Antisemitismo e guerra a Gaza: trauma e ideologia

Richard E. Rubenstein

Un mio vecchio amico ed ex-collega a Chicago ha recentemente postato una nota dolorosamente conflittuale su Facebook che riflette le opinioni di moltissimi ebrei americani altrimenti progressisti su antisemitismo e guerra a Gaza. Trattando l’allora imminente attacco della Forza di Difesa Israeliana all’ospedale al-Shifa, ha scritto:

“Qual è la cosa giusta da fare per Israele? Se possono smantellare l’apparato di Hamas nel e/o sotto l’ospedale forse ci riescono con un minimo di carneficina d’innocenti. Come combattere barbari terroristi che combattono fra persone innocenti è un dilemma terribile. Però, io e la mia famiglia a molti amici siamo ebrei. Credo che nonostante il tremendo Netanyahu e la sua corte anche peggiore, Israele stia combattendo per tutti gli ebrei d’ovunque. E temo per tutti noi.”

C’è parecchio da dire su questa dichiarazione. A due settimane dall’attacco, è ancora incerto di che consistesse il supposto “apparato di Hamas” sotto l’ospedale. L’idea di “minimizzare la carneficina” degli innocenti s’è già dimostrata una fantasticheria; il massacro è costato la vita a oltre 13.000 palestinesi, dei quali circa 5.000 bambini. “Terrorisi barbari” sembra una descrizione appropriate dei combattenti di Hamas che hanno macellato civili; chiamare l’assassinio di bambini israelini “resistenza” non è più giustificabile che chiamare “giustizia “ l’assassinio dei bambini palestinesi. Le forze di Hamas si rifugiano effettivamente fra i civili di Gaza – ma ci si chiede che altro dovrebbero fare. I ribelli armati lungo tutta la storia si sono di rado suicidati in massa esponendosi alla distruzione da parte dei regimi occupanti. Che (come i francesi in Algeria) quasi sempre li accusano di utilizzare “scudi civili”.

Ciò detto, tuttavia, al cuore di quanto detto dal mio amico ci sono le frasi conclusive: “Israele sta combattendo per tutti gli ebrei d’ovunque. E temo per tutti noi”. Perché dice questo, quando anche lui capisce che la guerra a Gaza oppone un regime ultranazionalista israeliano dedito alla repressione permanente, se non addirittura espulsione, dei residenti palestinesi, contro un movimento ultra-violento di ribelli palestinesi? Che ha a che fare quest’orribile conflitto locale con “tutti gli ebrei ovunque siano”? E perché il mio amico, di solito un egalitario liberale, crede che le vite ebraiche siano più degne di protezione e salvezza che quelle di altri popoli?

Per rispondere a queste domande avremo bisogno di considerare più da vicino due questioni: il ruolo di un trauma storico nel plasmare la coscienza, e la questione dello stato ebraico.

Antisemitismo e trauma scelti

A causa della sua crudeltà e specialmente del vasto numero e gamma di vittime civili, l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, è visto da molti israeliani e altri ebrei come un possibile inizio di nuovo Olocausto – un tentativo di sterminare in massa gli ebrei in quanto tali. Considerando l’esperienza ebraica, particolarmente nel ventesimo secolo, questa percezione è del tutto comprensibile. Al tempo stesso, è pericolosamente lunare rispetto alle realtà attuali.

Psicologi come il dr. Vamik Volkan dell’Università della Virginia spiegano che quando gruppi etnici o religiosi si sentono sotto attacco, non solo il proprio senso identitario di gruppo diventa più intenso e “totale”, ma la violenza subita al momento può risvegliare ricordi strazianti di disastri passati di violenza estrema. Volkan chiama tali passati “traumi scelti” per indicare che sono divenuti parte integrale della storia, trasmessa di generazione in generazione, che costituisce l’identità culturale e politica del gruppo.

Seguendo Freud, egli sostiene che questi ricordi risvegliati rendono difficile, talora impossibile, ai membri di gruppi ex-vittimizzati distinguere fra minacce passate e presenti. Coloro un tempo minacciati di sterminio e rammentati di tale orrore da avvenimenti presenti vivono effettivamente nel passato. Pur se le minacce passate e presenti non sono comparabili, le vittime del trauma tendono a identificare nemici vecchi e nuovi, credendo che se devono sopravvivere come popolo debbono obliterare la forza che li minaccia. (Per esempi tratti da varie culture, si veda il libro di Volkan, Bloodlines: From Ethnic Pride to Ethnic Terrorism, [Linee di sangue: dall’orgoglio etnico al terrorismo etnico] Basic Books, 1998).

