Il mito della ‘democrazia’ di Israele

Chris Hedges, Ilan Pappé

Lo status d’Israele quale autentica democrazia viene considerato auto-evidente, ma uno sguardo più critico alla storia e alla realtà del sionismo lo rende discutibile. Dopo tutto, come può esistere una democrazia in un paese costituzionalmente definito come etnostato che può solo sussistere con la repressione e graduale eliminazione degli Altri? Lo storico Ilan Pappé e il giornalista Chris Hedges trattano la tesi di Israele quale progetto inerentemente coloniale e quindi anti-democratico.

Chris Hedges

Lo studioso Yeshayahu Leibowitz, definito da Israel Berlin la coscienza d’Israele, ammonì che “Se Israele non avesse separato chiesa e stato, avrebbe dato luogo a un rabbinato corrotto che avrebbe contorto il giudaismo in un culto fascista. Il nazionalismo religioso sta alla religione come il nazional-socialismo sta al socialismo”, ci tenne a far sapere Leibowitz, morto nel 1994. Capiva bene che la cieca venerazione dell’apparato militare, specialmente dopo la guerra del 1967 che catturò la Cisgiordania e Gerusalemme-est, era pericolosa e avrebbe condotto infine alla distruzione della democrazia. “La nostra situazione si deteriorerà fino a quella di un secondo Vietnam, a una guerra in costante intensificazione senza prospettive di una risoluzione ultima” scrisse.

Previde che gli arabi sarebbero stati la forza lavoratrice e gli ebrei gli amministratori, ispettori, funzionari, e la polizia – prevalentemente segreta: uno stato che governava da 1,5 a 2 milioni di stranieri ostili sarebbe necessariamente diventato “uno stato di polizia segreta, con tutto quello che ciò comporta per l’educazione, la libertà di parola e le istituzioni democratiche. La corruzione caratteristica di ogni regime coloniale prevarrebbe anche entro lo stato d’Israele. L’amministrazione dovrebbe reprimere la ribellione araba da un lato e procurarsi dei Quisling arabi dall’altro. C’è inoltre ampia ragione di credere che la Israel Defence Force, finora un esercito popolare, si trasformerebbe in un esercito d’occupazione, degenerato, e i suoi comandanti, divenuti governatori militari, assomiglierebbero ai loro colleghi di altre nazioni”.

Mise in guardia che l’ascesa del razzismo avrebbe consumato la società israeliana e che l’occupazione protratta dei territori palestinesi avrebbe portato a campi di concentramento. E – parole sue – “A quel punto Israele non meriterebbe d’esistere e non ne varrebbe la pena la conservazione”.

La decisione di ‘sistemare’ Gaza è da lungo tempo un sogno dei fanatici eredi del movimento fascista guidato dall’estremista Meir Kahane, cui è vietato l’accesso a cariche pubbliche e il cui partito Kach fu sciolto nel 1994 e dichiarato “organizzazione terrorista” da Israele e dagli USA.

Il mito della ‘democrazia’ di Israele

Foto di Moshezalman, Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Questi estremisti ebraici, che oggi fanno parte della coalizione di governo, stanno orchestrando un genocidio a Gaza, dove muoiono e vengono feriti palestinesi a centinaia ogni giorno. Essi si battono per l’iconografia e la lingua del proprio fascismo di casa: l’identità ebraica e il nazionalismo ebraico sono emanazioni del sangue e del suolo, la supremazia ebraica è sacralizzata da Dio, come il massacro dei palestinesi, parificato a quello biblico degli amalechiti da parte degli israeliti , per i nemici – di solito i musulmani – si programma l’estinzione in quanto subumani o personificazione del male. la violenza o la minaccia di violenza sono le sole forme di comunicazione capite da chi sta fuori dal cerchio magico del nazionalismo ebraico: milioni di musulmani, cristiani, compresi – beninteso – quelli di cittadinanza israeliana devono essere epurati.

Insieme a me per trattare quel che l’occupazione della Palestina ha fatto alla società israeliana, quali sono i risultati dell’attuale campagna omicida a Gaza e in Cisgiordania e che cosa preannunciano per il futuro d’Israele, c’è Ilan Pappé – professore all’università di Exeter in Gran Bretagna – che descrive quel che Israele fa ai palestinesi come genocidio graduale nei suoi numerosi libri, fra cui La più grossa prigione in Terra, storia dei territori palestinesi occupati, e La pulizia etnica della Palestina, il cui editore francese ne ha cessata la pubblicazione nonostante il rapido aumento di vendite dopo il 7 ottobre scorso, come parte della campagna orchestrata dai sionisti e loro sostenitori per screditare commenti e narrazioni di chi sia critico d’Israele.

