Askatasuna e la città, doppio laboratorio

Alessandra Algostino

TORINO. Torino è un «laboratorio di repressione», come conferma l’attivismo della procura. Ma è anche il luogo dove istituzione e centro sociale provano a ripensare il bene comune

Torino laboratorio di repressione è un frame ricorrente e una realtà che chi protesta in città vive sulla pelle. La scelta di Askatasuna e del Comune di intraprendere un percorso di dialogo e sperimentare forme nuove, quali il bene comune e la co-progettazione, lo infrange.

Lasciando intravvedere un’altra città possibile. E specifico: città, perché la delibera sul bene comune è da leggere non come risoluzione di un problema di ordine pubblico, ma come idea di un territorio vivo, dove la conflittualità non è neutralizzata e la partecipazione valorizzata. Un altro modello di democrazia. Utopia? La sterilizzazione di una esperienza di alternativa radicale?

Intendiamoci. Non sarà un percorso facile, si regge su un sottile filo di equilibrio. Dalla parte di Askatasuna, c’è il mantenimento di una radicalità forte nel contesto di una cornice condivisa con il Comune; da parte delle istituzioni, c’è il confronto con un progetto politico e una protesta che urta e inquieta. Ma questa è la complessità di una democrazia conflittuale, è l’indicatore di un suo buono stato di salute. È un segnale controcorrente rispetto all’immagine di una democrazia che non tollera gli scioperi, che reprime l’eco-attivismo, che espelle il pensiero divergente, così come di una democrazia atrofizzata.

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È una sperimentazione «antagonista», per riprendere provocatoriamente un’etichetta utilizzata in senso squalificante e generalizzante, rispetto al modello imperante: repressivo, omologante e passivizzante.

Fra i connotati più evidenti di Torino «laboratorio di repressione», si segnala un attivismo giudiziario attento a tutte le possibili violazioni di legge, civili, penali, amministrative, sperimentato sugli appartenenti al movimento no Tav ed applicato a chi agisce il conflitto sociale. Colpisce leggere sul sito della Procura che il pool di magistrati che abitualmente si occupa dei reati inerenti la protesta è rubricato sotto la voce «Terrorismo ed eversione dell’ordine democratico». Il dissenso e la protesta, lungi dall’essere ascrivibili al terrorismo (i tentativi in merito sono stati cassati dalla stessa magistratura) non sono eversivi dell’ordine democratico ma elemento imprescindibile della democrazia. Il concetto di un ordine presupposto è lontano da un orizzonte che implica pluralismo e discussione.

Certo, il compimento di reati va perseguito, ma la responsabilità penale è personale. Ragionevolezza e proporzionalità devono essere il parametro per determinare fattispecie incriminatrici, misure cautelari e pene, come, a maggior ragione, le misure di prevenzione adottate dal Questore, retaggi fascisti, di assai (e più che) dubbia legittimità costituzionale. E poi c’è il comportamento violento delle forze dell’ordine nelle proteste. Penso al primo maggio, dove la volontà di impedire l’ingresso nella piazza allo spezzone sociale produce scontri ormai «classici» (solo nel 2023 evitati, grazie a un intenso dialogo preventivo), ai manganelli sugli studenti antifascisti all’università, ma il discorso può estendersi agli sgomberi di edifici occupati o alla resistenza agli sfratti.

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Torino è un laboratorio, ma la tendenza è globale: reprimere, dissuadere, intimidire la protesta. È una parte del mondo che di fronte a diseguaglianze insostenibili, agli effetti di una competitività sempre più violenta, si blinda.

La Torino che guarda oltre la stigmatizzazione dei centri sociali come covo di illegalità e riconosce valore all’autorganizzazione di attività sociali e culturali, alla partecipazione dal basso, indica un altro percorso possibile, che – per inciso – è nel segno della Costituzione. È il tentativo di cogliere le potenzialità di una categoria, il «bene comune», come modo per ripensare il bene pubblico come «dei cittadini», senza anestetizzare la divergenza, anche radicale, che assicura la dinamicità plurale, la vitalità, la possibilità di trasformazione, della democrazia.
Starà alle forze politiche in campo far sì che questo sia un modo diverso per mantenere «la forza della critica totale» (Pasolini) senza scivolare in una «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà» (Marcuse).

È un piccolo passo, la delibera e non lo sgombero, che rinvia al grande scontro sul modo di intendere la democrazia: democrazia come strumento di controllo e gestione del potere o democrazia contro il potere, nel segno di una effettiva emancipazione sociale e politica?

Fonte: il manifesto, 4 febbraio 2024


 

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