Non guerra al terrorismo ma dialogo per delle soluzioni
Sono seduto a un tavolo da qualche parte in Afghanistan. Al tavolo ci sono tre taliban; pashtun come la gran parte dei taliban. La mia domanda iniziale è quella standard: “Come sarebbe l’Afghanistan dove vi piacerebbe vivere?”, con domande successive altrettanto standard: “Che cos’è il peggio che vi è capitato?” e “C’è stato un periodo buono in passato?”
Ed essi parlano, parlano, parlano; sembra che mai nessun occidentale gli abbia rivolto domande su come la pensano. Per loto le risposte erano ovvie, e ci tenevano molto a spiegare quell’ovvio:
- Il peggio che gli sia capitato fu la linea Durand (sir Mortimer) nel 1893, il confine di 2.250 km fra l’Afghanistan e l’allora Impero Britannico, oggi Pakistan, che taglia(va) in due le nazioni pashtun e baluci. Oggi i pashtun, 50 milioni, sono la nazione maggiore al mondo senza un proprio stato, sicché la loro assoluta priorità è disfare quella linea che li definisce contrabbandieri, “terroristi” che fuggono verso la salvezza “sull’altro versante”.
- Poi il vezzo occidentale d’invaderli, il Regno Unito tre volte, l’URSS una volta, adesso gli USA e la “coalizione dei volonterosi”- che prosegue tuttora
- E come dovrebbe essere? Afghanistan-Pakistan senza confine.
E poi: l’Afghanistan non è uno stato unitario occidentale con capitale Kabul, quella è un’illusione occidentale. L’Afghanistan è una coabitazione di 8 nazioni – 7 delle quali anche nei paesi vicini – e 25.000 villaggi, molto poveri, molto autonomi. Ed è invincibile: non c’è un punto centrale dal quale un invasore possa conquistare l’intero paese. Magari una lasca federazione con i villaggi come unità base e una piccola capitale; magari una comunità con i vicini di spirito – l’islam e la lingua; di cui la priorità economica sia l’aspetto positivo, non punitivo, della shari’a, le necessità essenziali per tutti, tutte le nazioni, ambo i generi.
E lì abbiamo fatto errori terribili, imparando adesso da fratelli e sorelle più avanzati di paesi musulmani. Stiamo migliorando. Siamo molto violenti sicché abbiamo bisogno di un qualche peacekeeping da parte dei nostri paesi fratelli e sorelle più progrediti, Tunisia, Turchia, Indonesia. E poi, Occidente di qualunque tipo, vorreste smettere d’invaderci! Nessuno ci ha difeso, ma ci è costato milioni di vite.
Sì c’è stato di meglio prima della linea Durand e nei periodi fra le invasioni. Quanto ci serve ora è un governo di coalizione, una blanda federazione, una comunità coi vicini, precedenza alle necessità basilari per tutti, peacekeeping da fratelli e sorelle. Ecco l’Afghanistan che vogliamo.
Mi ricordo durante la mia prima visita in Afghanistan nel gennaio 1968, a farmi la mia domanda standard: che cosa mi rammenta questo paese? La risposta era ovviamente la Svizzera; non 8 nazioni ma 4 (solo una svizzera); non 25.000 villaggi, ma 2.300 comunità locali, una federazione con nessuna nazione a gestire il paese da sola, un governo di coalizione permanente, la neutralità dato che prendere posizione a favore dell’uno o l’altro vicino farebbe a pezzi la Svizzera. Un modello svizzero?
Stavo nell’ufficio di David Kucinich prima che siano riusciti ad escludere dal Congress USA i maggiori fautori della pace manipolandone le circoscrizioni elettorali, con 8 suoi colleghi deputati: “Il professor Galtung qui presente è di ritorno dall’Afghanistan e da colloqui coi taliban; ne è emersa un’eventuale soluzione”.
Quale reazione nel maggior paese “terrorista di stato” al mondo? “Molto interessante. Ma noi siamo rappresentanti eletti del popolo USA, non interessato a delle soluzioni. Ci hanno eletto per quello: V come vittoria, allora gli diremo noi quale sia la soluzione.”
