Moralismo e scientismo

Moralismo e scientismo o Barbie e Oppenheimer. I Sacerdoti del Capitalismo (parte 3)

Mirko Vercelli

«Non pensare che quando i cavalli di battaglia della Santa Inquisizione, del Santo Ufficio, sono stati eliminati, si possa entrare nelle celeste Gerusalemme cavalcando il mite asino dell’evoluzione tra lo sventolare delle palme. » (Hans Urs von Balthasar)

Se non abbiamo alcuna fantasia in cui scappare, creiamo una fantasia che scappa da noi. Cospirazionismi varie abitano il nostro quotidiano e uno dei loro effetti collaterali, che sia il terrore rosso o il complotto patriarcale, è quello di dirottare il malcontento e indirizzare l’energia che potrebbe essere impiegata in lotte reali e nella trasformazione sociale, per abbaiare alla luna o, peggio ancora, per alimentare progetti reazionari. Per questo, come dice il sottotitolo del libro di Wu Ming 1 citato nella sezione precedente, «le fantasie di complotto difendono il sistema». Ne deriva che una fantasia reale (permettetemi il gioco di parole), terrorizza il sistema.

Negli ultimi anni le fantasie del complotto sembrano avanzare a briglia sciolta in molti ambiti, semplicemente perché questi spazi erano rimasti vuoti.

Al contrario, le compagne e i compagni che si uniscono nelle piazze non partono da dogmi e non cercano di risolvere tutto in 100 caratteri su Twitter. Cominciano a fare lavoro politico all’interno delle contingenze, abbracciando la contraddizione anziché evitarla. Nel rapporto con l’altro che si forma una piena idea del sé. È la morale di una delle scene finali di Questo mondo non mi renderà cattivo di Zerocalcare, quando tutti si ritrovano nella palestra popolare per prepararsi agli scontri: i giudizi, le diffidenze crollano con la relazione. Relazione che può essere pacifica o meno, come succede poco dopo per strada con Cesare.

L’obiettivo di chi vuole fare militanza seria è proprio partire dal “biconcettualismo” delle persone che si uniscono alle nostre lotte. C’è qualcosa che ci unisce  con quelli che releghiamo alle destre, come l’idea che il sistema sia inaccettabile, che le narrazioni predominanti siano ingannevoli, che i costi del capitalismo siano sopportati dai più deboli e via dicendo. Tuttavia, ci sono anche elementi che ci separano, come le spiegazioni pseudo-scientifiche che si creano, le conclusioni reazionarie che ne derivano, e i capri espiatori o personaggi immaginari sui quali si concentra l’attenzione. A differenza di quello che predicano alcuni attivisti dai criminosi ottimismi, che alla stregua del gioco d’azzardo, andrebbe regolamentato, dobbiamo arrivare a tutti.

Nessuna sorpresa che fosse proprio la strategia dichiarata di Berlusconi, “rivolgersi a chi sta all’ultimo banco, distratto”. Dobbiamo trovare il modo di comunicare tra le loro visioni e le nostre, concentrarci sull’intersezione tra i loro pensieri e i nostri, sulla “metà” del loro modo di pensare che condividiamo. Tutto il resto parte da qui. Se si volesse cercare una quadratura del cerchio in questo contesto dovremmo riconsiderare le categorie manichee di vero e falso e sorpassare il teorema di Thomas. Chi mi legge sa che amo trovare metafore nelle arti marziali; è simile al tàijíquán: le sequenze di movimenti lunghe e complesse possono essere eseguite solo se si ha una postura iniziale corretta.

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La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper ha esercitato una notevole influenza sull’intero pensiero liberale occidentale e lo fa ancora adesso con conseguenze sottese e insidiose che non abbiamo mai davvero affrontato. L’obiettivo ambizioso di Popper era smontare filosoficamente tutti i detrattori della società liberale, interpretandoli come tasselli di un unico e coerente filo di pensiero, un idealismo con sfumature totalitarie che affonda le radici nel pensiero di filosofi a partire da Platone ed arrivando fino a Marx.

“Al fine di chiarire questo punto, illustrerò brevemente una teoria che è largamente condivisa, ma che presuppone quello che considero precisamente il contrario del vero fine delle scienze sociali: quella che chiamo «la teoria cospiratoria della società». Essa consiste nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che dev’essere prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo.”

“Questa concezione dei fini delle scienze sociali deriva, naturalmente, dall’erronea teoria che, qualunque cosa avvenga nella società – specialmente avvenimenti come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, che la gente di solito detesta – è il risultato di diretti interventi di alcuni individui e gruppi potenti.”

