Ma dobbiamo per forza schierarci?

Rita Vittori

Ci siamo abituati a dover «prendere posizione» di fronte a tutti gli eventi della nostra vita, da quelli politici a quelli relazionali a quelli interiori: ma dobbiamo per forza schierarci?

Abbiamo visto in un articolo precedente come Noam Chomsky, famoso linguista americano, abbia descritto il processo di manipolazione delle informazioni per orientare l’opinione pubblica verso posizioni in linea con il pensiero dei gruppi di interesse egemoni, che dominano la narrativa pubblica. È come dire: «Dovete pensare ma pensare come vogliamo Noi!».

In questi anni è cresciuta la pressione affinché ciascun cittadino si schieri in modo chiaro da una parte o dall’altra su questioni naturalmente complesse e ambivalenti. Le sfumature di un tempo, ritenute la ricchezza sia in politica che nei dibattiti, si sono trasformate nell’era dei «contraddittori», dove il fine è difendere la propria posizione. Oggi avviene anche manipolando notizie, dati, linguaggio.

Prendere posizione

Da molti anni ci hanno abituato ad assistere a dibattiti dove è necessario il «contraddittorio», cioè avere due personaggi che illustrano posizioni contrapposte su un problema, un’idea, un fatto. Certo l’intenzione poteva sembrare buona per avere informazioni complete su cui ciascuno poteva costruire una visione personale, arricchita da due pensieri opposti, ciascuno dei quali aveva una sua dignità.

Si partiva dall’assunto che la realtà è complessa e nella complessità convivono gli opposti: tralasciare uno dei due avrebbe significato una riduzione e semplificazione dei fatti. Ne sarebbe nata una distorsione cognitiva degli eventi e forse scelte sbagliate di fronte a problemi sociali da risolvere.

La distinzione delle posizioni avrebbe potuto diventare un momento necessario di orientamento nella complessità e nell’incertezza per riuscire a fare scelte politiche e sociali responsabili che tenessero conto dei diversi interessi e bisogni delle parti in causa. Ma ciò che è mancato è il passo successivo: fare una loro sintesi, approfondire i bisogni reali delle parti attraverso il dialogo e un ascolto reciproco e arrivare a posizioni collettive frutto di questo lavoro.

Ma, in linea con la filosofia sottostante la società neoliberista, ci si è fermati alla DISTINZIONE delle posizioni che nel tempo è diventata SEPARAZIONE. Nella separazione si attiva una visione del CONFLITTO che cerca non una mediazione o una reciproca comprensione delle motivazioni delle ragioni della parte avversa, ma di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Il conflitto innestato dalle differenze in questo caso deve terminare con il prevalere di una parte sull’altra. E per far questo tutti gli artifizi dialettici sono ammessi, pur di far apparire vera la propria opinione.

E così ci siamo abituati a dover «prendere posizione» di fronte a tutti gli eventi della nostra vita, da quelli politici a quelli relazionali a quelli interiori: cercare chi ha ragione e chi ha torto, dividere in buono e cattivo, schierarsi come allo stadio senza sfumature o perplessità.

Linguaggio che unisce linguaggio che separa

Se la tendenza è quella di distinguere per tenere separate le parti, ne consegue una diversa impostazione del linguaggio usato per descrivere fatti, opinioni, sentimenti.

Vera Gheno, linguista e docente presso l’Università di Firenze, nel suo libro Potere alle parole afferma come tra lingua e società esista un rapporto reciproco molto stretto: da un lato la lingua dà forma a ogni cambiamento sociale e ne conserva la memoria, dall’altro la lingua influenza il nostro modo di percepire la realtà.

Dal modo in cui i vari fatti vengono espressi emerge una visione della realtà che è sempre parziale, ma in questo momento storico di grossi cambiamenti economici e sociali viene alimentata soprattutto la PAURA e la sensazione di PERICOLI sempre in agguato, che determinano la rottura dei legami tra l’IO e il TU, tra il NOI e il LORO. Si amplifica così la tendenza a puntare il dito verso gli altri e non cercare la radice dei problemi sempre complessa e dipendente da molteplici fattori.

Si personalizza l’evento – «è colpa sempre dell’avversario» – cercando nelle azioni di quell’avversario la causa anche di problemi che hanno radici in processi storici ed economici indipendenti dai singoli individui.

Il dialogo diventa scontro e lo scontro, anche verbale, spesso scade nell’offesa, ma soprattutto alimenta un «pensiero unico» senza prevedere pensieri alternativi, diversi.

Ne nasce una «criminalizzazione del dissenso», che colpisce non il pensiero ma la persona che propone un contenuto o soluzioni alternative al pensiero dominante.

Oggetto spesso di attacchi verbali, di ironia se non di offesa dichiarata, chi dissente si trova costretto nell’illustrare le proprie posizioni divergenti a fare lunghe premesse che affaticano il discorso stesso.

Si pensi al conflitto tra Ucraina e Russia e tra Israele e Hamas. Non si chiede di comprendere quello che è accaduto, le motivazioni che hanno portato a questi massacri, bensì di schierarsi; non solo bisogna schierarsi con la parte definita a livello collettivo «aggredita». L’aggressore, come viene chiamato, non ha storia dietro di sé, assomma tutte le crudeltà possibili e pertanto va a sua volta aggredito come risposta quasi naturale. Contro di lui è giustificata ogni sorta di efferatezze, in quanto è considerato portatore della «malvagità» assoluta.

Ci sono per fortuna sempre più cittadini che si stanno accorgendo di queste trappole «narrative», anche se poi le ritroviamo spesso nel quotidiano contatto con molte persone. La parte più consapevole non può più tacere o sottomettersi a questi giochi dialettici nel timore di venire isolata o tacere per non incorrere nello scontro. Non più Io non più Tu, ma l’attenzione al Noi deve tornare ad abitare i nostri dialoghi, Noi riconosciamo che apparteniamo allo stesso Universo, di cui fanno parte animali, piante, esseri visibili e invisibili.


 

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