Ho detto che la vittoria avrebbe eluso gli USA data la dedizione loro [della controparte] e la prospettiva temporale illimitata rispetto a quella di una “amministrazione” o due; che una ritirata onorevole lasciando un regime che garbi agli USA gli sfuggirebbe pure; perché non contribuire con una costituzione federale e una Comunità CentrAsiatica, diventandogli amici? Risposta: non è nostro mandato. Io: allora andate dritti verso qualcosa di peggio che la sconfitta o la ritirata. Loro: Che mai? Io: Diventare irrilevanti. La palla è in altri cortili.
Sono al Dipartimento di Stato [USA] a fare la domanda standard: “Com’è l’Afghanistan che vi piacerebbe vedere?” E la risposta, prevedibile in quanto politica mindiale USA: “con la democrazia nel senso di elezioni multi-partito eque e libere, e un libero mercato”. E un Afghanistan che non può attaccarci – [tipo] 11 settembre (2001).
- Io: Ma la democrazia di quello stile presuppone una cultura dell’io, dell’individuo come decisore di sé stesso/a. L’Afghanistan è musulmano al 98%, più cultore del noi, per loro votare recide qualcosa di organico nei vincitori come negli sconfitti, per loro ha più senso il dialogo per un consenso. Nessuna risposta.
- Io: E il libero mercato porta a una maggiore disuguaglianza; non è un problema per l’islam, ma lo è la miseria degli ultimi, le necessità essenziali non soddisfatte. Come lo trattereste? Risposta: Per sgocciolamento [dai privilegiati]. Io: Sembrerebbe più forte un pompaggio attivo. Risata: Problema irrisolto.
Io da qualche parte in Asia sud-orientale, con davanti degli Al Qaeda. Io: “Com’è il mondo che vi piacerebbe vedere?”
- Loro: “Un mondo che rispetti l’islam, non lo calpesti.”
- Io: Ma voi non calpestate le donne? E il quarto stadio del jihad – esercitarvi per la fede – è molto violento.
- Loro: La violenza sulle donne non è coranica bensì tradizioni tribali non ancora superate. E il quarto stadio del jihad è l’autodifesa, legittima per il diritto internazionale.Contro le crociate, contro il sionismo, adesso anche contro l’invasione dell’Afghanistan”.
- Io: Ma c’è molto jihadismo dichiarato illegittimamente, o no?
- Loro: È un problema. Ma la rappresaglia moderata è islamica.
Sono a Madrid a una conferenza sul Dialogo delle Civiltà; davanti a me Hamas con una registrazione di Bush che dice che l’ha scelto Dio per portare la democrazia in Medio Oriente. Bush? Una blasfemia.
- Io: C’è un Israele che potete riconoscere? Loro: Ovviamente. Io: Come al 4 giugno 1967?
- Loro: Sì, con qualche modifica, ve lo diremo a suo tempo quando ci siano veri negoziati.
Sono in una dépendance del Pentagono con un generale a due stellette, fascinoso e ben informato: gli costa 10 dollari fabbricare un IED, una bomba [improvvisata] – possono andare avanti per sempre. Il nostro problema: nessun piano B. Gli è stato proibito dai superiori di parlare oltre con me.
Una conferenza a un think tank a Washington. Una relazione eccellente di un consulente del Dipartimento di Stato sulla storia dei colloqui Israele-Palestina-USA. Domanda del moderatore: “E la soluzione?” “Nessuna idea.” Vengo allora invitato a presentare il piano Transcend 1-2-6-20 – Palestina riconosciuta anche da Israele, con qualche cantone israeliano in Cisgiordania e qualche cantone palestinese nel nord-ovest d’Israele; cooperazione fra i due; entro una comunità a 6 stati d’Israele con suoi 5 vicini arabi; circondata da un’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Asia Occidentale costiutita pure dai vicini degli immediati vicini e qualche altro dell’area, circa 20. Silenzio. Nessun Piano B alternativo. Intervengono due esperti del Dipartimento di Stato, il cui compito è diffondere rispettivamente la democrazia in stile USA e una federazione. Il primo ha colto la risposta sulla cultura dell’Io / del Noi e inoltre che ci può essere bisogno prima di una federazione e quindi di democrazia in ogni sua parte per evitare che le nazioni più numerose dominino tutte. E, in quanto al secondo: Per una federazione devono anche identificare qualcosa che le leghi assieme, non solo che le divida. Magari vogliono l’indipendenza, glielo si chieda.
