Questi maledetti pacifisti!

Alberto Castelli

A partire dallo scoppio della guerra in Ucraina, i pacifisti e i nonviolenti non hanno sostenuto che gli ucraini si dovessero arrendere. Hanno invece insistito nell’affermare che la guerra non è l’unica resistenza possibile e hanno cercato di mobilitare le opinioni pubbliche affinché chiedesse con forza ai propri governi di impegnarsi per avviare un negoziato o, almeno, in prima battuta, un “cessate il fuoco” da entrambe le parti. Una simile richiesta, non si è motivata né dalla simpatia per la politica estera di Putin, né da un utopismo sterile che farebbe loro sognare un mondo che non esiste. Si è motivata dalla coscienza che, nella situazione in cui si trovano gli ucraini, la guerra ha buone probabilità di non essere una soluzione migliore del male che si vorrebbe respingere.

Sostenere che la guerra sia un male non significa sostenere che una dominazione del Paese da parte russa sia più desiderabile. Significa ricordare quel che sappiamo da tempo immemorabile: che la guerra comporta inevitabilmente sofferenze, morti di innocenti e distruzioni terribili, che lasceranno il segno sulla società, sull’economia, sulla politica, sull’ambiente in Ucraina (e non solo) per generazioni. Vorrei fare un esempio concreto, per non lasciare tutto il male che la guerra comporta all’immaginazione: in un’intervista al generale Giorgio Battisti, pubblicata su Fanpage.it, si riporta che, secondo fonti ucraine, gli stessi ucraini “perdono dai 3 e ai 5 uomini tra morti e feriti per ogni 100 metri di avanzata”.

Questi “uomini” sono ragazzi o giovani uomini, che possono avere dai venti ai trent’anni, e la loro età si abbassa costantemente perché, “con un tasso di logoramento altissimo” è difficile “rimpiazzare i militari morti o feriti con altrettanti soldati che siano alla stessa altezza in termini di addestramento e professionalità”. Ecco, di fronte a notizie come queste, ci si può davvero chiedere quale obiettivo valga tutto questo. Quale altissimo scopo politico/morale/simbolico vale tre ragazzi ucraini morti ogni 100 metri? Non varrebbe la pena di cercare con ostinazione un’alternativa? Queste sono le domande che si sono posti i pacifisti, nei mesi scorsi.

Come avviene in occasione di ogni guerra, queste domande sono state accolte con una lunga fila di accuse e di insulti. Si è detto ai pacifisti che non capivano la situazione, che Putin è il Male e con il Male non si negozia (come non si doveva negoziare con Hitler nel ’38). Rispolverando gli articoli di Orwell sulla guerra al nazismo, si è detto che essere pacifisti nel mezzo del conflitto significa schierarsi oggettivamente con Putin; da qui, le accuse ai pacifisti di essere “fiancheggiatori di Putin”, “pacifinti” ecc. Naturalmente si sono accusati i pacifisti anche di tradire le sacre memorie della Resistenza. L’argomento è più o meno questo: come è stato un alto Dovere Morale, per i nostri nonni, imbracciare le armi contro il nazifascismo, così è nostro Dovere Morale sostenere il glorioso popolo ucraino nella sua Resistenza agli invasori russi.

È difficile rispondere a queste accuse in modo pacato perché sono del tutto strumentali. Provo a farlo in poche battute: Putin non è il Male incarnato, è un dittatore come ce ne sono altri (con la differenza che ha a disposizione un arsenale nucleare). Con lui l’occidente ha trattato per anni e, d’altra parte, il dialogo con i dittatori è una cosa che i Paesi democratici fanno tutti i giorni. Con Putin, dunque, si può negoziare. Negoziare non significa arrendersi alle sue mire di potenza (come si è fatto con Hitler nel 1938), ma proporre un dialogo che abbia al centro la pace.

Putin | Foto kremlin.ru (CC BY 4.0)

Orwell aveva probabilmente molte ragioni quando diceva che, nel 1940, i pacifisti inglesi erano oggettivamente (contro la loro stessa intenzione) alleati di Hitler, ma questo non significa che l’unica posizione accettabile di fronte alla guerra in Ucraina sia approvare la politica della Nato. Quanto al paragone tra la guerra in Ucraina e la Resistenza, be’… non sta in piedi per un sacco di ragioni che si trovano in un qualsiasi manuale di storia; e, a parte questo, Gandhi, Martin Luther King, Capitini, Mandela, Havel e tanti altri ci hanno insegnato che la resistenza all’oppressione non passa necessariamente per la canna di un fucile.

L’impressione che lasciano queste critiche al pacifismo è che siano volte a banalizzare e a ridicolizzare chi si pone domande sul senso dell’invio delle armi in Ucraina, per ragioni di interesse o di posizionamento politico; non certo per avviare una riflessione seria sulla situazione e sul ruolo della guerra nella situazione ucraina. Invece, proprio questa riflessione sarebbe di estrema urgenza.


 

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