Una donna chiamata Maixabel. Note su violenza, dolore e dialogo
Nelle sale cinematografiche – proprio in questi giorni – un film dal titolo Una donna chiamata Maixabel, di Icíar Bollaín, che esplora le conseguenze della violenza e il suo costo umano; nello specifico per chi la subisce, ma anche per chi la esercita e per la società in cui si insinua.
ETA, una sigla del passato?
Secondo Wikipedia, Euskadi Ta Askatasuna (in spagnolo País Vasco y Libertad, letteralmente “Paese basco e libertà”), anche nota con l’acronimo di ETA, fu un’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista indipendentista con una fazione marxista-leninista, il cui scopo era l’indipendenza del popolo basco.
Molte persone – quasi tutti i giovani, credo – non conoscono la storia di questa organizzazione: l’ETA è nata nel 1958 dalla scissione del Partito nazionalista basco e ha compiuto la sua prima azione violenta nel 1961, durante la dittatura di Franco. Risale al 1968 il primo attacco mortale attribuito all’ETA.
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L’ETA è responsabile della morte di 829 persone. Gli anni più sanguinosi sono stati il 1978 (con 65 omicidi), il 1979 (con 86 omicidi) e, soprattutto, il 1980 (con 99 omicidi). Dal 1980 al 1987 ci fu una media di 40 attacchi mortali ogni anno, superata nel 1991 (con 46 omicidi). Vittime non erano più solo i politici, i militari, i poliziotti e le guardie civili ma anche le loro famiglie e non solo: l’ETA ha infatti colpito con attacchi indiscriminati, come nel caso dell’autobomba fatta scoppiare nel parcheggio di un ipermercato di Barcellona, nel 1987, il cui bilancio fu di 21 morti e di 45 feriti.
A partire dal 1992 la forza dell’ETA diminuì notevolmente, anche se continuò a compiere atti terroristici. La sua ultima vittima fu nell’anno 2010 e il “cessate il fuoco” definitivo nel 2011. Della storia, e in particolare delle trasformazioni degli aspetti giuridici che contrassegnarono la lotta contro questa organizzazione, si può leggere un articolo interessante di Miguel Carmona sul sito di Magistratura Democratica, con il titolo La Spagna tra vecchio e nuovo terrorismo?
Altrettanto utile può essere la lettura di una intervista a Ana Escauriaza Escudero dell’Università di Navarra – Università e terrorismo in Spagna pubblicata sul sito di Polidemos dell’ Università Cattolica. In questa intervista emergono le somiglianze – ma soprattutto le profonde differenze – tra gli ‘anni di piombo’ che funestarono l’Italia e la Spagna nei decenni a partire dagli anni ’70 del 900. Un libro che racconta in modo efficace il clima di insicurezza e angoscia creato dal terrorismo in Spagna è il best seller di Fernando Aramburu, Patria.
Ai terrorismi locali e nazionali hanno fatto séguito altre, e ancora più devastanti forme di violenza, nelle quali siamo drammaticamente immersi. Perché dunque tornare a parlare dell’ETA?
Un film da vedere
La risposta è l’uscita nelle sale cinematografiche – proprio in questi giorni – di un film dal titolo Una donna chiamata Maixabel, di Icíar Bollaín, che esplora le conseguenze della violenza e il suo costo umano; nello specifico per chi la subisce, ma anche per chi la esercita e per la società in cui si insinua.
Maixabel Lasa, interpretata da Blanca Portillo, è la vedova di Juan María Jaúregui, politico socialista (nonché ex ETA, uscendo però nel 1972 non condividendo i moti violenti) che venne assassinato a Tolosa il 29 luglio del 2000 da un commando dell’ETA, tornata attiva dopo due anni di tregua (la stessa tregua permanente annunciata e rispettata nel 2011, con lo scioglimento definitivo datato 2018). Le indagini portarono all’arresto dei colpevoli, che furono condannati nel 2004 a 39 anni di carcere.
La storia presentata nel film si concentra sugli eventi successivi all’assassinio di Juan María Jaúregui: è il 2014, e uno dei terroristi, Ibon Etxezarreta, chiede di incontrare la vedova. Sta scontando la sua pena nel carcere di Nanclares de la Oca, ad Álava. Nel frattempo Maixabel Lasa è stata nominata direttrice della Oficina de Atención a las Víctimas del Terrorismo, associazione che ha lo scopo di fornire protezione e assistenza complete alle vittime dirette di azioni terroristiche e ai loro parenti e amici più vicini.
Nonostante i dubbi e l’immenso dolore, Maixabel accetta di incontrare faccia a faccia una delle persone che hanno posto spietatamente fine alla vita di colui che era il suo compagno sin dall’adolescenza. Il primo incontro è anticipato da una serie di colloqui – sia del colpevole che della vittima – con una mediatrice: una figura a mio parere resa molto bene nel film, per la sua competenza e umanità.
