Come è morto Aldo Capitini?
Riceviamo e pubblichiamo questo articolo di Tonino Drago.
Certamente non di morte naturale, ma all’ospedale di Perugia il 19 ottobre del 1968, cinquant’anni fa.
La domanda di sopra la posi un quindici anni fa a Lanfranco Mancaroni, forse il principale discepolo di Capitini, una sera che eravamo a cena dopo aver esaminato le tesi di laurea concorrenti per il Premio omonimo (Premio lanciato per due-tre anni). La domanda mi sembrava pertinente perché nessun libro che io conoscevo su Capitini dava particolari sul fatto che è morto sotto operazione chirurgica; di per sé un fatto non molto chiaro, dato l’avanzamento delle tecniche sanitarie a quella data. Avevo anche sentito parlare che si trattava di una operazione allo stomaco: forse cancro? Certo Capitini era ‘malaticcio’, a causa dello sforzo enorme che aveva compiuto per prepararsi da autodidatta all’esame di maturità e poi per studiare all’Università in condizioni di grande povertà. Aveva varie limitazioni (a incominciare dalla miopia) alle quali egli aveva aggiunto volontariamente quella del vegetarianesimo (segno di una volontà di ferro in un corpo fragile).
Lanfranco mi raccontò i particolari della sua degenza in ospedale. Capitini era entrato per una operazione chirurgica quasi banale (l’asportazione della cistifellea, organo di cui si può fare benissimo a meno), ma temuta da molti “per le condizioni generali di salute di Capitini” (come dice Guido Calogero; riportato in A. Capitini, Scritti sulla non violenza, Protagon,1992, pp. 15-16) e come temeva lo stesso Capitini; il quale diede segnali di sentirsi in punto di morte; tanto che aveva scritto una sintetica (e suggestiva) autobiografia del suo impegno non violento: “Attraverso due terzi di secolo” (ibidem,pp. 3-15).
Entrato in ospedale i primi di settembre 1968, questa operazione fu eseguita. Il fisico di Capitini la resse bene; salvo che…. la ferita dell’operazione non si rimarginava. Il fatto si prolungò oltre ogni credibile attesa. La spiegazione che dava il medico era che la ferita non si rimarginava perché Capitini era vegetariano e quindi i tessuti….
Lanfranco era un medico, ma non ebbe (né aveva, anche al tempo del nostro colloquio) argomenti da contrapporgli; nel 1968 il vegetariaesimo veniva visto come una pratica oscura, con conseguenze anche nefaste (Lanza del Vasto, quando cominciò ad esserlo, nel 1936 circa, si guardava ogni mattina in basso per vedere se non gli fosse successo qualcosa ai testicoli). Quando Lanfranco mi riportò questa spiegazione gli dissi con vigore che era una stupidaggine (ero vegetariano e conoscevo vegetariani da trent’anni), ma lui non sapeva bene che pensare.
Il seguito della degenza fu che dopo vari giorni il chirurgo decise di fare una operazione allo stomaco di Capitini. La cosa era del tutto strana rispetto al fatto che lo stomaco di Capitini non aveva avuto problemi fino ad allora. Anche Lanfranco (come Luisa Schippa, l’altra discepola principale di Capitini) giudicava “del tutto inutile” quella operazione. D’altronde, quale poteva essere la logica del chirurgo nel procurare un’ulteriore ferita, e per di più ad un organo interno delicato come lo stomaco, quando egli vedeva che la precedente ferita di Capitini non si rimarginava? Forse il chirurgo voleva capire quali conseguenze aveva l’essere vegetariano di Capitini (e così. fermare l’emorragia…)? Ma allora voleva fare un esperimento? E perché sullo stomaco e non su qualche altro organo della digestione? E perché sperimentare su un corpo già debilitato da un mese di emorragia e da una debolezza generale?
Ma a quel tempo nessuno si oppose alla decisione del chirurgo. Il quale la eseguì il 7 ottobre. L’operazione ebbe dei postumi (non chiaritimi da Lanfranco) che causarono il decesso di Capitini, che avvenne ben dodici giorni dopo. Non si vede come una operazione, sia pure investigativa, su uno stomaco sano possa causare la morte del paziente, se non per sprovvedutezza del medico; oppure per complicazioni sopravvenute, che però allora avrebbero dovute essere dichiarate; oppure… . Nessuna di queste possibili cause di morte fu avanzata pubblicamente; e la morte di Capitini, dopo la sua lunga degenza di un mese e mezzo in ospedale, passò come quasi inevitabile, data la debolezza del suo fisico e l’età (quasi settant’anni,,,).
