Il Covid-19 e l’atrofizzante malattia della normalità
“Ma il prezzo della pace?” chiese il sacerdote gesuita e oppositore della guerra Daniel Berrigan, scrivendo dal carcere federale nel 1969 mentre scontava la pena per la sua parte nella distruzione di liste di leva. “Penso alle persone buone, oneste, amanti della pace che ho conosciuto a migliaia e mi chiedo quante di loro siano così afflitte dall’atrofizzante malattia della normalità che, persino mentre si dichiarano a favore della pace, le loro mani si tendono in uno spasmo istintivo nella direzione dei loro cari, nella direzione delle loro comodità, della loro casa, della loro sicurezza, del loro reddito, del loro futuro, dei loro piani, quel piano ventennale di crescita e unità della famiglia, quel piano cinquantennale di vita onesta e di onorevole dipartita naturale”.
Dalla sua cella in carcere in un anno di movimenti di massa per terminare la guerra in Vietnam e di mobilitazioni per il disarmo nucleare, Daniel Berrigan diagnosticò la normalità come una malattia e la definì un ostacolo alla pace. “’Naturalmente vogliamo la pace’, gridiamo, ‘ma al tempo stesso vogliamo la normalità, non vogliamo perdere nulla, vogliamo che le nostre vite restino intatte, non vogliamo né carcere né cattiva reputazione né interruzioni dei nostri legami’. E poiché dobbiamo abbracciare questo e difendere quello, e poiché a ogni costo – a ogni costo – le nostre speranze devono procedere secondo programma, e poiché non si è mai sentito che in nome della pace una spada debba abbattersi, tagliando quella raffinata e scaltra rete che le nostre vite hanno tessuto… a causa di questo gridiamo pace, pace, e la pace non c’è”.
Cinquantun anni dopo, a causa della pandemia di COVID-19 l’idea stessa di normalità è messa in discussione come mai prima. Mentre Donald Trump sta “mordendo il freno” per riportare l’economia alla normalità prestissimo in base a un metro solo nella sua testa, voci più riflessive stanno dicendo che un ritorno alla normalità, ora o anche nel futuro, è una minaccia intollerabile cui opporsi. “C’è un gran parlare di tornare alla ‘normalità’ dopo l’epidemia di COVID-19”, dice l’attivista climatica Greta Thunberg, “ma la normalità è stata una crisi”.
In giorni recenti persino economisti della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale e giornalisti del New York Times hanno parlato dell’urgente necessità di riordinare le priorità economiche e politiche in qualcosa di più umano; solo le menti più ottuse e crudeli parlano oggi di un ritorno alla normalità come risultato positivo.
All’inizio della pandemia il giornalista australiano John Pilger ha ricordato al mondo la normalità di base che il COVID-19 esacerba: “E’ stata dichiarata una pandemia, ma non per i 24.600 che muoiono ogni giorno di una fame non necessaria, e non per i 3.000 bambini che muoiono ogni giorno per una malaria prevenibile, e non per le 10.000 persone che muoiono ogni giorno perché è negata loro un’assistenza sanitaria finanziata pubblicamente e non per le centinaia di venezuelani e iraniani che muoiono ogni giorno perché l’embargo statunitense nega loro farmaci salvavita, e non per le centinaia di prevalentemente bambini bombardati o affamati a morte ogni giorno in Yemen, in una guerra alimentata e mantenuta in corso, lucrosamente, da Stati Uniti e Gran Bretagna. Prima di cedere al panico, pensate a loro”.
Stavo iniziando le superiori quando Daniel Berrigan pose quella domanda e all’epoca, anche se naturalmente c’erano guerre e ingiustizie nel mondo, sembrava che non le prendessimo troppo sul serio o le contestassimo troppo strenuamente, il Sogno Americano con il suo potenziale illimitato si estendeva davanti a noi. Stare al gioco e le nostre speranze avrebbero “marciato secondo programma” era la promessa implicita che nel 1969 pareva cosa sicura, per noi giovani nordamericani comunque.
Alcuni anni dopo abbandonai la vita normale, lasciai gli studi dopo un anno di università e aderii al movimento dei Lavoratori Cattolici dove finii sotto l’influenza di Daniel Berrigan e Dorothy Day, ma quelle furono scelte privilegiate che feci. Non rigettai la normalità perché non pensavo che potesse mantenere la sua promessa ma perché volevo qualcos’altro. Anche se Greta Thunberg e gli scioperanti scolastici del venerdì per il clima condannano la mia generazione, pochi giovani, anche da luoghi in precedenza privilegiati, diventano adulti oggi con tale fiducia nel loro futuro.
La pandemia ha chiarito ciò che le minacce della distruzione globale attraverso il cambiamento climatico e la guerra nucleare avrebbero dovuto chiarire molto tempo fa: che le promesse della normalità alla fine non si realizzano mai, che sono bugie che conducono alla rovina coloro che ci credono. Daniel Berrigan comprese questo mezzo secolo fa: la normalità è un’afflizione, una malattia atrofizzante più pericolosa per le sue vittime e per il pianeta che non qualsiasi epidemia virale.
La scrittrice e attivista per i diritti umani Arundhati Roy è una dei molti che riconoscono il pericolo e la promessa del momento: “Qualsiasi cosa sia, il coronavirus ha messo in ginocchio i potenti e fermato il mondo in un modo che null’altro avrebbe potuto. Le nostre menti continuano ad altalenare desiderando un ritorno alla ‘normalità’, cercando di far quadrare il nostro futuro con il nostro passato e rifiutandosi di riconoscere la frattura. Ma la frattura esiste. E nel mezzo di questa terribile disperazione ci offre una possibilità di ripensare la macchina del giorno del giudizio che abbiamo costruito per noi stessi. Nulla potrebbe essere peggio di un ritorno alla normalità. Storicamente le pandemie hanno costretto gli esseri umani a rompere con il passato e immaginare da capo il loro futuro. Questa non è diversa. E’ un portale, è un cancello tra un mondo e il prossimo”.
“Ogni crisi contiene sia pericoli sia occasioni”, ha detto papa Francesco della situazione attuale. “Oggi io credo che dobbiamo rallentare il nostro ritmo di produzione e consumo e imparare a comprendere e contemplare il mondo naturale. Questa è un’opportunità di conversione. Sì, vedo i primi segni di un’economia meno liquida, più umana. Ma non perdiamo la memoria una volta che tutto questo sarà passato, non archiviamolo per tornare a dove eravamo”.
“Ci sono soluzioni che non abbiamo mai immaginato – a grande costo, con grande sofferenza – ma ci sono possibilità e io sono immensamente fiducioso”, ha detto l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, a Pasqua. “Dopo tanta sofferenza, tanto eroismo di lavoratori chiave e del Servizio Sanitario Nazionale in questo paese e dei loro equivalenti in tutto il globo, una volta che questa epidemia sarà vinta non possiamo sentirci appagati di tornare a ciò che era prima, come se fosse tutto normale. Deve esserci una resurrezione della nostra vita in comune, una nuova normalità, qualcosa che si colleghi all’antico ma sia diverso e più bello”.
In questi tempi pericolosi è necessario usare le migliori pratiche sociali e applicare con saggezza la scienza e la tecnologia per sopravvivere all’attuale pandemia di COVID-19. La malattia paralizzante della normalità, tuttavia, è la minaccia di gran lunga maggiore e la nostra sopravvivenza esige che l’affrontiamo almeno con lo stesso coraggio, generosità e ingegno.
Fonte: Znet Italy
Traduzione di Enzo Gargano per il Centro Studi Sereno Regis
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