Vorrei cominciare con uno sguardo alla gestazione d’Israele, i cui primi sviluppi risalgono agli anni 1920, per vedere se il Progetto Sionista incorporasse già prima della creazione dello stato d’Israele i semi dell’autodistruzione.

Ilan Pappé

Sì, credo sia così, appunto come lei indica; il movimento sionista esisteva già prima ma circa nel 1926 iniziò l’acquisto di terre e a sloggiare chi ci viveva, diventando un progetto coloniale d’insediamento e non solo un progetto per porre in salvo gli ebrei dall’antisemitismo o una ridefinizione culturale nazionale del giudaismo come nazionalismo anziché religione. Allorché ciò avvenne, era chiarissimo che si sarebbe imposto con la forza a una popolazione natìa indigena; e non solo la classica imposizione coloniale di chi s’insediava dall’estero a chi trovava nei territori, era anche una sorta di creazione che potessero produrre o istituire uno stato europeo nel bel mezzo del mondo arabo, cosa molto analoga a quella dei suprematisti bianchi in Sudafrica.

E che si disponga lo spianto e il trapianto di una popolazione lì esistente e che si cerchi di creare un’entità politico-culturale che alienerebbe l’area cui appartiene e che a sua volta alienerebbe, sono due elementi distinti che si sono spacciati, credo proprio, in quegli anni 1920. E l’effetto si può vedere adesso, senza dubbio.

Chris Hedges

E tuttavia ci fu sempre una tensione nell’àmbito del progetto sionista. Ho conosciuto Abba Eban, forse l’ha conosciuto anche lei, e Teddy Kollek quand’ero in Israele: misero fuori legge il partito Kach di Meir Kahane. Quelli attorno a Netanyahu adesso sono ovviamente gli eredi di questo rabbi d’estrema destra, poi assassinato. E vorrei che lei parlasse di questa tensione, perché ero lì. Voglio dire, Teddy Kollek quand’era sindaco di Gerusalemme stava facendo il sistema fognario per …, cioè aveva un approccio diverso alla colonizzazione. o forse lo intendo male?

Ilan Pappé

Era un approccio diverso, ma restava colonizzazione. Essendo un po’ più brusco in argomento, direi che c’era decisamente una corrente ideologica nel sionismo che credeva di poter essere un colonizzatore progressista o illuminato. e però, dal punto di vista dei colonizzati, seppure si fornisse qualche beneficio in termini economici, d’infrastrutture, c’era comunque la colonizzazione. Che non fu tradotta solo nel fornire o no fogne a Gerusalemme, ma nel sovrintendere Teddy Kollek come sindaco di Gerusalemme alla pulizia etnica di moltissimi palestinesi da Gerusalemme-est per fare spazio per la costruzione di nuovi quartieri ebraici, che bisognerebbe chiamare correttamente colonie o insediamenti.

Dunque, alla fin fine la visione sionista, anche nella sua versione più liberale, comportava che i palestinesi, se andava bene, nel caso migliore potevano essere tollerati individualmente in spazi limitati in Palestina, secondo le nozioni di sicurezza israeliane. E se andava male, erano ostacoli da togliersi da piedi. E, col passar del tempo la maggior parte degli ebrei israeliani ha detto: “Perché accontentarsi limitandone la presenza? Perché non disfarsene del tutto?”

Chris Hedges

Tuttavia queste figure rappresentavano una corrente laica del sionismo. Vorrei che parlasse un po’ di Yeshayahu Leibowitz, che lei conosceva e che ho citato nell’introduzione, che a proposito della corrente religiosa del sionismo dove la terra diventa sacrale, la ritiene particolarmente pericolosa, anzi redo la definisca addirittura fascista. c’è questa spaccatura, rispetto a un Abba Eban, urbano, educato a Oxford, che parlava inglese meglio di me. Ecco, ci dica di questa tensione fra sionismo laico e religioso. Quest’ultimo nella versione ultraortodossa, sappiamo bene, s’è fatto trionfante.

Ilan Pappé

Sa, questa tensione che lei giustamente indica, io la chiamo la lotta fra lo stato d’Israele e lo stato di Giudea. Questo cresce fra i gruppi religiosi nazionali diventando particolarmente potente dopo il ’67 e il suo quartier generale, il suo habitat se vogliamo, sono gli insediamenti in Cisgiordania e prima d’allora anche nella Striscia di Gaza. E diventano una forza con cui fare i conti, e combinano proprio gli elementi di cui parlava Leibowitz, che l’ha visto avvenire. Lo dico a suo credito, l’ha visto e l’ha come predetto, e noi col beneficio della retrospettiva possiamo ben dire che aveva assolutamente ragione.