Prima conclusione. Quel che dicono i “terroristi” non è irragionevole; lo è invece non sapere che cosa dicano. Non conosco casi dove non ci sia una base per una soluzione ragionevole – accettta, sostenibile. I “terroristi di stato” a Washington sembrano così dediti alla programmazione ed attuazione militare da aver poco tempo o personale residuo per un qualunque piano di ripiego; o proprio nulla o non frutto di riflessione. È notevole l’insensibilità ai fattori culturali e strutturali.
Seconda conclusione. Ciò deve cambiare a beneficio di tutti i coinvolti. E bastano dialoghi, preferibilmente pubblici, con tutte le parti in causa.
Scenderei adesso in maggiori dettagli riguardo ad Afghanistan-Pakistan-USA. Washington, Fondazione Carnegie, 18 aprile 2012: Signore e signori,grazie in primo luogoalla Fondazione dell’Associazione Musulmana Americana per aver organizzato un forum su questo tema controverso nel cuore di Washington!
Mi avete dato la prospettiva globale su questo pannello, considerando spazio e tempo in quantità: piuttosto einsteiniano. Vedendo il mondo dall’alto percepisco cinque mega-tendenze sullo sfondo, a mo’ di contesto del tema: la caduta dell’impero USA; il de sviluppo dell’Occidente; il declino del sistema statuale a nazionalismi dal basso e regionalismi dall’alto; il sorgere del Resto del mondo; e della Cina.
E poi, planando verso terra, si vedono quei tre attori e innumerevoli sub-attori in abbracci mortali, così ben descritti da Ahmed Rashid nel suo Pakistan on the Brink [P all’orlo]: The Future of America, Pakistan, and Afghanistan. Evidenziamone alcuni aspetti.
Vediamo una ferita , un confine di 1400 miglia che divide i pashtun, oggigiorno 50 milioni, inciso nel 1893 da Durand – ministro degli esteri inglese dell’ “India britannica” – fra l’Impero, oggi Pakistan, e l’Afghanistan. Quindi, i pashtun che attraversano quella linea non stanno entrando in un “rifugio sicuro” ma a casa. Il “trattato” era in inglese, che l’emiro dell’Afghanistan non capiva. Un altro firmatario fu il Balucistan sovrano, successivamente invaso e incorporato nel Pakistan. Non vi erano compresi i pashtun.
Percepiamo la reificazione USA delle carte geografiche convenzionali degli stati del mondo, come le due citate. Sì, hanno governi, più o meno del popolo, da parte del e per lil popolo, non solo per l’1 %, e hanno più o meno o anche nessuno stato fallito, presidenti o primi ministri. Ma velano le mappe più importanti delle nazioni, più informative oggi, dato il declino degli stati. E le mappe delle civiltà, di arabi, musulmani, cristiani, ebrei. Non solo i musulmani hanno il dilemma di chi sono io, un cittadino di uno stato laico membro del sistema statuale, o un credente di una fede, dell’ummah per i musulmani.
Percepiamo le preoccupazioni del Pakistan: divisioni interne fra le nazioni, e il conflitto con l’India, soprattutto ma non solo, per il Kashmir.
Percepiamo le preoccupazioni dell’Afghanistan: altri che invadono, occupano, conquistano, da Alessandro Magno passando per i Mongoli e le tre invasioni inglesi, una sovietica, e adesso di USA-NATO in una coalizione a guida USA; con svariati pretesti. Come il dissimulare la ricerca di una base militare vicino alla Cina (Bagram), e per il petrolio dal Caspio all’oceano Indiano, col pretesto dell’11 settembre di provenienza afghana in generale e da bin Laden in particolare; senza produrre alcuna prova pubblica di una tale asserzione.