Molti ebrei per il mondo vedono la guerra d’Israele contro Hamas come ripetizione della Seconda guerra mondiale e la lotta contro i nazisti. Circa 300.000 persone hanno manifestato recentemente a Washington, D.C. per esprimere tale paura. Qualunque tipo di antisemitismo può essere pericoloso per gli ebrei, ovviamente, come dimostrato nel 2018 dall’attacco alla sinagoga Albero della Vita a Pittsburgh. Ma l’identificazione degli attacchi attuali ad ebrei con la “soluzione finale” dei nazisti occlude il fatto che l’odio per gli ebrei nella politica moderna non sia comparabile con l’anti-semitismo che produsse l’Olocausto.

In altri tempi, gli ebrei, prevalentemente concentrati in Russia, Europa Orientale, e poi negli Stati Uniti, erano un gruppo molto vulnerabile soggetto a un’ampia gamma d’incapacità legali, sociali, e politiche. Benché un piccolo gruppo di essi si fosse affermato negli affari o a livello culturale, erano in gran parte lavoratori o bottegai poveri o quasi. A lungo considerati paria nell’Europa cristiana, erano sovente sospettati e brutalizzati dai vicini e usati da capri espiatori da governanti ansiosi di sviare l’attenzione dalle magagne dei propri regimi.

Le narrazioni antisemitiche in tale ambiente costituivano una minaccia diretta per gli ebrei e un pericolo alla propria sopravvivenza collettiva. In era medievale, furono massacrati dai crociati come “uccisori del Cristo” e aggrediti da turbe di contadini persuasi che usassero la magia nera per diffondere pestilenze e carestie. Durante le sollevazioni della rivoluzione industriale, antisemiti li accusarono di controllare le banche e di complottare crisi economiche, e al tempo stesso di controllare il movimento operaio e sobillarlo a rivoluzioni di classe. E meno di un secolo fa, Adolf Hitler e i suoi scagnozzi misero insieme un famoso falso antisemitico (“i Protocolli degli Anziani di Sion”) con tanto di teoria razziale pseudo-scientifica per convincere i tedeschi e altri europei che gli ebrei stessero cospirando per dominare il mondo politicamente e corromperlo biologicamente.

Sono ben note le conseguenze genocide di tali fantasie malate – e l’Olocausto è per molti ebrei memoria viva, non “storia antica”. Io sono venuto a sapere dell’antisemitismo nazista da ragazzo quando mio padre, convinto che fosse in corso una campagna per sterminare gli ebrei europei, entrò nella Lega Anti-Diffamazione di B’nai B’rith provando a svegliare altri americani alla verità sui campi di morte di Hitler.

Poi, per fornire un rifugio ai sopravvissuti, contribuì a varare la nave da trasporto nota come Exodus a Baltimora e contrabbandò armi per la Haganah, l’esercito israeliano in erba. Lui e mia madre lavorarono anche come attivisti per por fine all’antisemitismo americano, che comportò dagli anni 1920 fino ai 1950 forme multiple di discriminazione contro gli ebrei. Più avanti in età udii resoconti dal vivo dell’Olocausto da mia madre e mio suocero, due sopravvissuti del campo di sterminio di Auschwitz che si conobbero solo dopo la guerra a Chicago.

L’antisemitismo sembrava una vera minaccia a tutti noi. Ma tutto questo avvenne negli anni a ridosso della 2^ guerra mondiale, allorché riuscì quasi a risolvere il suo “Problema Ebraico”. Nei successivi 80 anni si è chiarito al contrario che pur con chiazze di povertà, su scala globale il popolo ebraico ora sta fra i gruppi più privilegiati al mondo. Per patrimonio e reddito, istruzione, capacità lucrabili, conquiste culturali, accettazione sociale, e influenza politica sono in testa a qualunque graduatoria comparativa di gruppi etnici e religiosi. Questo è particolarmente chiaro in USA, dove l’AIPAC, il principale lobbysta pro-Israele, ha da tempo una potentissima influenza sulla politica estera americana.