Dunque, quello stato di Giudea, come si può chiamare lo stato dei coloni, è una combinazione di un tipo messianico di sionismo con un’interpretazione fondamentalista del giudaismo, desiderio di creare una teocrazia, in cui anche gli ebrei laici sono il nemico, non solo i palestinesi. E si stanno rafforzando. Erano ai margini e pensavamo che non fossero davvero rilevanti, ma adesso sono un potere centrale in Israele. E contro di loro sta lo stato d’Israele, quello più o meno pre-’67 che voleva essere una democrazia liberale, pluralista, laica; ma sta perdendo contro lo stato di Giudea.

Ma ciò che è cosi interessante e frustrante in questa lotta, è che non c’entra per nulla coi palestinesi. Come probabilmente sapete, l’abbiamo dimenticato per gli avvenimenti drammatici dopo il 7 ottobre, ma fino ad allora abbiamo assistito per mesi a una sorta di miniguerra civile fra questi due stati in Israele con dimostrazioni quotidiane di centinaia di migliaia di israeliani laici in cerca di difendere l’Israele che vogliono loro. Ma quando i cittadini palestinesi d’Israele gli hanno chiesto “Possiamo unirci a voi? E includere un rifiuto dell’occupazione come parte della nostra lotta per un Israele migliore?”

Sono stati buttati fuori da quel movimento di protesta perché non è contro l’occupazione, non contro l’apartheid d’Israele – semi- o completa, dipende da dove. Si tratta di che tipo d’Israele con apartheid dovremmo avere: uno democratico liberale per gli ebrei o uno teocratico per gli ebrei? ma purtroppo non evolve riguardo al tema principale, il più importante, con cui abbiamo iniziato la nostra conversazione, cioè ci si può imporre militarmente e violentemente a milioni di perone contro la loro volontà?

Chris Hedges

Parliamo del 1948, la guerra d’indipendenza. Tutti i progetti coloniali degli insediati vengono inculcati con violenza come fu quello attuato negli Stati Uniti. La differenza penso che sia che entro il 1600, per cento anni, 56 milioni d’indigeni del Nord-, Centro- e Sud-America erano stati annientati o con le malattie o con la violenza, sicché c’era ormai solo circa 10% della popolazione originaria: quello sterminio all’ingrosso essenzialmente permette a un progetto di colonizzazione mediante insediamento di sopravvivere perché fisicamente non c’è opposizione.

Ciò che non vale per Israele: circa 5,5 milioni di palestinesi vivono sotto occupazione e 9 nella diaspora. Questo è fin dall’istituzione dello stato d’Israele un immane problema per i capi israeliani: come fronteggiarlo? La bomba a orologeria demografica è reale con le famiglie arabe più numerose e la gran fuga – di cervelli! – da Israele, circa un milione solo negli USA. Ma guardando al 1948, come lo si tratta, il problema? Passiamo poi al 1967 quando Israele occupa quel che resta della Palestina – Cisgiordania e Gaza.

Ilan Pappé

Sì, come dice lei giustamente, i progetti coloniali mediante insediamento hanno sempre queste due dimensioni, geografica e demografica, ossia spazio e popolazione, si vuole lo spazio senza la popolazione, e più spazio si occupa, più si ha popolazione indesiderata. I dirigenti sionisti sfruttarono la fine del mandato, le circostanza che si svilupparono nella regione e nel mondo tre anni dopo [la fine del]l’Olocausto, per attuare una massiccia pulizia etnica che espulse e rese profughi metà della popolazione palestinese, distrusse metà dei loro villaggi – oltre 500 – e demolì quasi tutte le città palestinesi. Quindi entro i confini in qualche modo stabiliti dopo il 1948, cioè l’Israele odierno senza Cisgiordania e Striscia di Gaza, Israele non fu in grado di completare la pulizia etnica, ma aveva una minoranza palestinese relativamente piccola che non comprometteva la maggioranza demografica degli ebrei.

Quindi si poteva addirittura avere uno stato democratico perché si sapeva che democrazia e demografia procedevano appaiate. Tuttavia, grazie alla paranoia di Ben-Gurion fino al 1966, benché i palestinesi in Israele avessero diritto al voto e ad essere eletti, erano sottoposti a un regime militare durissimo, come tuttora. Ora, non è sorprendente che David Ben-Gurion, il grosso architetto della pulizia etnica del 1948, cercasse di far pressione sul governo israeliano, pur essedo ormai al di fuori della politica effettiva dal 1963, e convincerlo dopo il giugno ’67 ad uscire dalla Cisgiordania, dicendogli quasi “Sono stato in grado di librarmi di circa un milione di palestinesi e adesso voi ne state prendendo sotto controllo perfino di più”.