Io protestai con Lanfranco perché quest’ultima interpretazione mi appariva ingenua. La morte di un paziente sotto una operazione inutile e probabilmente cervellotica, se non malevola, non avrebbe dovuto essere accettata come naturale o quasi. Una cosa del genere si configurava anche come omicidio colposo da parte del chirurgo (inesperto o malizioso che sia stato). E come tale doveva essere denunciato alla magistratura; e comunque la “stranezza” della seconda operazione doveva essere comunicato agli amici che Capitini aveva in tutta Italia e all’opinione pubblica (la sua morte fu commemorata da molti giornali; anche Nenni ne scrisse nel suo diario personale; vedasi G. Zanga. Aldo Capitini, Bresci, Torino, 1988, p. 64).
Un ultimo particolare, dettomi da Lanfranco su mia precisa domanda, mi lasciò ancor più stupefatto. Il chirurgo che operò Capitini non era quello di Perugia (Castrini), , a lui ben noto ma uno sconosciuto che veniva da Roma e che poi non fu più rivisto.
Sollevai subito dei sospetti. Ma perché io sospettavo troppa attenzione negativa su Capitini? In quegli anni l’Italia ribolliva per opera del movimento studentesco (mentre quello operaio stava rimuginando una forte lotta che avvenne poco dopo). In varie Università avvenivano episodi di contestazione tanto incruenta quanto sconcertante i paradigmi politici di quel tempo; c’era una volontà generale di destabilizzare i poteri costituiti, ma con tecniche non violente (ad es., a Napoli nel 1965 gli studenti, dopo varie occupazioni di diverse sedi universitarie, riuscirono finalmente ad occupare la roccaforte degli studenti fascisti, Architettura, posta molto vicino alla Questura; il giorno dopo la Polizia sgombrò e occupò a sua volta per impedire ulteriori occupazioni di quella sede; ma il giorno dopo ancora, una grande manifestazione del movimento studentesco fu capace di far uscire a furor di popolo la Polizia). Il movimento studentesco era egemonizzato da vari gruppi politic della sinistra anche estrema, molto agguerriti; ma anche i non violenti (mai fin allora costituitisi in Italia come gruppi specifici) si stavano organizzando (a Napoli molti del nostro gruppo di non violenti avevano occupato la Sapienza già nel novembre 1964 ed erano anche diventati dei leaders del movimento degli studenti; a Roma Fabrizio Fabbrini e Gianni Mattioli stavano lanciando un manifesto per riunire gli studenti non violenti su un programma comune…). In questo turbinio Capitini era la figura rappresentativa della non violenza italiana, molto autorevole per la sua efficace lotta contro il Fascismo e per gli impegni sociali nel suo tempo (fondazione della società vegetariana, della associazione per la scuola Pubblica ADESSPI, la marcia Perugia Assisi del 1961, ecc.) ed aveva amici influenti (Bobbio, Calogero, ecc.). Già nel 1964 aveva fondato, con Pietro Pinna, il ragguardevole mensile Azione Nonviolenta. Nel gennaio dello stesso anno pensò che fosse giunto il momento di quella rivoluzione politica dal basso, mediante una disobbedienza civile generale, che egli aveva auspicato sin dai tempi del Fascismo; per lui la lotta studentesca poteva essere anche la nascita di quel movimento non-partito che aveva cercato di costituire nell’agosto 1943 alla riunione di Firenze degli antifascisti che prevedevano un imminente cambiamento politico; ma che gli dette una grande delusione, perché il suo documento programmatico per un movimento non-partito (“L’unità del mondo e le sue giustificazioni interiori”, in A. Capitini: Nuova socialità e riforma religiosa, Einaudi, Torino 1950, pp. 43-69) fu poco apprezzato dagli amici (Calogero, ecc.; i quali poi costituirono il Partito d’Azione). Perciò, nel 1964 egli lanciò, praticamente da solo, un nuovo mensile, dal titolo molto significativo Il potere è di tutti; era musica per le orecchie degli studenti in lotta contro l’autoritarismo. Anche il formato era innovativo: un foglione A3, tipo volantone, con titoli e articoli facilmente leggibili, per la gente, diretto. Con questo giornale già nel novembre 1964 egli sollecitò e promosse organismi rappresentativi nelle scuole superiori di Perugia e in Toscana. Il numero di gennaio-febbraio 1966 era dedicato ad un programma di lotta dei non violenti nelle Università. L’ultimo numero del 1967 (n. 9-12 ) e quelli del 1968 (nn.1-2, 3-5, 9-12) erano dedicati tutti alla lotta del Movimento studentesco, per indirizzarlo ancor più verso la non violenza. Certo, le sue attese erano grandi; però, anche il Movimento studentesco poteva ben averlo come uno dei leaders, dato che non aveva nessuno che avesse una simile autorità morale (tutti i leaders del Movimento erano giovani e ideologicamente fissati in loro teorie, spesso vecchie di vari decenni). Quindi Capitini poteva diventare una voce molto autorevole rispetto all’opinione pubblica, scossa da tanti intensi avvenimenti. Ci poteva essere interesse a farlo scomparire prematuramente.
