Dai cicloni alla cattura dell’anidride carbonica… e ritorno. Aprire gli occhi sul mondo come ‘mercato’

Elena Camino

Bisogna che ci rendiamo conto degli effetti globali delle nostre scelte (individuali, ma anche collettive, dai cicloni all’estrazione artificiale dell’anidride carbonica) e che ci impegniamo – come cittadini – a smascherare i persistenti tentativi di trasformare il mondo in un mercato.

Faccio parte di una piccola associazione che collabora con una ONG indiana gandhiana, l’ASSEFA (Association For Sarva Seva Farms), che da 50 anni opera nelle aree rurali più povere – soprattutto in Tamilnadu – per sostenere processi di autosviluppo di comunità rurali impoverite ed emarginate.

Due giorni fa, con una mail, mi hanno informata che in questo periodo piove molto, in Tamilnadu. Da un lato c’è sollievo per questo abbondante monsone, dopo anni di grande siccità: le grandi vasche di raccolta dell’acqua piovana, sparse ovunque sul territorio, sono piene, e promettono disponibilità abbondante di acqua per le prossime stagioni.

Tuttavia nelle scorse settimane nella parte settentrionale dello Stato si è abbattuto un ciclone, Nivar, che ha provocato danni e alluvioni. E in questi giorni c’è trepidazione per l’annuncio di un altro ciclone, chiamato Burevi, che sta per abbattersi lungo la costa meridionale del Tamilnadu: arriva dallo Sri Lanka, e si sposta velocemente verso il Kerala.

Le immagini satellitari sono impressionanti: è stata diramata l’allerta, messe in sicurezza le imbarcazioni lungo le coste, e squadre di soccorso sono schierate nelle aree più soggette ad allagamenti e alluvioni.  

Anche i nostri amici dell’ASSEFA sono pronti – come sempre più spesso negli ultimi anni – a intervenire in soccorso di gruppi e comunità in difficoltà nelle zone rurali.

Come milioni di altre persone, soprattutto nel Sud del mondo, si trovano a dover fronteggiare situazioni inedite e molto pericolose, provocate dalle conseguenze di un modello di sviluppo che ha innescato trasformazioni globali del nostro pianeta. 

I cicloni e il cambiamento climatico

È ormai evidente il nesso tra la crescente instabilità del clima – che si manifesta ovunque nel mondo con fenomeni ‘estremi’ (violente precipitazioni, venti fortissimi, sbalzi improvvisi di temperatura) – e l’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera, con il conseguente aumento  dell’energia che rimane ‘intrappolata’ e alimenta le perturbazioni.  

Tra le iniziative tecnologiche che si stanno sviluppando per contenere o ridurre la concentrazione di CO2 , due in particolare sono complementari tra loro: da un lato – a monte – occorre ridurre la produzione di CO2 (intervenendo soprattutto sui processi produttivi che ne emettono di più, per es.  processi industriali, allevamenti intensivi, trasporti), dall’altro – a valle – si cerca di favorirne la ‘cattura’ e il riassorbimento.

Mentre mancano norme stringenti che pongano limiti a una crescita economica che sta pericolosamente consumando le risorse naturali utilizzando i combustibili fossili, e produce sempre più CO2, ingenti finanziamenti vengono rivolti a ricerche e applicazioni tecnologiche volte ad ridurre l’accumulo di gas serra in atmosfera,  grazie al ‘sequestro’ della CO2, il  ‘carbon cleanup’.

Finanziamenti durante la pandemia

Importanti finanziamenti che sono stati resi disponibili durante la pandemia da COVID-19 vengono assegnati per orientare i paesi e le società ad alleggerire l’impatto ambientale antropico.

Sotto la voce ‘mitigazione del clima’ i governi stanno sovvenzionando lo sviluppo commerciale di metodi chimici industriali di cattura del carbonio, con la prospettiva di “rimuovere” l’anidride carbonica che emettiamo, senza rinunciare a utilizzare combustibili fossili.

In un articolo scientifico pubblicato all’inizio di ottobre 2020 due ricercatrici – June Sekera (USA e UK) e Andreas Lichtenberger (USA) – hanno comunicato i risultati di una loro indagine, eseguita sulla letteratura scientifica riguardante la ‘rimozione industriale di carbonio’ (industrial carbon removal –ICR), in cui giungono alla conclusione che i metodi commerciali di ICR sovvenzionati dai governi complessivamente immettono in atmosfera più CO2 di quella che sequestrano.

Questo risultato potrebbe finire nascosto in mezzo all’estesissima letteratura scientifica che si occupa di questa tematica… ma una delle due ricercatrici, June Sekera, ha deciso di comunicare questo risultato anche in forma sintetica e semplificata, in modo da renderlo accessibile al pubblico di non specialisti, alla società civile, ai decisori politici… Questo breve articolo è stato pubblicato su una rivista tedesca (Handelsblatt), il 20 agosto 2020. E dalla versione inglese, disponibile sullo stesso sito, traggo a mia volta una sintesi dei passi più significativi.