Il tipo di dirigenti che gli succedettero – alcuni giovani generali al tempo della guerra del ’48 e qualche altro come Levi Eshkol e lei ha citato anche Abba Eban e Teddy Kollek – decise che non c’era bisogno di un’[altra] massiccia pulizia etnica per mantenere la demografia tale da non metter in pericolo la democrazia ebraica. che fecero quindi? Decisero di tenere milioni di persone in Cisgordania e nella Striscia di Gaza senza diritto di partecipare al sistema politico israeliano.

E quando qualcuno disse “Va be’, ma potete dare in cambio ai palestinesi il diritto di determinare il proprio futuro in uno stato palestinese in Cisgiordania e nella striscia di Gaza?”, non accettarono neppure quello, credendo quindi di contenere in qualche modo l’ambizione nazionale palestinese e la relativa resistenza entro quell’idea di una nostra enclave su quei territori, controllata da Israele, forse con qualche autonomia interna, e convincere il mondo che questa fosse la soluzione migliore chiamandola perfino una sorta di soluzione a due stati.

Che ovviamente non aveva nulla a che fare con una tale soluzione. Pertanto, storicamente è sempre lo stesso problema tutto il tempo, come lei Chris dice giustamente: si tratta di avere il territorio senza la gente, ma per circostanze e cose mutate – il 48 non è il ’67 e il ’67 non è il 2023 – mutano anche i metodi per mantenere quell’equilibrio fra territorio e popolazione, ma la prospettiva è sempre una e lo scopo è sempre lo stesso, e i fallimenti sono sempre gli stessi. L’espulsione di massa non ha funzionato. L’idea di mantenere gente senza diritti di cittadinanza non sta funzionando, e anche metterli sotto assedio, come visto il 7 ottobre, non funziona. E, qualunque cosa abbiano in mente gli israeliani per Gaza, posso assicurarvi pur senza sapere come si svolgerebbe, sarà un enorme fallimento, purtroppo con un incredibile costo umano, principalmente per i palestinesi.

Chris Hedges

Leibowitz considera il ’67, con la presa del resto del territorio palestinese, come spartiacque. Definendosi sionista, sembra sostenere che i confini pre-’67, detti la Linea Verde, potevano funzionare. Ma il ’67 e il rifiuto dei dirigenti israeliani di cessare l’occupazione dopo il ‘67 tornando ai confini precedenti per lui sono una sventura e argomenta in modo appassionato che sia per molti versi la morte della democrazia israeliana e della società civile. Lo può spiegare?

Ilan Pappé

Sì, anzitutto direi come all’inizio della nostra conversazione che i semi di questa fine o di un’implosione dall’interno erano già presenti all’inizio del progetto, ma procedendo con questa tesi, non c’è dubbio che l’occupazione del 1967abba accelerato questi processi con l’avere un sistema legale, un sistema politico, un sistema culturale che giustifichi una violazione quotidiana dei diritti umani, dei diritti civili dei palestinesi, almeno entro Israele.

Nell’Israele pre-‘67 ci fu un tentativo di migliorare la situazione dei cittadini palestinesi: come detto, avevano diritto di voto, di essere eletti, e infine gli fu pure permesso di creare i propri partiti nazionali e così via. ma, al tempo stesso, la direzione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza era verso ben altro tipo di futuro, una lunga e interminabile costruzione di due mega-prigioni nei due rispettivi territori, mantenute da almeno centinaia di migliaia di israeliani che dovevano quotidianamente essere coinvolti nel mantenere l’ordine su questi milioni di persone. E l’idea, credo diversa fra Leibowitz e Kollek e Abba Eban per esempio, che si potesse avere separatamente quest’Israele pluralista liberale democratico entro i confini pre’67 e qualcos’altro, meno ammirevole, meno fortunato ma si spera gestibile oltre la Linea Verde, effettivo confine legale d’Israele.

Leibowitz li avvisò giustamente che non si sarebbe stati in grado di contenere quel garbuglio, che sarebbe straripato in Israele e non si sarebbero avute due entità distinte, un Israele liberale e un’entità spuria occupata, bensì un solo sistema di apartheid con possibili varietà nelle modalità di controllo della vita dei palestinesi, ma in essenza – come recentemente compreso da Human Rights Watch e Amnesty International – richiedente un governo mediante segregazione, discriminazione e oppressione. E non importa che si parli di Tel Aviv e Haifa o di Nablus e Gaza, è diventato un paese organico dove la gente, se palestinese, è soggetta a una varietà di regimi militari e regimi militari che violano i diritti umani e civili basilari.