Se io lanciavo sospetti sulla non naturalezza della sua morte era anche perché avevo un motivo personale per pensare azioni malevole contro i non violenti. Nel novembre 1965, la stampa aveva riportato che il Concilio stava per chiedere ad ogni Stato di accettare l’obiezione di coscienza al militare; allora organizzai, assieme al gruppo dei non violenti napoletani, una manifestazione a Gaeta per chiedere la liberazione degli obiettori di coscienza là incarcerati. I primi di dicembre in sette facemmo un digiuno collettivo di tre giorni e distribuimmo una decina di migliaia di volantini in una Gaeta che era il feudo ‘bulgaro’ di Andreotti e della DC (la quale aveva la maggioranza assoluta in Comune, ma si poteva permettere di litigare al suo interno fino a subire il commissariamento, senza timore di perdere le elezioni). Gli abitanti di Gaeta neanche sapevano dell’esistenza degli obiettori di coscienza nella fortezza costruita sulla collina dominante la città. Purtroppo, proprio in quei giorni il Concilio cambiò la dichiarazione, chiedendo solamente clemenza per gli obiettori; ma la manifestazione riuscì molto bene, perché influenzò molto la popolazione di Gaeta. Però i primi di febbraio 1966 mi trovai trasportato in Questura, dove già c’erano gli amici del gruppo non violento, per un interrogatorio misterioso, che non ci dichiarava di che ci accusavano. Il Questore ci disse (ma alla fine, ‘sbottonandosi’) che da Roma avevano chiesto di sottoporci ad interrogatorio perché a Gaeta avevano messo una bomba ad una porta laterale del carcere, per protesta contro la prigionia degli obiettori. Noi avevamo difficoltà a dare prove sicure che due notti prima dell’interrogatorio eravamo a casa e non a Gaeta. Ma siccome nessuno di noi aveva una automobile (salvo una piccola 500), il problema era se un amico ci avesse trasportato con la sua Fulvia Lancia o no. Ma presto si venne a sapere che l’accusa era chiaramente pretestuosa: il volantino di accompagnamento della bomba era firmato: “Noi giovani anarchici…”; e noi anarchici non eravamo, né ci proclamavamo tali. Era chiaro che da Roma volevano accusarci perché avevamo avuto un successo politico a Gaeta (e a Napoli avevamo una capacità di impegno politico di un certo rilievo in molti quartieri di case popolari e tra i numerosi baraccati, indipendentemente dal PCI, che “responsabilmente” collaborava con la Polizia) e loro non sapevano come controllarci (infatti credo che per la Polizia sia stato un grande problema introdurre degli infiltrati tra i non violenti, perché i poliziotti di allora non riuscivano neanche ad immaginare la non violenza, che era una novità totale per il loro pensiero). Per qualche anno restammo sotto la minaccia di una grave denuncia; ma poi passò, perché gli eventi del cosiddetto ‘68 divennero molto più gravi.
