Riflessioni su un anniversario
“Tutto sa di osceno,” disse un mio amico sette anni fa, quando bombardammo a tappeto Baghdad iniziando l’invasione. Lo dice ancora, ma in modo monotono, cronico, “deluso” — l’indignazione mescolata, in questi ultimi anni, alla “speranza” che ha intriso lo sforzo bellico di una densa ambivalenza nazionale.
Continua sempre? Beh, sì, con una tormentosa assurdità di cui non vale la pena parlare o discutere più. La composita offerta di giustificazioni è stata chiusa permanentemente: il legame con l’11 settembre, le armi di distruzione di massa, “un’altra Monaco”, ”democrazia per il Medio Oriente”. Nessuno spaccia più le Patatine della Libertà. La guerra in Iraq semplicemente continua perché una guerra in atto, specialmente quando non è davvero una guerra, quando non c’è un nemico con cui negoziare, non è in grado, lo si sa, di fermarsi. Quando non si ha davvero una missione, portarla a compimento è proprio difficile.
Sicché mi scopro ad assistere al settimo anniversario in uno stato di angustia privata, rimasticando amaramente i limiti della politica. Per quanto il presidente Obama possa credere a un qualche lento, cauto cambiamento in fondo alla sua anima politica, può solo tentare di attuarlo mediante la solita politica.
Temo che quello che ci vuole per il futuro non possa trovarsi lì, e che agitare i nostri pugni esigendo un cambiamento — la pace — partendo da questi presupposti, o da politici invischiati in tale schema, per esempio mediante marce e proteste per gli anniversari di cattive guerre, non realizzerà i mutamenti che spero di vedere durante la mia esistenza. Dico questo non per svalutare la protesta o il movimento contro la guerra, che nel corso degli ultimi cent’anni è diventato una presenza culturale permanente.
In effetti, sette anni fa, quando milioni di persone in tutto il mondo scesero in strada per protestare contro l’invasione dell’Iraq, Robert Muller, ex-assistente del segretario generale delle Nazioni Unite e fondatore dell’Università ONU per la Pace in Costa Rica, chiamò il fenomeno “l’altra superpotenza”.
“Mai prima nella storia del mondo”, disse, “c’è stato un dialogo globale, visibile, pubblico, valido, aperto, sulla legittimità stessa della guerra”.
Per un intenso momento, ho creduto che una marea montante d’indignazione, uno tsunami globale di compassione, potesse dare scacco a un impero e impedire una guerra. Se abbastanza gente si faceva sentire, potevamo seppellire nel passato la paura e il relativismo morale che tramuta l’amor patrio in odio per un nemico designato — cioè il patriottismo — e sradicare la guerra stessa.
Dopo sette anni di fiasco irakeno, otto e mezzo dall’inizio della guerra al terrore (che io chiamo la guerra pro-terrore) con l’invasione dell’Afghanistan, vedo le cose con un po’ più di chiarezza. Pur potendo registrare qualche successo degno di nota nella colonna negativa del libro mastro — la cacciata di repubblicani e neocon dal potere, la sfida e la censura alla tortura — di fatto è cambiato ben poco.
Le guerre continuano e il dibattito in merito, per come viene riferito sui media di tendenza principale, è limitato e superficiale quanto mai. Il bilancio della difesa è ancor sempre l’oca da ingrasso del complesso militare-industriale. E, a livello interno, prosperano crimine e punizione, a vantaggio del complesso carcerario-industriale. Gli Stati Uniti sono di gran lunga in testa in entrambi i settori.
E il ritiro del partito repubblicano e della destra spacciatrice di paura dal predominio politico è ovviamente solo temporanea. Ci separa solo un buon attacco terroristico dal loro trionfante ritorno al centro della scena politica USA, le armi già pronte e un elenco di nemici in mano. La cultura di guerra sboccia in eterno, nonostante i suoi grotteschi fallimenti di ieri.
Non sorprende, come facevano notare Clare Bayard e Sarah Lazare su Common Dreams la scorsa settimana <http://www.commondreams.org/view/2010/03/19-2> (“Tempo di rinascita: il movimento contro la guerra USA sta macerandosi, sognando, crescendo”) che “Il numero totale di dimostranti contro la guerra, che un mese prima dell’invasione dell’Iraq coordinarono le maggiori proteste storiche di strada al mondo, è precipitato di anno in anno mentre tentavamo di colpire il maledetto anniversario.”
L’ altra superpotenza di Muller era dunque un’illusione? E’ stata sconfitta dall’esaurimento e dalla disperazione? Il matrimonio fra il complesso militare-industriale-mediatico e la destra cristiano-evangelica è una forza troppo impetuosa e radicata per poterla sconfiggere? E’ una forza combattente, abbondantemente foraggiata, disciplinata dalla paura, non ostacolata dalla razionalità, che non vede le conseguenze negative delle proprie azioni, e pronta ad andare fino in fondo, pare, per mantenere e perpetuare il proprio potere.
Disarmare e reindirizzare questa forza, che si richiama alla certezza patriarcale che ha plasmato le grandi civiltà del passato (Roma “fece un deserto e lo chiamò pace”), è più di quanto possa eventualmente conseguire una mobilitazione specifica contro una guerra. E’ il compito di molte generazioni, ma dobbiamo ricordarci che tali enormi successi come l’invenzione della democrazia, la diffusione della coscienza ecologica e il trionfo del movimento dei diritti civili sono pietre miliari già raggiunte.
L’ altra superpotenza, i cittadini di un mondo in costante trasformazione, sempre tesi a costruire una pace più giusta e onnicomprensiva, è vivo, radiante, e silenziosamente intento a creare il futuro con innumerevoli iniziative per acquietare il cuore della violenza. L’ anniversario di questa guerra sconsiderata mi ferisce, ma rimango impegnato nella creazione di un mondo dove il prossimo non sia un’opzione.
TMS 05.04.10
Titolo originale: REFLECTIONS ON AN ANNIVERSARY
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=2975
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
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