Appena si parla d’influenza ebraica, ovviamente certi critici gridano all’ “antisemitismo!” E’ del tutto vero che ci sono “tropi antisemitici” che attribuiscono agli ebrei poteri che non posseggono, come il controllo del sistema bancario e dei media informativi. Ma non è antisemitico riconoscere il potere di organizzazioni come l’AIPAC, o far notare che la comunità ebraica in USA, che tradizionalmente solidarizzava con gruppi di poveri e della classe lavoratrice in patria e all’estero, ha sviluppato una influente ala conservatrice che ora fa comunella coi miliardari e spinge per una politica estera imperialista.

Attualmente, secondo me, la minaccia più seria alla comunità ebraica non è posta da ribelli palestinesi, islamisti militanti, o antisemiti locali, bensì molto di più da una posizione privilegiata usata per dominare gruppi meno fortunati e potenti che alla lunga genera odio di massa degli ebrei  e di altre formazioni elitarie. I progressisti al parlamento USA come Barbara Lee, Alexandria Ocasio-Cortez, Jamaal Bowman, Ilhan Omar, e altri lo capiscono bene, ma non essendo abbastanza pro-Israele per i conservatori, vengono chiamati antisemiti e contrastati nelle primarie dai rivali foraggiati dall’AIPAC.

Stress post-traumatico politico: costi e cure

L’antidoto al vivere sotto l’ombra del trauma passato è una sana dose di realtà sociale presente. Vivendo nel presente, è possibile riconoscere i pericoli dell’elitismo e il bisogno di affermare la propria parentela umana con gruppi meno favoriti. La “coscienza da vittima” invece perpetua una coscienza puramente etnica o “tribale”. Che altro se non tribalismo etnico potrebbe giustificare la posizione che sia perfettamente accettabile uccidere 13.000 o più palestinesi per distruggere l’organizzazione responsabile di 1.200 morti ebrei? Le giustificazioni sottaciute per questa posizione, che altrimenti parrebbe enormemente sproporzionata e immorale a giudicare dalle apparenze, sono, prima, che il nemico mira ad annientarci del tutto e ha opportunità per farlo, e seconda, che i “nostri” valgono più degli altri.

La prima giustificazione, abbiam visto, è comprensibile ma falsa. La seconda – il valore supremo dei nostri a confronto con gli altri – è la principale premessa sottaciuta a sostegno del resto dell’argomentazione per uccidere civili e soldati stranieri. Le truppe tedesche occupanti l’Europa Occidentale nei primi anni 1940 avevano qualcosa di simile in mente quando dichiararono che avrebbero ucciso 10 ostaggi civili per ogni tedesco abbattuto dalla Resistenza. Quando nel 2011 il regime israeliano rilasciò 1.027 prigionieri palestinesi in cambio del ritorno di un ostaggio IDF, molti lo considerarono un nobile gesto. Ma la sua decodifica rivela un rapporto nascosto – uno di noi vale mille di loro. Calcolando l’estensione dei “danni collaterali” permissibili in una lotta come la guerra a Gaza, questa sorta d’equazione rappresenta un tuffo fatale nel tipo micidiale di etno-nazionalismo.

Ovviamente, l’Olocausto non è l’unico trauma all’opera nel contesto della guerra di Gaza. Anche i palestinesi hanno il proprio “trauma scelto,” la Nakba ossia Catastrofe, riferita al processo per cui oltre 700.000 di loro ,persero casa e terra durante la guerra israelo-araba del 1948, con più di 200.000 costretti a vivere in altre nazioni. Come gli ebrei che percepiscono l’assalto di Hamas del 7 ottobre come il potenziale nuovo inizio dell’Olocausto, molti palestinesi (fra cui i residenti di Gaza, quasi tutte le cui famiglie fuggirono o furono scacciate dalla Palestina pre-1948) vedono nell’attacco massiccio a Gaza l’inizio di una nuova Nakba.