Chris Hedges

E voglio aggiungere che agli arabi israeliani, nonostante mosse pre’67 per una più completa incorporazione, non è permesso il servizio militare né l’assunzione nei servizi d’intelligence. Giusto?          (IP)       Sì, sì.

Quindi per Leibowitz non è che secondo lui l’occupazione non sia sostenibile, ma è quello che fa, come deforma la società israeliana, che più conta. E mi chiedo se lei possa parlare dell’accaduto. Sono interessato specialmente al perché lei crede che questi fanatici, bigotti, cripto-fascisti, queste persone che attorniano Netanyahu siano diventati predominanti.

Ilan Pappé

Beh, credo che qui siano all’opera due crisi. Una crisi è quella che si può chiamare la sinistra sionista, questo tentativo, se si vuole, di quadrare il cerchio nel dire a sé stessi qualcosa come” posso essere al contempo occupante e socialista o liberale”. Che non è riuscito a funzionare a tanti livelli: prima di tutto, i palestinesi non si sono impressionati, rendendosi conto che, come ho esemplificato una volta, quando un sionista ti tiene uno scarpone sulla faccia, non importa se abbia in mano un libro di Marx o la Bibbia, è lo scarpone che conta.

E credo appunto sia un motivo per cui la sinistra sionista non abbia funzionato. In secondo luogo, c’è stata l’impressione nell’elettorato ebraico israeliano che questo sia di fatto un inganno, e c’è davvero di che. Dicevano: “La pensate come noi ma vi piacerebbe che fosse più gradevole. Vi sarebbe piaciuto che il mondo non ne fosse interamente al corrente. Non volete perdere legittimità internazionale. Non è perché abbiate un approccio morale diverso ma solo più funzionale”. E così non sono stati convincenti. Una crisi credo sia questa, della quadratura del cerchio, diciamo, prendendo valori universali dicendo che possono coesistere coi valori del colonialismo e dell’oppressione. La seconda [crisi], non meno importante, è il fallimento o il crollo dell’idea che si possa ridefinire il giudaismo come nazionalismo.

C’è stato un tentativo di creare una cultura ebraica, un’identità ebraica che sia laica, ma non ha funzionato. Sì, c’è qualche successo, c’è una cultura ebraica, senza dubbio, io stesso sogno in ebraico; l’ebraico è la mia lingua madre e sono quindi del tutto conscio della riuscita sionista di creare una cultura ebraica; che non è però un sostituto al giudaismo; crea una cultura attorno alla lingua ma non ha il potere di un’affiliazione religiosa. Ed è succedo che mentre gli ebrei religiosi hanno un’idea chiara di cosa sia il giudaismo, gli ebrei israeliani non hanno mai saputo che cosa significhi essere un ebreo israeliano. Come probabilmente sa, nelle nostre carte d’identità la nostra nazionalità non è israeliana. nessun israeliano ha un’identità nazionale che sia israeliana.

Secondo me, sta scritto che la mia nazionalità è ebraica. E il mio vicino israeliano palestinese dice che la sua nazionalità è musulmana, non palestinese, o cristiana. Voglio dire, cercano d’imporre quest’idea di poter giocare con le identità religiose e di poterle imporre anche a musulmani e cristiani: non funziona. E dovunque si guardi in giro, un tentativo di creare un’identità statale equivalente a un’identità religiosa nel mondo moderno non funziona. Non funziona e questa crisi ha condotto al ritorno al giudaismo da parte di molti ebrei israeliani, compresi anche gli ebrei arabi che erano comunque già più tradizionali; che poi si sono chiesti cose analoghe che avvengono nell’islam politico. Possiamo tradurre le scritture ebraiche in documenti politici d’oggigiorno?

Possiamo imporre gli imperativi della religione nell’area pubblica, alla politica statale, sia la nazionale che l’estera? Questo per israeliani laici è qualcosa con cui non si può coesistere; ma non hanno davvero una risposta valida: che cosa vuol dire essere ebreo se non ebreo religioso? Che cos’è un ebreo laico; o, in quanto a quello, un musulmano laico, o un cristiano laico?  E quella è una crisi che magari esiste anche altrove, ma non in questa pentola a pressione che è Israele, dove queste questioni sono vitali ed esistenziali.

Chris Hedges

Quando Tucidide parlava dell’espansione dell’impero ateniese, scrisse che “un’imposizione ad altri è dopo tutto un’imposizione a sé stessi”. Fino a che punto la tirannia che Israele ha imposto ai palestinesi occupati è diventata una tirannia imposta a sé stesso?