Percepiamo la ripetizione interminabile dello stesso errore elementare da parte USA: il nemoco del mio nemico è mio amico; che funziona bene per certi temi, ma quell’amico può ben avere altri punti in agenda. Usare bin Laden per battere i sovietici, ma forse è contrario al secolarismo in generale, non solo quello di marca sovietica? Usare il Pakistan per battere gli islamisti sul loro stesso terreno, ma forse in cima ai loro intenti per battere l’India nell’esercitare influenza in Afghanistan, e quindi proteggendo pashtun, taliban, e alloggiando l’arcinemico bin Laden? Così portando a una guerra di fatto, coi servizi segreti del Pakistani, ISI, presi di sorpesa (?) dall’ordine Obama di sua esecuzione extragiudiziaria da parte dei SEAL [teste di cuoio] USA in terra loro.
E sullo sfondo la bomba islamica di Ali Bhutto, in aggiunta alle bombe evangelicali, anglicane, cattolico-secolari, ortodosse, confuciane, giudaiche e hindu, in competizione per l’onnipotenza divina; per le mire d’Israele, per eliminare quella bomba, e bloccare quella in Iran, tutto ciò diviene obiettivo degli USA. La coda che agita il cane? In parte, ma ancor più importante è come sono nati i due paesi, rilevando la terra di qualcun altro in nome della propria fede, uccidendo, cacciandone gli abitanti in esilio, o in riserve, Anche la storia ben più lunga dell’India si può leggere in termini analoghi. Magari una base per l’alleanza USA-Israele-India nell’area: se uno di noi cade, tocca anche all’altro, per illegittimità? Beh, non sono i soli, guardiamo a molta parte della’America Latina.
E per quanto riguarda i rapporti USA-Pakistan? Agende che coincidono solo su alcuni punti e divergono abissalmente su altri li sospingeranno da un conflitto all’altro, come avvenuto per dieci-vent’anni. Ma anche l’Afghanistan, e il Pakistan in generale e l’ISI e l’esercito in particolare, usano gli USA come vacca da mungere – il Pakistan a suon di 3 miliardi di dollari l’anno o giù di lì.
Questi sono gli anni della vacche magre, non grasse. Il latte si stampa, in forma di voucher, vecchi arnesi. Comunque, non un rapporto durevole, e tanto meno in un Afghanistan dove devono creare esercito e polizia per il trasferimento del latte. Non è strano che i partner più o meno volonterosi e civili USA cooperino per avere dialoghi con i taliban per uscire dal ginepraio, mentre i militari USA dicono “dateci solo altri X anni e li batteremo”. Con droni e teste di cuoio.
USA e NATO si ritireranno e in suolo afghano si seppelliranno parecchie ossa dell’impero USA. E forse anche della NATO. Quella partita non offre soluzione.
Ed eccoci di nuovo alle grandi linee di tendenza dell’inizio: il potere si sta spostando verso il sud e l’est, gli stati stanno cedendo il passo a federazioni e regioni. Il Pakistan probabilmente può sopravvivere solo come federazione con amplissima autonomia per le parti costituenti. e come parte di una comunità centr-asiatica con gli otto vicini musulmani ivi compreso l’Afghanistan. Quanto più aperti saranno i confini, tanto più guarirà la ferita Durand, non col Pakistan o l’Afghanistan che cedano territorio all’altro, o con un nuovo Pashtunistan. E quella regione sarà più interessata a buoni rapporti con la Cina – già proprietaria di enormi risorse in Afghanistan – che con gli USA.
E gli USA? Si spera che si ritirino prima che la guerra con il Pakistan diventi più calda. Verso, anch’essi, il destino dei tempi attuali: magari una regione nord-americana. O invece verso una civiltà giudaico-cristiana USA-Israele, con tutti i problemi implicatici? Una vera federazione per WASP [bianchi protestanti d’ascendenza anglo-sassone] e nazionalità dominate entro gli USA? Una conferenza col Pakistan per scambiarsi esperienze, confrontando annotazioni sul periodo 2001-2012?
Dove manca l’amore, può essere meglio la separazione; o anche il divorzio.
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In conclusione qualche parola, forse congettura, sull’11 settembre 2001.