Ibon Etxezarreta confessa a Maixabel che non nutriva alcun odio personale nei confronti del marito: stava semplicemente eseguendo degli ordini, come un mercenario assunto per un obiettivo specifico, e uccidere Juan Maria o un altro era indifferente. Questo gesto ha trasformato la vita di Maixabel e della figlia Maria, che – come più volte sottolineano nel corso del film – non è più la stessa. Non conosceranno più la felicità dopo la morte del compianto marito e padre. Accettando di incontrare gli assassini del marito Maixabel riconosce che ormai è “legata a quelle persone per tutta la vita“. Il dialogo si sviluppa dopo più di dieci anni dal tragico incidente: negli incontri tra l’assassino e la vittima emergono aspetti e dettagli che documentano l’insensatezza e l’irrimediabilità della violenza, e al tempo stesso l’inesorabile continuità del dolore causato.
La vera Maixabel Lasa ha partecipato all’intero processo del film insieme alla figlia Maria, ed è presente in una scena finale del film. “Con la violenza – afferma – non si ottiene assolutamente nulla, quello che devi fare è fare le cose in un altro modo, con pedagogia, ascoltando il prossimo e risolvendo i problemi che abbiamo quotidianamente, usando soprattutto la parola”.
Un cambio di prospettiva
Quando ci sono ferite ancora aperte, parlare di dialogo e di perdono è estremamente complesso e doloroso, ma può anche essere curativo. Si tratta di un cambio di prospettiva che – nel caso in esame – viene reso possibile dal passare del tempo e, soprattutto, dello scioglimento definitivo dell’ETA. “Ora che non uccidono più, non è pericoloso parlarne, ma prima fare un film su questo tema era molto compromettente”, sottolinea la regista Iciar Bollaín.
In occasione della partecipazione a un Corso su “Processi di pace e riconciliazione e riparazione delle vittime: obiettivi inconciliabili?” Maixabel Lasa ha raccontato la sua esperienza con gli incontri riparativi che ha avuto con l’ex membro dell’ETA Ibon Etxezarreta. “Ho partecipato a questi incontri pensando che si trattasse di un inizio di qualcosa di positivo per la futura convivenza che tutti auspichiamo nei Paesi Baschi, ma si è scoperto che hanno avuto un impatto anche su di me personalmente”. “Ho lasciato il primo incontro del 26 maggio 2012 con la sensazione di essermi tolta un peso dalle spalle, rendendomi conto che la persona che aveva osato uccidere Juan Mari era pentita e che ovviamente in quel momento era totalmente contraria a ciò che aveva fatto”, ha detto.
Riconoscere l’umanità dell’altr*
Sul sito ‘Les enfants terribles’ è disponibile una lunga riflessione che – a partire dalla recensione del film Maixabel – approfondisce alcuni aspetti del processo di mediazione in generale.
Ne riporto qui alcuni brani.
Veniamo a sapere che il lavoro dei mediatori durante il processo è andato ben oltre quanto previsto dalle scene. Innanzitutto, c’è stata una lunga catena di colloqui individuali con i detenuti che hanno mostrato interesse per questi incontri. L’obiettivo era quello di svolgere un lavoro emotivo prima dell’incontro con le vittime; un lavoro per attivare l’empatia, poiché, in generale, l’atto di uccidere ha già comportato la disumanizzazione (di se stessi e dell’altro). Allo stesso modo, sono stati organizzati incontri individuali con le vittime per chiarire i loro dubbi e concentrare i loro sforzi nel raccontare come l’attacco abbia cambiato la loro vita e come abbia generato un “legame” imposto, non cercato né accettato, con l’assassino dei loro cari.
Innanzitutto, l’iniziativa di riunire vittime e carnefici non si è basata su un’uguaglianza morale tra loro, né sullo sbiancamento o sulla riduzione della responsabilità penale e personale per i crimini commessi dai terroristi. Nessuno di questi ultimi ha ricevuto benefici penitenziari per la partecipazione a questi incontri. Inoltre, secondo il team di mediatori, la preparazione degli incontri è stata particolarmente impegnativa per loro, e questi incontri sono stati fondamentalmente orientati a beneficio delle vittime, la cui integrità emotiva e psicologica è stata protetta in modo particolarmente delicato. Inoltre, va notato che questi incontri non erano necessariamente incentrati sul desiderio di perdonare o di essere perdonati. […]
Le esperienze di questi incontri riparatori e il loro riflesso in un film come Maixabel ci portano a scoprire qualcosa di per certi versi inaspettato: gli effetti costruttivi della mediazione in luoghi in cui non sembrava nemmeno minimamente possibile. E, vedendo in loro il potere benefico della mediazione, (ri)scopriamo anche la capacità umana di riconoscere l’umanità dell’altro attraverso le parole.
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