Ilan Pappé

Ne abbiamo avuto una chiara indicazione degli elementi preesistenti il 7 ottobre, pretesto per questa tirannia di dirigersi contro i cittadini israeliani di pensiero autonomo che sono anche ebrei per definizione. Un chiaro esempio: un insegante di storia a Petah Tikva che ha condiviso tutto quanto ha fatto con i suoi studenti o piuttosto alunni, esponendo alcuni modi di vedere alternativi rispetto a quelli che essi sentono nei media nazionali: arrestato per qualche giorno prima del rilascio. Qualunque tentativo di cittadini d’Israele palestinesi o antisionisti di esprimere dubbi o anche solo dire di badare al contesto del 7 ottobre [di Hamas] è considerato dalla polizia incitamento al terrorismo.

Quindi inevitabile – qualunque storico lo sa – non riuscire a contenere un tale atteggiamento verso un certo gruppo di persone, e finire per utilizzare questo potere contro la propria stessa gente; e dipende poi anche da chi usa quel potere. Sa, ci sono sociologi critici molto importanti in Israele – io non sono fra quelli – che hanno seguito il percorso fatto dagli alti gradi del Servizio si Sicurezza Israeliano, dagli alti gradi dell’esercito, ormai popolati da coloni, quel che io chiamo lo stato di Giudea, coloni religiosi nazionali, che occupano posti molto importanti, esempio estremo fra cui il terrorista dello stato di Giudea, Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Interna. Dunque, anche al vertice c’è chi non esita a usare gli stessi mezzi contro gli israeliani di libero pensiero, indipendentemente che siano ebrei o arabi, per voler usarli contro i palestinesi.

Ma lui può anche essere un istrione per i suoi stessi subordinati, ma ci sono personaggi più seri sotto di lui appartenenti ufficialmente alla pubblica amministrazione, non eletti, che provengono dallo stesso vivaio che considera gente come me, per esempio, pericolosa come un qualunque palestinese. E questo di questi tempi si sta diffondendo in Israele.

Chris Hedges

Sul 7 ottobre: che ci dice sul micro-impatto e, come storico, sul macro-impatto?

Ilan Pappé

Riguardo al micro-impatto, è bizzarro, sto cercando di raccapezzarmici, comincio a capire. Partiamo dalla società ebraica israeliana: c’è questa mistura improbabile di totale scetticismo sulla capacità dello stato di difenderci o anche solo di fornirci le prestazioni più essenziali – un crollo completo della fiducia che lo stato provveda a noi, non solo ci difenda dato il fallimento dell’apparato militare, ma il modo in cui è rimasto assente dopo il 7 ottobre. non so quanti ne siano consci, ma lo stato non ha funzionato per circa due mesi nel fornire a livello economico, sociale: tutto quanto è stato fatto dalla società civile, mentre il governo non ha fatto nulla per aiutare gli sfollati, dal nord o dal sud. Quindi, dicevo, da un lato questa incredulità verso lo stato, dall’altra un totale sostegno a questa politica genocida a Gaza: una vera contraddizione.

Ma si può capire da dove arrivi – ed è appunto un tipo di micro-impatto – cioè una società civile ebraica israeliana più intransigente, inflessibile, teocratica, fanatica nell’Israele post-7 ottobre. In quanto ai palestinesi, penso che qualche grossa domanda verrà posta anche dal movimento nazionale palestinese perché è una grossa responsabilità organizzare un’operazione sapendo probabilmente in anticipo quale sarà la risposta israeliana. Mi ricorda sempre due [posizioni]…; ho fatto un webinar [seminario da remoto – ndt] con dei libanesi e ne abbiamo parlato e credo ci siano analogie: mi dicevano “Ma Hamas si basava sull’eredità coraggiosa e riuscita di Hezbollah nel 2000 di estromettere l’esercito israeliano dal Libano”; un esempio di gruppo paramilitare alla pari in efficacia con l’esercito israeliano.

Ho risposto “Sì ma c’è l’esperienza del 2006 quando Hassan Nasrallah, il capo di Hezbollah, disse “Avessi saputo che la reazione israeliana al rapimento di tre soldati sarebbe stata la distruzione di Beirut, non avrei ordinato l’operazione”; quindi un discorso responsabile sul badare anche alla propria gente quando si fa strategia. Sarebbe interessante vedere a livello micro come i palestinesi, per prima cosa, reagiscono alla rappresaglia israeliana, oltre alla loro capacità [di attuarla] ovviamente. Credo abbiano intanto saputo galvanizzare l’opinione pubblica mostrando che per quanto si condanni o no il servizio d’ottobre, non fiacca la solidarietà con i palestinesi.

