Morte di Capitini e teoria del complotto

Mario Martini

Riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Mario Martini.


A cinquant’anni dalla morte di Capitini, ritrovato un importante documento

Una domenica pomeriggio del 2004 ero andato a trovare Lanfranco Mencaroni a Todi per metterlo a parte di un progetto di pubblicazione dell’epistolario di Capitini di cui avevo parlato a lungo con Roberto Abbondanza, assessore alla cultura del capoluogo umbro, progetto che si sarebbe realizzato con il mio ingresso nella Fondazione Capitini nel 2006. Ero da poco arrivato, quando uno squillo di campanello annunciò la visita di due vecchi amici di Mencaroni (e di Capitini): l’ingegner Ilvano Rasimelli, già presidente della Provincia di Perugia, e il dottor Pasquale Solinas, primario ospedaliero di cardiologia. Naturalmente si parlò subito, e per quasi tutto il tempo, di Capitini, delle vicende della sua vita con le tante sue vicissitudini, tra sorveglianza della polizia e ostilità di ambienti conservatori.

A un certo punto il discorso cadde sulla sua morte. Io ricordai che, nel libro “Uno schedato politico”, la direttrice dell’Archivio di Stato di Perugia Clara Cutini aveva pubblicato nel 1988 il fascicolo intestato a Capitini della Questura di Perugia, che contiene tutto il materiale nel quale le autorità di Pubblica Sicurezza avevano tenuto sotto controllo il filosofo della nonviolenza per tutta la vita. Il fascicolo si chiude con un ultimo documento, datato 29 ottobre ’68, nel quale è attestata la morte dello scrittore con queste parole: ‹‹In riferimento alla ministeriale suindicata si comunica che il nominato in oggetto (Capitini) è deceduto in Perugia in data 19.10.1968 a seguito di intervento chirurgico per “empiema della colecisti, ernia diaframmatica ed edema polmonare acuto”››. Il dottor Mencaroni, sodale di Capitini e compagno di tante sue lotte nonviolente, riportò il sospetto avanzato da esponenti del mondo pacifista di una morte non accidentale di Capitini, e accennò a voci secondo le quali il paziente, durante il suo ricovero in ospedale, sarebbe stato sottoposto a trattamenti non adeguati se non addirittura negativi da parte del personale medico.

Mencaroni respinse queste ipotesi, che comportavano la possibilità che il paziente fosse stato lasciato morire non solo ma anche che fosse stato fatto morire, e gli altri amici si dichiararono senz’altro d’accordo col medico di Todi. Il dottor Solinas avanzò poi una bonaria quanto arguta osservazione, con la quale si concluse il piacevole e simpatetico incontro, osservazione che andava oltre la difesa, per così dire, “d’ufficio” della classe medica: chi poteva avercela così tanto con un uomo e un paziente col carattere di Capitini? Su questo, si veda la bella prefazione di Goffredo Fofi al “Dossier Aldo Capitini. Sorvegliato speciale dalla polizia”, a cura di Andrea Maori e Giuseppe Moscati, Stampa Alternativa 2014, un seguito del citato lavoro della Cutini, approfondito e ampliato con un vasto scavo archivistico.

Per la verità, anche in altre occasioni mi è capitato di sentir avanzare dubbi sulla relativamente prematura fine terrena del pensatore della “Compresenza dei morti e dei viventi”, rapportati più o meno fondatamente alle sue condizioni di salute, alla novità rappresentata nei suoi anni dalla scelta vegetariana, ma anche al fatto di essere indubbiamente un personaggio inviso all’establishment politico e culturale dell’epoca. Ciò che mi è sembrato sempre fuori luogo è il collegamento di quest’ultimo fattore a una morte affrettata o indotta del personaggio, non si sa bene per volontà o ad opera di chi. Questa ipotesi, tra il complottistico e il popolaresco, ha sempre costituito per me un motivo di inquietudine su una personalità verso la quale, nei molti anni di studio sul soggetto, ho sempre nutrito la più incondizionata stima, e proprio per questo mi sono proposto più volte di intervenire sulla questione. Constatato che la scomparsa di Capitini non è quella di Majorana, mi sono detto che, proprio dal momento che egli è morto in una clinica ospedaliera, era ed è possibile fare la maggiore chiarezza sul caso. L’occasione opportuna mi è stata data da una lettera di Antonino Drago, studioso di Lanza del Vasto e protagonista di molte iniziative pacifiste, che ho ricevuto lo scorso mese di maggio. In essa viene esposta appunto la tesi della morte non accidentale di Capitini, attribuendo ad una centrale non meglio identificata (per quanto esplicitamente indicata) una volontà, e un disegno, di eliminare il principale esponente della nonviolenza e del pacifismo italiano. Drago espone e sostiene questa tesi anche in un articolo sul sito del Centro Studi Sereno Regis di Torino pubblicata in data 6 giugno scorso.