Le analogie di pensiero ed emozioni nelle parti traumatizzate sono impressionanti: mentre gli israeliani sono stati ri-traumatizzati dalla violenza personale e dalle asserzioni d’inimicizia verso gli ebrei, i palestinesi sono stati terrorizzati di nuovo dai bombardamenti senza precedenti dell’IDF e dalle dichiarazioni di funzionari israeliani che descrivevano i residenti di Gaza come “animali” e a favore della loro espulsione in massa.

Allora, di fronte a tali gravi provocazioni, come s’impara da un trauma, mantenendo fresco il ricordo pur vivendo nel presente effettivo? In Killing in the Name of Identity: A Study of Bloody Conflicts (Pitchstone Press, 2006), Vamik Volkan descrive una forma di dialogo terapeutico fra rappresentanti di gruppo che ha trovato utili in nazioni afflitte da gravi lotte etniche. Si sono tentate anche altre forme di guarigione da trauma, talora con risultati promettenti. Ma non sembra esserci surrogato a una campagna d’educazione di massa gestita da un movimento politico dedito a chiarire la natura e la portata della distruzione propagata da gruppi elitari oppressivi nonché la possibilità di costruire un sistema più giusto e pacifico.

Sionismo e antisemitismo

Ci sono forme di antisemitismo del tutto ovvie perché basate o su falsificazioni ben note, esagerazioni maliziose, o sull’attribuzione di male intenzioni ad ebrei. Ben più problematica è l’accusa che la critica dello stato d’Israele o del suo comportamento presuntamente andato troppo in là sia antisemitica, perché maschera ostilità verso gli ebrei o nega loro gli stessi diritti riconosciuti universalmente quando pretesi da altri gruppi. Criticare semplicemente Israele va bene; pochissimi considererebbero la critica di politiche israeliane riguardo agli insediamenti in Cisgiordania come espressione di antisemitismo, dato che il diritto internazionale non riconosce a chi occupa un territorio conquistato di insediarcisi o annetterlo, e quasi tutte e organizzazioni internazionali considerano i palestinesi un popolo titolare di diritti nazionali, ivi compresi diritti di qualche genere alle terre conquistate da Israele nel 1967.

Ma le cose si fanno più complicate quando agenti pro-palestinesi (compresi gruppi come la Voce Ebraica per la Pace) dichiarano che lo “Stato ebraico”, almeno come definito e gestito da successivi governi israeliani, sia illegittimo e debba essere sostituito da una forma più pluralistica e democratica di governance. Molti antisionisti sostengono che, pur avendo la comunità ebraica diritto a un’esistenza sicura nel Medio Oriente, la forma di stato in cui essa esiste deve riconoscere l’ingiustizia della Nakba, il diritto dei palestinesi (o almeno di alcuni di essi) di tornare alla terra carpitagli (o almeno part di essa), il diritto dei palestinesi ad avere una capitale a Gerusalemme-est, e uguali diritti e status per palestinesi e israeliani, musulmani ed ebrei.

“Stato ebraico” potrebbe ovviamente significare molte cose; la Chiesa d’Inghilterra è la Chiesa istituzionale nella pluralistica, democratica Gran Bretagna, che potrebbe scegliere, se il suo popolo desiderasse, di chiamarsi uno stato anglicano. Ma ciò che si potrebbe definire l’opinione ortodossa dello Stato ebraico è stata espresso dal primo ministro Netanyahu, che affermò che Israele è “lo stato nazionale, non di tutti i suoi cittadini, ma solo degli ebrei”.

Presumibilmente, ciò vuol dire che questioni riguardo a temi cruciali che coinvolgono la religione e la vita civile, come il diritto al ritorno, la legge applicabile al matrimonio, al divorzio e a faccende di stato civile, e l’esenzione di studiosi religiosi dal dovere militare, debbano essere decise da ebrei, non da musulmani o altri. Significa anche che gli interessi alla sicurezza della comunità ebraica abbiano la precedenza su quelli dei non-ebrei, sicché se gli ebrei sentono di essere minacciati, hanno diritto (se non dovere) d’istituire posti di controllo, costruire muri, mettere fuori legge il porto d’armi ai non -ebrei, e così via.