In quanto all’effetto macro: Israele non sconfiggerà tanto facilmente Hamas e ci si pianterà; e per mantenere anche solo una sorta di successo/vittoria, dovrà restare in loco per anni, di occupazione diretta. Il che potrebbe facilmente intensificarsi in una rivolta in Cisgiordania e un attacco da nord di Hezbollah e, chissà, un mutamento nella tolleranza araba [esterna] vita finora, per qualche corrente sotterranea: cioè una possibile escalation a guerra regionale, lo scenario desolato, da un lato. Dall’altro, l’eventualità positiva che la società civile internazionale, adesso molto propalestinese e propensa anche al boicottaggio di e al disinvestimento da Israele, riesca a convincere qualche governo del Nord globale e decisamente quelli del Sud globale a passare dalle azioni della società civile a sanzioni e pressioni di stato su Israele, magari con una percezione affatto nuova della necessità che Israele smetta le sue politiche suprematiste, l’oppressione e così va.

È troppo presto per giudicare quale dei due processi si effettuerà; possono anche svolgersi congiunti, cioè quanto più violenta diventi la regione, tanto più disposta sarebbe la comunità internazionale a cambiare le percezioni sull’essenza del problema e sulle vie d’uscita.

Chris Hedges

La chiave non è Washington? Cioè, Israele, con gli USA, se ne sta già occupando sapendosi stati paria, come s’è visto al voto ONU [sulla richiesta di ‘moderare’ la sua reazione -ndt]. Fintanto che c’è sostegno incondizionato da Washington, Israele può resistere a qualunque pressione, o no?

Ilan Pappé

Questa è una domanda grossissima perché credo che abbia potere anche il Sud globale. Ho insegnato di recente, a settembre, in una università cinese, ed era molto chiaro che la Cina, per esempio, è ancor sempre molto riluttante a farsi coinvolgere nella questione palestinese perché si sa che la sua politica standard, contrariamente a come viene presentata in America, è più che altro interessata a tematiche economiche: E giustamente, la Palestina non è una Mecca economica di questi tempi. Quindi non penso che si lasci tirar dentro. ma penso che ci siano altre potenze sullo scacchiere internazionale che potrebbero sfidare l’egemonia americana sulla questione Palestina; ed è un punto.

Washingon è tuttora una chiave, ma sta succedendo qualcosa di non trascurabile nella società civile americana. Gli israeliani e i filoisraeliani negli USA amano chiamarla l’ascesa del nuovo antisemitismo, analisi molto superficiale del fatto che gli americani più giovani ne sanno molto di più che la generazione precedente di quanto succede in Palestina, per cominciare, e poi sono più impegnati alla dimensione morale della politica estera e securitaria. E questo comprende ampi segmenti della comunità ebraica americana. Non sono quindi sicuro che anche questa opinione determinista di una politica USA sia l’approccio giusto; penso che ci sia pure una possibilità di politica USA diversa.

Ma penso, Chris, che il modo migliore sia dire che adesso ci sono due coalizioni a proposito di Palestina: una la chiamo Israele globale, cioè ancora governi nel Sud globale, multinazionali, industrie militari e securitarie, comunità di ebrei e sionisti cristiani che più o meno continuano a fornire Israele d’immunità per quasi tutto quello che fa, qusi automaticamente, quasi una fede. E contro questa c’è una Palestina globale; fatta dalle società civili, qualche governo del Sud globale che non sono solo filopalestinesi, ma che credono davvero che la lotta perla giustizia in Palestina si colleghi ottimamente con le proprie lotte contro l’ingiustizia nelle proprie società. E questo nelle giovani generazioni.

Penso che sia sì una battaglia che va oltre la Palestina, si collega con i temi ecologici, della povertà, dei diritti delle minoranze, e non penso quindi che l’equilibrio di potere  sia solo fra America e resto del mondo, bensì  fra due coalizioni molto più complesse, rilevanti non solo per la Palestina – che è quella che m’importa più direttamente – ma anche per vari altri punti di contesa e dove stia tuttora imperversando la guerra.

Chris Hedges

Chiudiamo parlando di Gaza. per prima cosa degli intenti. L’ONU dice che metà dei ghazani ha di fronte la morte per fame. Io ero a Sarajevo durante quella guerra, con 300-400 colpi d’artiglieria al giorno e 4-5 morti e oltre una ventina di feriti. Solo per confronto, non voglio minimizzare quel che successa a Sarajevo, ne ho ancora incubi. Ma è nulla a confronto con Gaza riguardo al martellamento di bombe. Quali sono gli intenti? Creare una crisi umanitaria di portata estrema tale da costringere la comunità internazionale ad intervenire e diventare complice della pulizia etnica in corso? E allora? Lei conosce meglio di me la mentalità di chi attornia Netanyahu.