La posizione di Capitini all’interno delle vicende nazionali e internazionali della galassia pacifista è storicamente molto ben delineata da Amoreno Martellini nel suo documentato libro “Fiori nei cannoni. Nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento” (Donzelli 2006), dove non vi è la benché minima ombra di trame (cruente) contro il suo operato o la sua persona. Qual è invece la tesi “storiografica” di Drago? Nelle loro lotte per il cambiamento della società, i movimenti studenteschi si rifacevano a vecchie ideologie novecentesche violente, e, perciò, fallimentari; diversamente, Capitini proponeva la nonviolenza, e le sue idee potevano avere su di loro una presa sempre maggiore in quanto nessun altro leader aveva la sua autorità morale. Dunque, potendo egli diventare “una voce molto autorevole rispetto all’opinione pubblica…ci poteva essere interesse a farlo scomparire”. Inoltre, Drago ricorda le molte figure di grandi nonviolenti eliminati con la violenza: Martin Luther King, Thomas Merton. Oppure messi da parte attraverso processi di emarginazione o subdoli procedimenti; per questo egli cita Giorgio La Pira e Don Milani. Da qui, l’autore crede di poter dedurre la possibilità della macchinazione suaccennata. La cui realizzazione egli vede in una particolare sua ricostruzione del ricovero in clinica e del trattamento medico-chirurgico ricevuto, attraverso tre passaggi: una operazione allo stomaco, non riuscita; una seconda operazione, non necessaria; l’intervento di un secondo chirurgo che, diverso e diversamente dal primo (noto e molto bravo) nessuno conosce e sparisce dopo aver operato determinando la morte del paziente.

A mio avviso siamo qui in presenza di un chiaro esempio della cosiddetta “teoria del complotto”; per la verità, più che una teoria, un modo di pensare che, per quanto non dotato di particolare dignità e valore interpretativo, ha da qualche tempo una grande diffusione. Letterariamente, il capolavoro che la descrive è “II cimitero di Praga”, di Umberto Eco, in mezzo a tanti altri testi della pubblicistica contemporanea. Per avvalorare la sua tesi, Drago avanza l’ipotesi che il documento principe che potrebbe far luce sulla morte del Nostro, e cioè la cartella clinica del suo ricovero e decesso, debba essere stata, o possa essere, fatta sparire.

E’ stato allora che, riandando con la memoria all’episodio del pomeriggio domenicale in casa Mencaroni di qualche anno fa, ho pensato di avere una circostanza particolarmente fortunata. Infatti, oltre ad aver goduto dell’amicizia del dottor  Solinas richiamato per quell’occasione, godo anche di quella del di lui figlio, anch’egli medico e anzi specialista in gastroenterologia. A chi meglio di lui rivolgermi per cercare la cartella clinica in questione?

L’amico Attilio Solinas, uomo di spicco della politica in Umbria e consigliere regionale, si è messo subito a disposizione, comprendendo l’importanza e la rilevanza etica e culturale della cosa. Con opportuna ricerca d’archivio, la cartella clinica è stata trovata e la presente memoria storica può fruire della sua lettura circostanziata e competente, da parte sia del dottor Solinas sia di un altro clinico, il dottor Fortunato Berardi, che (altro caso fortuito) è un testimone oculare della vicenda, per essere stato all’epoca del ricovero di Capitini assistente del professor Guido Castrini che eseguì l’intervento chirurgico.

