Le radici economiche delle guerre

Rita Vittori

Che le guerre siano una costante nella storia ce l’hanno fatto studiare, e ci hanno abituato a giustificarle con motivazioni molto diverse: dalla volontà di conquista, a motivazioni ideologiche, religiose, alla volontà di liberarsi dall’oppressione di un dominio straniero. Poco si parla o non abbastanza delle radici economiche delle guerre, degli interessi economici della volontà bellicista: rappresentano e hanno rappresentato una grande spinta delle guerre.

Approfondire il tema delle risorse naturali di un paese da accaparrarsi può arricchire l’analisi anche di quelle  guerre che sono al centro della nostra attenzione.

Sotto il territorio ucraino

Un interessante articolo pubblicato da «The New York Times» nel 2022, mette in luce come l’invasione della Russia dell’Ucraina sia avvenuta proprio prima che il presidente Zelens’kyj avesse  iniziato a mettere all’asta i permessi di esplorazione per sviluppare le proprie riserve di litio, rame, cobalto e nichel, tutte risorse naturali fondamentali nella tecnologia dell’energia pulita e nella produzione di batterie. Infatti nel sottosuolo dell’Ucraina si trova una vasta ricchezza mineraria non sfruttata, tra cui appunto l’ossido di litio. E già nel 2021 una società cinese – Chengxin Lithium – aveva  richiesto i diritti su due depositi di litio in Ucraina, ottenendo così la possibilità di avere un punto d’appoggio nell’industria europea del litio. Anche European Lithium, una società australiana, sempre nel 2021, aveva dichiarato di essere in procinto di ottenere i diritti su due giacimenti di litio in due zone (al centro e nella parte orientale dell’Ucraina).

L’Ucraina era in procinto di diventare una fonte importante in quanto i maggiori giacimenti di litio, cobalto e terre rare si trovano sotto il suo territorio oltre che in Cina, Australia e Repubblica Democratica del Congo.

Come dire? La preoccupazione degli Stati Uniti e dell’Europa era ed è che i minerali necessari per la transizione ecologica siano in mano a pochissimi Paesi. L’assetto geopolitico del mondo si sta spostando. E sempre nel 2022 in un articolo de «Il Fatto Quotidiano» si legge come già nel 2022  quasi 13mila miliardi di dollari di depositi energetici, metalli e minerali dell’Ucraina erano sotto il controllo russo, come denunciava su «The Washington Post» il gruppo di esperti di SecDev (società canadese che si occupa di analisi del rischio):

«Secondo SecDev, infatti, da quando l’invasione è iniziata a febbraio, Mosca ha preso il controllo di 41 giacimenti di carbone, 27 siti di gas naturale, 14 siti di propano, nove giacimenti petroliferi, sei giacimenti di minerale di ferro, due siti di titanio, due siti di zirconio, un sito di stronzio, un sito di litio, un sito di uranio, un giacimento di oro e un’importante cava di calcare precedentemente utilizzata per la produzione di acciaio ucraino».

In altre parole, la Russia sta cercando di impedire all’Ucraina di diventare un partner economico importante per l’Europa.

E a Gaza?

Anche nella guerra Gaza-Israele l’accesso alle risorse energetiche rappresenta una delle fonti di tensione. Infatti il territorio di ambedue i Paesi è povero di risorse energetiche e dipendono entrambi dall’estero. Esiste in verità un piccolo giacimento di petrolio al confine tra Israele e Cisgiordania (guarda caso) sfruttato dal 2010 a Meged, oggetto di contesa: mentre l’ANP [Autorità Nazionale Palestinese, NdR] sostiene che circa l’80% giaccia sotto i territori palestinesi, il governo israeliano lo utilizza senza coinvolgere l’Autorità Palestinese.

Ma la vera ricchezza è rappresentata dal gas naturale: Israele ha scoperto negli anni Duemila vasti giacimenti di gas naturale, i più grandi dei quali sono denominati Leviathan e Tamar, diventando persino un Paese esportatore. Anche la Palestina disporrebbe di riserve offshore. Nel 1999 l’Autorità Palestinese concesse una licenza per la ricerca di idrocarburi al British Gas Group, che l’anno successivo ne scoprì un grosso giacimento al largo delle coste di Gaza, noto come Gaza Marine. Ma la Palestina non può sfruttarlo in seguito al blocco navale intorno alla Striscia di Gaza imposto da Israele nel 2007, quando per Hamas cominciò l’ascesa al potere.

Tre settimane dopo l’attacco di Hamas il Ministero dell’Energia israeliano concesse ad alcune compagnie petrolifere internazionali (tra cui l’ Eni) licenze per l’esplorazione delle acque davanti a Gaza per la ricerca del gas naturale. Tali licenze sono state dichiarate illegittime in quanto violerebbero il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale consuetudinario: infatti secondo il diritto internazionale a Israele (essendo forza di occupazione) è vietato sfruttare le risorse limitate non rinnovabili del territorio occupato esaurendo le risorse naturali per scopi commerciali che non siano a beneficio della popolazione occupata (secondo l’articolo 55 della Convenzione de L’Aia).

Alcuni gruppi palestinesi per i diritti umani (Adalah, Al Mezan, Al-Haq e Pchr) hanno dato mandato allo studio legale Foley Hoag di Boston di comunicare all’Eni e alle altre società coinvolte una diffida dall’intraprendere attività in queste acque; se continuassero si potrebbe rischiare la denuncia di complicità in crimini di guerra.

Lungo silenzio del nostro Governo: modalità ormai usata in varie circostanze (non si tratta  di eleganza istituzionale). Solo quando Angelo Bonelli (Avs) ha presentato un’interrogazione parlamentare sulle attività di esplorazione di Eni nelle aree marittime della Striscia di Gaza, il Ministro Tajani si è deciso a rispondere. Ma in che modo?

«A fine ottobre il governo israeliano ha comunicato l’assegnazione della cosiddetta ‘zona G’ ad un consorzio che comprende Eni e altri due operatori internazionali. Da quanto riferisce Eni, il contratto è ancora in via di finalizzazione. Il consorzio perciò non ha alcuna titolarità sull’area, né sono in corso operazioni che avrebbero, comunque, natura ‘esplorativa’. Non vi è dunque al momento alcuno ‘sfruttamento’ di risorse».

Negare l’evidenza, distorcere le informazioni. Altra modalità usata dal governo attuale. Sta di fatto che se non fosse stato per la denuncia di questi gruppi umanitari che si è tramutata in diffida ufficiale all’Eni, questi accordi illegittimi non sarebbero stati conosciuti dall’ opinione pubblica.

Mentre le nostre preoccupazioni su un futuro coinvolgimento di un intervento diretto dell’Europa in Ucraina diventano sempre più fondate non possiamo se non alzare ancora più forte le nostre voci per esprimere la nostra contrarietà sulle scelte dissennate dell’Europa e del nostro Governo.


 

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