Dal Sud Africa agli Usa si intensificano le azioni contro il trading di armi verso Israele

Gaia Sartori Pallotta

In vista della manifestazione anti-militarista che tra due giorni (sabato 18 novembre) mobiliterà decine di organizzazioni a Torino, per denunciare l’ennesima Fiera delle Armi che anche quest’anno avrà luogo (rigorosamente a porte chiuse!) a fine novembre al Lingotto, ecco due notizie che ci fanno ben sperare circa l’intensificarsi a livello globale delle azioni dirette a ostacolare l’invio di armi a Israele.

Dopo l’ondata di blocchi portuali di settimana scorsa, che ha visto la presenza di molti lavoratori e attivisti bloccare diversi porti negli Usa, in Australia e fin da noi in Europa, ecco dal sito Truthout.org la notizia di una manifestazione che ha avuto luogo qualche giorno fa (venerdì, 10 novembre) a Gauteng in Sudafrica. Al grido di “Niente armi all’apartheid”, un gruppo di attivisti sudafricani ha impedito l’ingresso principale della Paramount Group, società che opera nei settori della difesa globale e della sicurezza interna e che appunto commercia armi con Israele.

Paramount Group è il più grande commerciante di armi del continente africano, situato nel Gauteng a circa 20 minuti a nord di Johannesburg. Al grido di “Free free Palestine” e di “shut down Paramount, no arms to apartheid” (chiudiamo la Paramount, niente armi all’apartheid) gli attivisti si sono posizionati davanti ai cancelli srotolando alcuni striscioni con le scritte a lettere cubitali “(Paramount) criminale di guerra per eccellenza” e “basta finanziare il genocidio”.

Alcuni si sono poi diretti verso un angolo di strada particolarmente trafficato dove hanno speakerato contro la funzione bellica della Paramount, hanno parlato con i lavoratori e i passanti ed infine hanno versato della vernice rossa sul logo dell’industria bellica e su diversi fagotti macchiati di rosso, a rappresentare le migliaia di bambini palestinesi uccisi dall’attuale attacco israeliano.

“Una fabbrica di morte sta operando alle nostre porte” hanno denunciato gli attivisti. Il fondatore e presidente esecutivo della Paramount, Ivor Ichikowitz, è un “filantropo” esoterico tra l’altro molto noto in Sudafrica, mentre il vicepresidente della Paramount per l’Europa, Shane Cohen, era un tenente colonnello dell’esercito israeliano.

La Paramount ha fatto soldi grazie al coinvolgimento in conflitti armati in tutto il mondo, vendendo armi, attrezzature militari, tecnologia e veicoli, e attraverso contratti di difesa a soggetti di dubbia provenienza. Tra questi, le forze governative e paramilitari coinvolte nella pulizia etnica in Kazakistan, la repressione di Stato in Arabia Saudita e i combattimenti che coprono l’estrattivismo petrolifero in Mozambico.

Hanno partecipato alla protesta anche parecchi attivisti ebrei antisionisti affiliati al SAJFP (South African Jews for Free Palestine): “Siamo inorriditi da questo genocidio e dai 75 anni di espropri e pulizia etnica. È nostro dovere morale di ebrei fermare tutto questo e lottare per la giustizia, perché senza giustizia non c’è pace”. Un altro membro del SAJFP ha aggiunto: “Per tutta la vita mi è stato detto che Israele era lì per proteggermi da cose come un genocidio. Ma mi rifiuto che un governo coloniale metta in atto questo stesso genocidio in mio nome o in nome del mio popolo”. Era presente anche il sindacato sudafricano GIWUSA (General Industries Workers Union of South Africa), oltre ai membri del Comitato sudafricano di solidarietà con la Palestina e i membri di Boycott, Divestment, Sanctions (BDS) South Africa.

Ciascun membro del blocco ha letto una dichiarazione sui crimini di guerra del Paramount Group e di Ichikowitz, presentando richieste collettive per la chiusura delle attività in Sudafrica, l’annullamento di tutti i contratti del governo sudafricano con l’azienda, la chiusura dell’ufficio della Paramount a Tel Aviv e l’espulsione dell’ambasciatore israeliano da parte del governo sudafricano.

Ed ecco, solo tre giorni dopo (13 novembre), la notizia di un’altra protesta anche a Los Angeles, dove alcuni manifestanti hanno bloccato la Raytheon, azienda che produce armi e bombe dirette anche in Palestina.

Un lungo e riccamente illustrato reportage sul sito crimething.org riferisce di un’azione che ha visto arrivare ai cancelli della Raytheon decine di persone fin dalle 7 di mattina, in risposta all’appello di Workers in Palestine di intraprendere una qualche iniziativa concreta per bloccare il flusso di armi all’esercito israeliano.

Situata a sud dell’aeroporto internazionale di Los Angeles e proprio di fronte alla controversa raffineria di petrolio Chevron, Raytheon è uno dei tanti produttori di armi che hanno sede nel sud della California. Come Lockheed Martin, Northrup Grumman, Boeing, Elbit Systems e General Dynamics, Raytheon trae profitto dai contratti con il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Questi contratti consentono a Raytheon e ad altri produttori di armi di trarre profitto dalla fornitura di tecnologia militare come i missili Sidewinder, le bombe a guida laser Paveway, i missili intercettori Tamir e le munizioni per attacco diretto congiunto (JDAM) all’esercito israeliano.

Gli attivisti hanno bloccato l’impianto per più di sette ore durante le quali altre centinaia di manifestanti si sono uniti all’azione e insieme, sono riusciti a bloccare le operazioni dell’impianto per tutto il giorno.


 

 

 

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