Cinema – La versione di Jean: il diritto di raccontare | Maria Chiara Todaro

LA VERSIONE DI JEAN, (JEAN’S VERSION), di Manuela Cencetti, Jean Diaconescu, Stella Iannitto. Nazione: Italia, anno: 2020, durata: 50

versione jean campo rom

La versione di Jean è una storia vera, raccontata attraverso voci, suoni, immagini e movimenti catturati da Jean Diaconescu, che ha vissuto per anni nel “campo rom” di Lungo Stura Lazio, il “Platz”, nella periferia nord di Torino, una delle più grandi baraccopoli dell’Europa occidentale. 

Nel 2013 la Città di Torino ha coordinato un progetto chiamato “La città possibile” che, con un ingente finanziamento pari a 5 milioni di euro, avrebbe dovuto promuovere “iniziative a favore delle persone rom”, ma che in realtà si è rivelato uno sgombero “dolcemente” imposto a migliaia di persone povere, le quali dovevano firmare un “contratto” con cui si impegnavano a distruggere la propria baracca per iniziare un percorso verso la “civilizzazione”.

versione jean campo rom

Le condizioni di vita dei suoi abitanti non sono cambiate e le persone si sono disperse, occupando altri campi e altri margini, come l’ex caserma Lamarmora in via Asti o via Germagnano.

Anche se oggi del campo non rimane più nulla, nel 2015 Jean, insieme a Manuela Cencetti e Stella Iannitto, ha dato avvio a un progetto che cerca di ricostruire, attraverso la raccolta di materiali e filmati, la voce di tutte quelle persone che da tempo non ne avevano.

Il protagonista con il suo cellulare e con il suo coraggio filma la verità che aveva intorno, documenta l’esistenza di un qualcosa che ufficialmente non esisteva e racconta una storia che, da decenni, viene strutturalmente distorta dagli occhi esterni. La vegetazione ormai è cresciuta su quei detriti e, in quei pochi resti che si scorgono tra le macerie, ritroviamo un passato vivo. La versione di Jean ci porta proprio lì, in quel piccolo mondo che pullulava di voci e preghiere.

versione jean campo rom

Il percorso parte all’interno di una chiesa durante la celebrazione di un battesimo, in mezzo a fisarmoniche e canti. Quella stessa chiesa, una volta sgomberato il campo, è stata distrutta. Un ultimo gesto distruttivo che si libera di ciò che, da decenni, è stato considerato un “problema” da allontanare e collocare ai margini, nell’invisibilità e nell’esclusione.

I video ci mostrano come facilmente si frammentano quei fragili “diritti” che erano concessi a queste persone, alle quali è stato tolto addirittura il diritto di avere un tetto sopra la testa.

«Ho visto che ha tirato fuori la pistola» è la prima frase che sentiamo e proviene dalla bocca di un bambino. La violenza diretta che trapela in quei rapidi video nasconde e nasce da un tipo di violenza molto più letale, la violenza strutturale, che non ha bisogno di esecutori perché è intrinseca alla società stessa. 

La facilità con cui si è imposto agli individui di distruggere le proprie baracche è disarmante: bambini spaventati, genitori disperati, anziani stanchi di lottare vengono svegliati alle cinque del mattino dal rumore delle ruspe. «Per gli altri queste sono delle baracche, per noi sono case». 

Aramis, il ragazzo che durante i primi minuti vediamo bloccato a terra con lo spray, aveva protestato per questo. Nella sua baracca sequestrata viveva sua madre e, prima di andar via, voleva recuperare i pochi beni che aveva. Aramis è stato arrestato e condannato a sei mesi per resistenza a pubblico ufficiale: è ciò che hanno affermato i vigili, presentandosi in aula con il collare. Il film ci mostra un uomo a terra, che non aggredisce, ma subisce.

Il campo è un luogo precario, provvisorio, incerto, fragile, su cui la forza pubblica ha potere di distruzione e in cui “vengono buttati” gli “emarginati”, rom e non rom, come se quello fosse il luogo naturale in cui vorrebbero e dovrebbero vivere, ma che invece è solo il luogo in cui sono costretti ad abitare a causa di una decisione presa dall’alto, che quasi punisce la loro povertà e, soprattutto, la loro identità.

versione jean campo rom

Il film si chiude con Jean che passeggia sui resti della baraccopoli, si siede sul divano su cui era solito sedersi e si guarda intorno. Non rimane più nulla, ma prima dei titoli di coda è giusto ricordare che in quelle baraccopoli le persone pregavano, si divertivano, ballavano, cantavano e, soprattutto, rimanevano uniti.

Unione e solidarietà: sarebbe una grande conquista se queste due parole fossero trattate con la stessa importanza con cui trattiamo tante altre che, invece, dovrebbero essere rilette.

«Il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta».

Ernesto De Martino

Con le parole di Ernesto De Martino si chiude il film, lasciandoci uno spazio nero su cui far germogliare una riflessione.

Io ho iniziato così:

cosa intendiamo per “civilizzazione”? E chi ha veramente bisogno di iniziare un percorso verso la civilizzazione?


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