Richiamo brevemente alla memoria il quadro internazionale delle lotte del tempo a partire da quelle in Italia. Qui, come ci si può ben immaginare, c’erano già le lotte operaie; in più la gente della Val del Belice in Sicilia, che il 15 1968 gennaio aveva subito un disastroso terremoto, iniziò una lunga lotta di importanza nazionale (guidata dal non violento Lorenzo Barbera, dato che Danilo Dolci si volle ritirare in attività solo educative). Il 1° marzo a Roma avvenne la battaglia degli studenti con la polizia a Valle Giulia. Un mese prima a febbraio c’era stata l’offensiva del Tet, capace di far entrare i vietcong nella ambasciata USA di Saigon. L’11 aprile Rudi Dutschke, leader degli studenti tedeschi, fu sparato e rimase paralizzato. Dal 3 maggio gli studenti francesi, assieme agli operai, misero a soqquadro Parigi e tutto il Paese per più di un mese, senza l’obiettivo di conquistare il potere. (A causa della sospensione dei trasporti pubblici, la comunità dell’Arca dovette sospendere l’organizzazione di un grande evento: un digiuno collettivo di un gruppo di vescovi francesi contro la guerra nel Vietnam; A. de Mareuil: Lanza del Vasto. Sa vie, son oeuvre, son message, Dangles, Paris, 1998, pp. 290 e 302). In agosto la Cecoslovacchia, che aveva lanciato “un socialismo dal volto umano”, venne invasa dalle truppe del Patto di Varsavia; ma spontaneamente la gente cecoslovacca comunista tenne in scacco le truppe di occupazione rispondendo con grande creatività di tecniche non violente. Il tutto mentre Joan Baez, Bob Dylan e Gianni Morandi (con “C’era un ragazzo come me”) cantavano canzoni indimenticabili contro la guerra del Vietnam, alla quale il pugile campione del mondo dei pesi massimi, Cassius Clay (chiamatosi Mohamed Alì) si era rifiutato di andare nel 1967, al costo deliberato di andare in prigione e perdere il titolo di campione mondiale. La non violenza stava rubando la scena alla politica dei Due Blocchi, ponendosi come forza politica incontrollabile per le sue nuove tecniche di lotta e per la sua capacità di veicolare idee (anche politiche) affascinanti..
Non a caso allora il 1968 segna la scomparsa violenta di persone del calibro di Martin Luther King (assassinato il 4 aprile a fucilate in pieno giorno; stava rivolgendo il suo grande movimento di lotta (per i diritti civili dei neri all’interno degli USA), contro la guerra degli USA in Viet Nam; ne sarebbe nata una mai vista contrapposizione politica allo Stato federale), Thomas Merton (monaco trappista, molto influente contro la guerra in Viet Nam; a 53 anni; era andato a Bangkok per il primo congresso mondiale dei monaci (inclusi i buddisti) che si impegnavano per la pace; secondo la versione ufficiale, il 10 dicembre fu folgorato da una scarica elettrica di un phon difettoso; ma non fu fatta la autopsia del corpo, che aveva contusioni; per altri particolari inquietanti e bibliografia v. Merton Thomas in Wikipedia.edu http://en.wikipedia.org/wiki/Thomas_Merton#Death, par. 5.1 e il recentissimo H. Turley e D. Martin: The Martyrdom of Thomas Merton: An Investigation, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2018); Robert Kennedy (Ministro della giustizia, fratello di John, possibile nuovo Presidente degli USA,fu assassinato il 5 giugno a colpi di pistola in mezzo ai suoi sostenitori). A che pro tutto questo? Togliendo di mezzo i leaders di lotte democratiche e non violente alle quali il sistema di potere non sapeva bene che rispondere, il conflitto politico veniva polarizzato, facendo crescere la componente violenta (Malcom X ad es.); così tornava in gioco la polizia, il principale strumento dello Stato per combattere i gruppi politici destabilizzanti.
Alla scomparsa delle precedenti figure importantissime per il mondo non violento e pacifista, occorre aggiungere, per l’Italia, altre due scomparse, avvenute per cause varie poco tempo prima. Nel 1966 La Pira era stato eliminato dalla vita politica attiva da una intervista improvvidamente concessa alla giornalista fascista Gianna Preda de Il Borghese; e nel 1967 Don Milani era morto di leucemia.
Ma anche in Italia sono avvenuti eventi malevoli. Innanzitutto nel 1969 la strage di Piazza Fontana e poco dopo la morte ‘accidentale’ di Pinelli durante un interrogatorio della Polizia (vedasi ad es. la voce di Wikipedia, che è spostata sulla accusa di omicidio, con indubbi elementi probanti: http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Pinelli). Questo evento è importante per notare una attenzione negativa verso i non violenti; perché Pinelli venne passato sistematicamente come anarchico; e lui effettivamente faceva parte del gruppo anarchico di Milano, ma perché là non esisteva un gruppo di non violenti; lui era infatti un non violento (e poeta), come dichiarò, su una lettera pubblicata da molti giornali, Giuseppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico che lo conosceva bene; e come anche dichiarava la moglie Licia.
