniali, soprattutto se dirette alla liberazione dal controllo europeo o occidentale.
A questo proposito, questo discorso subalterno è favorevole alla situazione delle lotte di liberazione nazionale vietnamite e palestinesi, concretizzate nel diritto internazionale dall’ampio consenso a sostegno del diritto inalienabile all’autodeterminazione sancito dall’articolo 1 di entrambi i Patti internazionali sui diritti umani e più ampiamente riaffermato nell’influente Dichiarazione sui principi di diritto internazionale concernenti le relazioni amichevoli e la cooperazione tra gli Stati in conformità con la Carta delle Nazioni Unite.[8]
NOTE:
[1] In effetti, la violazione del diritto internazionale era così nota e l’incapacità delle Nazioni Unite di reagire così pronunciata che il celebre filosofo britannico Bertrand Russell convocò un tribunale della società civile incaricato di valutare la condotta illegale e i crimini internazionali. Il tribunale era composto da importanti intellettuali pubblici, presieduto da Jean-Paul Sartre, e produsse una serie completa e documentata di conclusioni relative alle violazioni delle leggi di guerra da parte degli Stati Uniti. Si veda John Duffett, ed., Against the Crime of Silence: Proceedings of the Russell International War Crimes Tribunal, (1968). Si veda anche il capitolo di Tor Krever in questo volume per una discussione più dettagliata del Tribunale Russell.
[2] Sulle ragioni del rifiuto degli Stati Uniti di ratificare i Protocolli aggiuntivi si veda il capitolo di Victor Kattan in questo volume.
[3] Sull’influenza dei conflitti in Vietnam e arabo-israeliano sulla stesura del Protocollo aggiuntivo 1 si vedano i capitoli di Amanda Alexander e Ihab Shalbak e Jessica Whyte in questo volume.
[Sul significato del diritto internazionale per l’attivismo della società civile e il dissenso interno durante la guerra del Vietnam, si veda il capitolo di Madelaine Chiam e Brian Cuddy in questo volume.
[5] Si veda il capitolo di John Quigley in questo volume per una diversa caratterizzazione giuridica della responsabilità per l’avvio della guerra del 1973. Si veda anche John B. Quigley, The Six-Day War and Israeli Self-Defense: Questioning the Legal Basis for Preventive War (Cambridge University Press 2013).
[6] Sullo sviluppo del “diritto operativo” negli Stati Uniti e in Israele, che sembra essere stato sviluppato in parte in risposta alle condizioni di conflitto in Vietnam e in Medio Oriente e alle nuove regole del diritto internazionale umanitario dei Protocolli aggiuntivi del 1977, si veda il capitolo di Craig Jones in questo volume.
[7] Per un’ulteriore analisi si veda il capitolo di Brian Cuddy in questo volume. Sia l’attacco del Golfo del Tonchino che quello di Pleiku furono utilizzati per giustificare i piani di espansione della zona di combattimento in Vietnam verso il nord del Paese, oltre il confine internazionale.
[8] Risoluzione 2625 dell’Assemblea Generale, 24 ottobre 1970, A/Res/2625.
TRANSCEND MEMBERS, 28 Aug 2023
Richard Falk | Global Justice in the 21st Century – TRANSCEND Media Service
Traduzione di Enzo Gargano per il Centro Studi Sereno Regis
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