L’obiettivo arabo/wahhabita era probabilmente la giustizia, giustiziando due edifici dello spazio pubblico per presunti peccati contro Alla’h e mancanza di rispetto per l’islam. L’obiettivo USA era ed è lo status quo, insieme al libero scambio. Oggi è tabù addirittura parlare di stabilire un ponte fra i due versanti.
E tuttavia le parti chiave, chiamiamole Washington e Al Qaeda, non i 1.400 milioni di cristiani e i 1.300 milioni di musulmani, dovranno cominciare a fare proprio così, mediante dialoghi, segreti e pubblici. Non possono proseguire ad eliminarsi reciprocamente in cerca delle elusive “radici” del Male sull’opposto versante, che li renderebbe vittoriosi. Persone più sagge su ambo i versanti – probabilmente non nella cerchia immediata delle due figure di vertice, centro di eccessiva attenzione e molto simili, Obama e Osama – possono già aver iniziato a percepire come procedere per accostarsi a un dialogo. “Nessun attacco agli USA in cambio del ritiro militare USA dai paesi musulmani che lo richiedano” potrebbe servire da esempio per un possibile accordo. Un altro sarebbe esplorare il concetto di “zone esenti da globalizzazione”; come una mancata penetrazione economica USA nell’ummah musulmana. Ma l’approccio base sarebbe la mutua esplorazione tesa a identificare gli elementi legittimi in obiettivi quali il “libero scambio” e il “rispetto”.
Una violenza culturale è di massiccio impedimento a una pace strutturale positiva e nel caso dell’11 settembre 2001 addirittura a una pace diretta negativa, cioè alla semplice assenza di violenza; nel qual caso la cultura della violenza va aldilà del pregiudizio razziale, riportando in campo configurazioni di pensiero pre-moderne, pre-illuministiche puritane e wahhabite come l’Elezione, da parte di Dio per sé stessi, da parte di Satana per l’Altro, con visioni di gloria come ricompensa divina e trauma come suo castigo, e della battaglia conclusiva, Armageddon, dove chiunque non sia con noi è contro di noi. Magari l’Illuminismo una volta o l’altra penetrerà nelle due culture. E un giorno perfino la riconciliazione.
Nel frattempo smettiamola col termine “terrorista” e “terrorista di stato”; per cominciare li si metta fra virgolette, come citazioni. Ovviamente quei termini stanno per qualcos’altro: molto spesso a colpire gente indifesa non in divisa, da terra o dall’aria. Gente in divisa che si colpisce vicendevolmente – cioè guerre inter-statali, stanno diminuendo con lo scemare del sistema statuale, e anche perché le guerre sono troppo rischiose per i combattenti, si preferiscono vittime inermi. Cioè l’insorgere dei “terrorismi”.
Comunque, più basilare che le loro strategie violente di vario tipo è qualcosa di più profondo: conflitti, contraddizioni fra le parti, incompatibilità. Si dia un nome alle parti, s’identifichino i loro obiettivi, si esplorino le incompatibilità e le compatibilità dirette rispettivamente al conflitto e alla cooperazione, e si mutino le prime nelle seconde: mediante dialoghi tesi a soluzioni.
#523 – Johan Galtung – TMS
Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis
E' la esigenza che occorreva dichiarare, senza timore di essere accusati di anit-americaneismo o di fiancheggiamento dei teroristi.
Una guerra incnica dalla propaganda, uccidendo la verità per prima.Oggi siamo in guerra di propaganda, alla quale tutti imemdia e anche, sorprendentemente, le riviste si piegano, lasciando pensare che siamo in guerra e che i nostri delegati fanno un buon lavoro o almeno il meno peggio.
Se l'Occidnete non è solo la NATO a guida USA, ma è quell'Occidnete raionale che ha sempre preteso di essere, dobbiamo inziare un dialogo prima giornalistico e poi istituzionale in cui si capisca che cosa vuole ognua delle parti e che ragioni e torti venano messi sul tavolo.
Galtung, da buon non vioeklnto, ha iniziato. Come proseguire in modo organizzato? Un convegno?
Bell'articolo. IL dialogo, quello vero, ? indiscutibile preambolo a soluzioni