Un’evidente implicazione di questo principio è che lo stato ebraico deve avere una maggioranza elettorale ebraica permanente, rendendo così illegittima qualunque sorta di soluzione a “uno stato” che minacci di produrre una maggioranza non-ebraica. (Anche una soluzione a due stati che neghi il supposto diritto alla sovranità sulla Cisgiordania – “Giudea” e “Samaria” – potrebbe in alcuni scenari venir deliberata come illegittima.)

Con questi temi in mente, gli antisionisti sostengono che uno Stato ebraico, come attualmente concepito, non sia analogo a uno stato francese o polacco, bensì qualcosa più prossimo alla Repubblica islamica dell’Iran, una teocrazia, e perciò una forma illegittima di governance nel mondo post-illuminista.

In ogni caso, proprio come non è “anti-sciita” chiedere la sostituzione del regime iraniano con qualcosa di più pluralistico e democratico, non dovrebbe essere considerato antisemitico sollevare lo stesso genere di critica contro lo Stato ebraico. Inoltre, è fallace affermare che ciascun popolo sulla Terra abbia diritto a un paese in cui i propri interessi etnici o religiosi siano istituzionalizzati e considerati supremi. Centinaia di popoli nel mondo moderno non hanno un tale paese, e molti di essi non lo vogliono.

A livello più profondo che queste argomentazioni legali e politiche c’è però la crisi percepita di sicurezza che induce i membri di certi gruppi come i sionisti religiosi a esigere uno stato che essi credono li protegga dai membri di gruppi e popoli ostili. Questa era dopo tutto la motivazione originaria che diede vita allo Stato ebraico, e una difesa di tale stato con argomentazioni d’accusa antisemitica dei propri avversari li identifica, pur nuovi, con i vecchi nemici che provocarono la crisi di sicurezza originaria. Col che si torna al primo tema di questo editoriale – l’idea che vengano rivissuti traumi molto gravi dovuti a minacce di sopravvivenza di un gruppo quando si provino nuove minacce benché non comparabili con le originarie.

Chi difende l’attuale rappresaglia massiccia del governo israeliano contro i resident di Gaza dichiara spesso che i suoi critici sono “pro-Hamas” – una nozione infondata che annullando la distinzione fra sionismo e giudaismo cancella pure quella fra critici dello Stato ebraico e terroristi anti-Israele. Paradossalmente, certi capi di Hamas (non tutti) sono stati più discriminanti che così: Ismail Hanieh ha dichiarato nel 2006 che “Hamas non è ostile agli ebrei perché sono tali, ma perché hanno occupato la nostra terra ed espulso la nostra gente”.  Chiaramente, gli assassini di Hamas del 7 ottobre non hanno distinto fra sionisti ed ebrei. Ma gli autoproclamati apostoli dello Stato ebraico non fanno alcun favore al proprio elettorato confermando tale equazione. Sondaggi USA confermano che il sostegno allo Stato ebraico sta rapidamente declinando, particolarmente fra i più giovani.

Le accuse che la perdita di sostegno per una perdurante violenza israeliana contro i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania indichino un aumento dell’antisemitismo sembrano basate in parte su una nevrosi di massa che coinvolge il rivivere il trauma dell’Olocausto, e in parte su un’ideologia nazionalista religiosa abbracciata dall’ala destra sionista ma ora accettata, sotto gran pressione politica, anche da molti centristi e sinistrorsi.  In fondo, la drastica insicurezza fra gli ebrei israeliani e molti ebrei in Europa e America risvegliata dall’attacco di Hamas rafforza quest’ideologia. Invece, persone più giovani che non provano la stessa insicurezza transgenerazionale tendono a rigettare sia l’equazione sionismo-giudaismo sia la legittimità del paese ebraico.

Al momento di questo scritto, è stata dichiarata una tregua a Gaza per permettere il rilascio di ostaggi detenuti da Hamas e prigionieri femmine e giovani detenuti da Israele. Il regime di Netanyahu ha promesso un sollecito ritorno alla violenta rappresaglia scatenata contro i gazawi, col sostegno USA, da parte delle Forze di Difesa Israeliane.  Non sarà considerato antisemitico, confido, pregare affinché la “pausa” nelle ostilità diventi permanente e tutti gli ostaggi e tutti i prigionieri vengano restituiti vivi alle loro comunità e famiglie.

EDITORIAL, 27 Nov 2023

#824 | Richard E. Rubenstein – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


 

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