Carbon Cleanup. Il pubblico paga, ma chi ne trae vantaggio?

June Sekera ci spiega che i due metodi più ampiamente finanziati con le tasse dei cittadini sono: a) cattura e immagazzinamento del carbonio (“Carbon capture and storage” – CCS) che preleva la CO2 direttamente dalle emissioni degli impianti industriali, e b) la cattura diffusa dall’aria (“Direct air capture” – DAC) che estrae direttamente questo gas dall’atmosfera, consumando una enorme quantità di energia. Gli studi finora eseguiti mostrano che questi metodi emettono una quantità di CO2 che è da 1,4 a 4,7 volte superiore di quella che rimuovono.

La studiosa sottolinea che abbiamo effettivamente bisogno di ridurre la concentrazione atmosferica di CO2, ma che non dobbiamo farlo con incentivi finanziari agli attori del mercato, come se fosse un prodotto che poi viene ri-utilizzato: i potenziali usi della CO2 sequestrata sono minimi, mentre sono ben documentati i possibili rischi associati all’immagazzinamento geologico (terremoti, contaminazione delle acque, esplosioni).

No al ‘green washing’

June Sekera è molto chiara: i sussidi pubblici erogati a imprese del mercato non sono giustificati.

Se si decide che è essenziale sequestrare la CO2 (anche se a suo parere si tratta di una scelta discutibile) e che si utilizzino soldi pubblici, occorre che

  1. I decisori politici abbiano a disposizione uno strumento che permetta loro di comparare tutti i metodi – industriali e biologici;
  2. La riduzione della CO2 sia vista come servizio pubblico, al pari dei servizi di rimozione dei rifiuti o di smaltimento delle acque reflue, e non come un’opportunità per profitti privati.

La tecnologia, le competenze e il controllo devono essere gestite dall’ente pubblico, il cui compito è soddisfare le esigenze della società.

E cambiare prospettiva?

Nel lungo articolo scientifico da cui June Sekera ha tratto l’articolo divulgativo (che io ho ulteriormente semplificato), le Autrici hanno svolto un approfondito lavoro in cui hanno espresso e argomentato in dettaglio le loro critiche alle ricerche analizzate.

Nella parte conclusiva del lavoro riprendono un concetto di carattere generale che si può riassumere così: per valutare metodi alternativi di riduzione della CO2 atmosferica in una prospettiva biofisica globale, dobbiamo passare da una visione mercato-centrica a una visione bio-centrica, e da un “contesto di mercato”, che condiziona e vincola la maggior parte delle ricerche e delle scelte, a un “contesto biofisico”, che prende atto dei limiti biofisici del pianeta e delle condizioni di disequilibrio ambientale e sociale ai quali si dovrebbe porre rimedio.   

Il discorso tecnico-scientifico lascia così il posto a una riflessione sui valori: abbiamo bisogno di un “vero criterio di valore” in base al quale scegliere tra le alternative esistenti.

Dall’artificiale al naturale

La pervasività dell’approccio ‘di mercato’, cioè la visione della CO2 come un potenziale prodotto da catturare e vendere a scopo di lucro, sembra accecare la maggior parte dei ricercatori, impedendo loro di prendere in considerazione un processo ‘non mercantile’ di immagazzinamento della CO2: quello svolto dalla natura vivente.  

I sistemi biologici rimuovono la CO2 dall’atmosfera e la sequestrano nel suolo e nella biomassa. Tali sistemi includono foreste (rimboschimento, prevenzione della deforestazione); tecniche agricole (sequestro del carbonio del suolo e della biomassa attraverso l’agro-ecologia); ripristino di prati e zone umide. 

Una ricerca preliminare svolta dalle Autrici suggerisce che i metodi biologici non solo sono più efficaci nella riduzione della CO2 atmosferica, ma possono anche essere più efficienti nell’utilizzo delle risorse, in termini di energia e di suolo. Inoltre, forniscono co-vantaggi come il ripristino dei nutrienti del suolo, la filtrazione dell’aria e dell’acqua, la gestione degli incendi e il controllo delle inondazioni.

Ecco… le inondazioni. Mentre gli amici dell’ASSEFA India aspettano con apprensione l’arrivo del ciclone Burevi, è importante che ci rendiamo conto degli effetti globali delle nostre scelte (individuali, ma anche collettive) e che ci impegniamo – come cittadini – a smascherare i persistenti tentativi di trasformare il mondo in un mercato.

Rinnoviamo invece la nostra relazione di reverenza e di rispetto verso Gaia, la nostra terra.  

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