Ilan Pappé

Beh, per cominciare, penso c sia stata davvero un’inerzia di vendetta anziché un’attenta programmazione. Non tutto dovrebbe essere attribuito a programmi chiari e sistematici. Col passare dei giorni si è chiarito che almeno per un gruppo fra i decisori che pensavano che la guerra dia un pretesto per liberarsi di Gaza c’era una programmazione più serrata, per i quali il risultato finale dev’essere lo spopolamento della Striscia di Gaza verso l’Egitto o altre parti del mondo, perché Gaza, già non sostenibile adesso, lo sarà ancor meno poi. Penso che fra i decisori israeliani ci sia una componente che si ritiene d’avere il potere per farlo. Ce ne sono di più – moderati? – diciamo pragmatici, come Benjamin Gantz, Gadi Eizenkot, dove dipende: sono entrati nel governo dall’opposizione in extremis.

Non so quanto siano influenti sul seguito dell’operazione in atto; se sì, vorrebbero a fine partita annettersi direttamente parte di Gaza – un bruscolo di terra con un’enormità di abitanti – sperando che se la gestisca qualcun altro, l’autorità Palestinese o una forza multinazionale. Non pensano però che si possano anche solo discutere gli scenari post finché adempiano a quanto promesso al pubblico israeliano, cosa che non possono compiere. E ciò è una delle ragioni della carneficina cui assistiamo: potessero avere quella foto di vittoria, trionfante, che mostri che Hamas, almeno in quanto forza militare, non la si può vedere da nessuna parte a Gaza! Non credo che possano riuscirci, ma loro sì e continueranno senza sosta a fare in quel modo (mettendo più a repentaglio altre vite degli ostaggi ancora prigionieri di Hamas nella Striscia.

Pretendono in parallelo i due obiettivi dichiarati della cosiddetta manovra a terra – distruggere Hamas come forza militare e trarre in salvo gli ostaggi, ma è chiarissimo da come si comportano che hanno lasciato perdere per gli ostaggi; eppure credono ancora di poter arrivare a quell’immagine di doppia vittoria, con un Sinwar morto o espulso, come nello scenario libanese del 1982, con Arafat in partenza per Tunisi insieme al resto dei suoi dirigenti. Questo hanno in mente, e a loro tutti i mezzi sembrano giustificati per arrivarci.

Chris Hedges

E lei sostiene che non ce la faranno. Allora, che succede quando sia chiaro che non ce la fanno?

Ilan Pappé

È appunto quello che intendevo: che resteranno bloccati molto più a ungo di quanto pensano nel guerreggiare a mo’ di gorilla, rischiando altri fattori intensificanti come altri contendenti nel conflitto con terribili conseguenze anche per Israele stesso. Immagina, Chris, che cosa sarebbe avvenuto se Hezbollah avesse coordinato con Hamas un attacco simile da nord il 7 ottobre? Ricordiamoci, il problema militare principale per Israele è stato che gran parte dell’esercito era in Cisgiordania ad aiutare a difendere i coloni aiutandoli nella loro pulizia etnica: non c’erano perciò abbastanza soldati per presidiare i confini a nord e con Gaza per evitare un’operazione del genere compiuto da Hamas.

E che poteva succedere a Israele con un’operazione combinata con Hezbollah? Eppure è una lezione che i decisori politici non stanno imparando. Credo quindi che cacceranno Israele in un futuro molto fosco anche per sé stesso, in termini di vittime, d’isolamento internazionale, di crisi economica. E affidarsi sempre al Congress USA non è il pilastro migliore, più solido al mondo, per costruire un futuro per una generazione più giovane raccontandole che vive nel luogo migliore al mondo attualmente per degli ebrei. Si stanno scavando la buca per non voler vedere il problema e il prezzo da pagare se davvero vogliono costruire un futuro diverso.

Chris Hedges

Bene, questo era Ilan Pappé, competente in materia … Ringrazio redazione e tecnici di Real News Network. Mi si può trovare a ChrisHedges.substacks.com


Fonte:

TRANSCEND VIDEOS, 15 Jan 2024

Ilan Pappé | The Chris Hedges Report – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


Ilan Pappé è professore al College f Social Sciences and International Studies presso l’Università di Exeter (RegnoUnito), dove dirige il Centro Europeo di Studi sulla Palestina e co-dirige il Centro di Exeter di Studi Etno-politici. Prima di venire in GB, Pappé è stato storico e politico in Israele. È autore di vari libri, fra cui La pulizia etnica della Palestina.

Chris Hedges è un giornalista detentore di Premio Pulitzer, per 15 anni corrispondente estero al New York Times come capo-ufficio per il Medio Oriente e capo-ufficio per i Balcani. In precedenza aveva lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor, e NPR [ente mediatico non-profit USA]. Ha funto pure da conduttore di On Contact, spettacolo candidato all’Emmy Award, a RT America.

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