Risultanze principali di lettura della cartella clinica

“Dall’esame della copia microfilmata della documentazione clinica relativa al ricovero del Professor Aldo Capitini, svolta in presenza del Professor Fortunato Berardi, all’epoca della degenza assistente chirurgo presso il reparto di Chirurgia diretto dal Professor Guido Castrini, risultano i seguenti dati:

Aldo Capitini viene ricoverato il 19 luglio 1968 per una grave forma di empiema della colecisti, ovvero una infiammazione purulenta del viscere generata da infezione e dalla presenza di calcoli e fistolizzata a livello della cute.  A seguito di alcune indagini diagnostiche preliminari, Capitini viene dimesso temporaneamente l’8 Agosto 1968 per poi rientrare di nuovo in ospedale il 21 Settembre per essere sottoposto ad un complesso intervento chirurgico per rimuovere la cistifellea infiammata con i calcoli. Contemporaneamente al problema della colecisti, Capitini era affetto da una voluminosa ernia trans-diaframmatica che comportava la presenza di visceri intestinali all’interno della cavità toracica con conseguente compressione dei polmoni. Tale problematica è stata anch’essa affrontata e risolta nella medesima operazione chirurgica.

Il Professor Capitini, prima durante e dopo l’intervento è stato sottoposto alle procedure diagnostiche con le metodiche strumentali più aggiornate dell’epoca, anche allo scopo di escludere la presenza di calcoli nelle vie biliari, complicanza non infrequente della litiasi colecistica. E’ stato anche sottoposto ad una visita cardiologica con elettrocardiogramma, che ha messo in evidenza una cardiopatia cronica in fase iniziale.

Il rilievo chirurgico della situazione toracica relativa all’erniazione di visceri addominali evidenziava la coalescenza di alcune anse intestinali erniate con tenaci sinechie intratoraciche.

Il decorso postoperatorio iniziale è risultato nella norma ma si è complicato in fase tardiva con un edema polmonare, legato probabilmente alla relativa carenza di proteine rilevabile nel Professore e secondaria alla sua pratica alimentare di vegetariano. L’edema polmonare, come risulta dalla cartella clinica esaminata, sarebbe stato la causa che ha determinato l’exitus del paziente in data 19 ottobre 1968.

Quindi, concludendo, non si è rilevata alcuna incongruenza né alcuna pratica chirurgica errata nella gestione clinica complessiva del Professor Capitini, che è stato operato da un solo chirurgo nella persona del Professor Castrini”.

Dunque Capitini, ricoverato in clinica durante l’estate, fu sottoposto a un complesso intervento, che ebbe esito positivo; ma le patologie del soggetto così come le sue condizioni generali di debilitazione erano di una gravità tale, da non permettere al paziente di sopravvivere molto a lungo. Del resto lo stesso intellettuale umbro era consapevole che le sue aspettative di vita erano ormai compromesse, ben prima dell’intervento operatorio; lo prova la stesura del testamento spirituale, il famoso scritto “Attraverso due terzi del secolo”, che Capitini, come ricorda il filosofo Guido Calogero che lo pubblicò sulla sua Rivista “La Cultura”, ‹‹aveva preparato per essa prima di affrontare l’operazione a cui non era certo di sopravvivere›› (Id., “Un inedito filosofico di Aldo Capitini”, ivi, n. 4, 1978, p. 337).

Capitini è stato lucido per tutta la durata della degenza e fino alla fine. Su questo abbiamo la testimonianza di Adriana Croci, sua allieva e collaboratrice alla Facoltà di Magistero, resa durante un convegno promosso dall’Auser a Perugia il 28 novembre 2014, che assistette il maestro giorno e notte nell’ultima settimana; e una singolare cartolina postale indirizzata a Walter e Elena Binni, un documento dell’ultimo giorno di vita che reca di pugno dell’autore solo la parola “Carissimi…”, evidentemente interrotto dalla commozione (cfr. Aldo Capitini – Walter Binni, “Lettere 1931-1968”, Carocci 2007, p. 188).

Perugia, 12 giugno 2018

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