Poi ci sono state altre azioni contro i non violenti di varie città. Nel febbraio 1970 a Napoli gli occupanti di 900 case popolari (da anni lasciate vuote per giochi clientelari del sistema politico) per poterci restare legalmente manifestarono davanti alla prefettura, con il sostegno del gruppo dei non violenti, ma non, per la rpima volta, del PCI. La polizia caricò, cercando “uno con la barba” (come portavo io, che però per caso quel giorno non ero lì). Arrestorono tutti quelli con la barba, compreso il diciannovenne Geppino Fiorenza (poi direttore della Mensa Bambini Porletari) e lo tennero a Poggioreale una settimana sotto accuse pesantissime; poi dimostratesi sballate. Nel 1971 Domenico Regis organizzò una manifestazione non violenta alla quale la polizia rispose con l’arresto di Nanni Salio e di Beppe Marasso, messi in carcere per una settimana con l’accusa di avere armi improprie. A Pisa uno studente normalista, di fronte ai frequenti scontri tra polizia e studenti volle costruire un rapporto di dialogo; nella manifestazione in cui egli si presentò ai poliziotti con questa proposta fu incarcerato per vari giorni con accuse gravissime. Per indicare di che cosa erano capaci le “forze dell’ordine” bisogna ricordare che nel 1974 il giudice Sossi, rapito dalle BR e poi liberato, dichiarò all’Espresso: “Questo gruppo è molto forte perché finora non siamo riusciti ad infiltrarci nessuno.” Così ha messo in piazza una pratica tenebrosa con la quale, al di fuori di ogni legge democratica, operavano la polizia e la magistratura nei confronti dei gruppi che potevano dare problemi. Ma, ancora più tenebroso è il fatto che si scoperse vari anni dopo: lui non sapeva che in quel periodo c’erano ben tre infiltrati nelle BR, uno dei quali, Francesco Marra, era nel gruppo che l’aveva sequestrato e che nella votazione per decidere se ucciderlo, votò con quelli del sì (per fortuna restò in minoranza). (http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgenzia/1998/05/04/Cronaca/TERRORISMO-NELLE-BR-NEL-74-INFILTRATO-DEL-VIMINALE_161000.phpi).
Tornando al mio colloquio con Lanfranco Mencaroni, i miei sospetti non lo impressionarono. Mi ricordo che me li lasciò come mie preoccupazioni, benché lui non sapesse rispondere alle domande precise sui particolari della morte di Capitini. Da parte mia, restai interdetto per il fatto che Lanfranco non si preoccupasse dei possibili sospetti sul caso di così grande importanza per i non violenti e per la cultura italiana in generale.
Essendo io un seguace di Capitini, ma non tale da potermi contrapporre a persone ben più qualificate di me (Mencaroni, Pietro Pinna, Luisa Schippa, ecc.) non osai insistere, anche perché senza il loro appoggio non avrei potuto andare lontano. Tanto più che già nella vita politica quotidiana dei non violenti troppe volte ero costretto a fare il ‘piantagrane’ che pone questioni che tutti gli altri volevano rifiutare per accordi, secondo me di semplice aggiustamento reciproco. Cosicché mi sono tenuto dentro questo pensiero doloroso.
Ma ora, a cinquant’anni dalla morte di Capitini, credo che sia possibile almeno sollevare il problema che la morte di Capitini non ebbe molto di “naturale”. non intendono avanzare accuse di nessun genere, ma solo sollecitare approfondimenti su una vicenda che, a prima vista, non appare del tutto limpida; perciò invito chiunque avesse informazioni o documenti in proposito a renderli pubblici o anche solo a dare suggerimenti. Perché, se quella morta non fu naturale, allora noi noi non violenti dovremmo tirarne le debite conseguenze per la nostra coscienza storica delle nostre azioni politiche (ancora tutta da costruire); e dovremmo onorare con un ulteriore tributo a quell’Aldo Capitini a cui Pietro Nenni tributava due grandi meriti: “… era andato controcorrente all’epoca del fascismo e di nuovo all’epoca post-fascista. Troppo per una sola vita umana, ma bello.”
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[…] della nonviolenza e del pacifismo italiano. Drago espone e sostiene questa tesi anche in un articolo sul sito del Centro Studi Sereno Regis di Torino pubblicata in data 6 giugno […]
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