Ne deriviamo dunque come per Popper i complottisti non siano altro che dei volgari marxisti che attraverso il materialismo dialettico vorrebbero svelare le trame sottese e il non detto strutturale che invece i sacerdoti della morale e dello scientismo, Barbie e Oppenheimer, vorrebbero come naturale e spontanea evoluzione umana, il liberismo capitalista.

Popper compie un atto di mascheramento essenziale che fa proseliti ancora oggi: partendo da una serie di denunce di complotti – alcune veritiere, altre false, alcune plausibili e altre ancora ridicole – egli deduce l’esistenza di una particolare mentalità, una specie di chiave di lettura, che si estenderebbe su tutte queste denunce. Questa mentalità è intrinseca: un difetto nella ragione del soggetto che le emette. Pertanto, non è più una questione di valutare separatamente le singole denunce, bensì di affrontare una supposta teoria che afferma che “qualsiasi accadimento nella società […] è il risultato di interventi diretti da parte di individui e gruppi potenti“.

“Gli dèi sono stati abbandonati. Ma il loro posto è occupato da uomini o gruppi potenti – sinistri gruppi di pressione la cui perversità è responsabile di tutti i mali di cui soffriamo – come i famosi saggi di Sion, o i monopolisti, o i capitalisti, o gli imperialisti.”

L’interpretazione della mentalità legata alle teorie del complotto segue una traiettoria che non è certo casuale, ma richiama chiaramente l’interpretazione fornita dal positivismo riguardo al pensiero religioso, una sua versione secolarizzata: gli individui sono semplicemente impauriti, ignoranti, assetati di consolazioni e spiegazioni e quindi inventano l’idea di Dio. La stessa lettura da cui ci metteva in guardia Bakunin nella prima parte di questo articolo: quando Dio muore, entrano in scena gli Illuminati.

Questo racconto ha avuto un’influenza così pervasiva da riflettersi in ogni trattato che affronta il “dilemma dei teorici del complotto“, ma emerge altresì nei nostri discorsi. Come coraggiosamente affermato da Alessandro Lolli, il complottismo, quindi, semplicemente, non esiste: è una categoria ideologica di propaganda inventata in un determinato periodo storico per screditare il materialismo. Ironia della sorte, chi conduce questa caccia alle streghe contro gli eretici, lo fa con la lena ecclesiastica di protettore della verità divina. Come diceva il comico Francesco De Carlo:

“[…] a 20 anni volevo cambiare il mondo, oggi temo di passare per complottista! Ma non sarà che il complottismo stesso sia un complotto?”

Sta piovendo, ma non credo che stia piovendo

Per la sinistra, coloro che aderiscono alle teorie del complotto sono, nel migliore dei casi, “compagni che sbagliano” e che, invece di considerare il Capitale come una forza impersonale e neutra, attribuiscono le loro preoccupazioni a individui malvagi. In questo modo, personalizzano il conflitto sociale invece di analizzarlo attraverso il prisma del materialismo dialettico e della lotta di classe.  Da questa prospettiva, risulta plausibile concludere che qualsiasi teoria che individua specifici nomi e cognomi può essere considerata complottista. I limiti tra il rinunciare al cambiamento strutturale per la creazione di un Grande Altro e il fare i nomi degli oppressori che lottano con ogni forza per mantenere vivo l’attuale sistema, è sicuramente labile.

Il posizionamento dell’altro come “complottista” (o fascista, o analfabeta funzionale) è interessante perché dimostra con quanta facilità possiamo squalificare tesi e ipotesi che successivamente vengono validate da istituzioni e media. Come succede dai tempi della Strage di Bologna, Ustica, Italicus, Piazza Fontana o di un Pinelli qualsiasi: l’incubo bagnato di ogni fact-checker che parte dall’idea che qualsiasi versione alternativa alla verità istituzionale sia roba da psichiatria. Eppure queste sono realtà giudiziarie e storiche che non hanno ancora spazio nei discorsi istituzionali e nei libri di testo. Che sono nate proprio perché qualcuno ha unito “tra loro i puntini”: il peccato naturale che si imputa al complottista. Ma non bisogna farsi fregare dalla verità perché è liquida e tutto ciò che è liquido, prima o poi evapora.

L’atteggiamento dell’anticomplottista, del brigatista della logica, si rivela così come una posizione etica che decide prontamente da quale parte schierarsi; ancor prima di cercare informazioni si precipita in prima fila a difendere il vero o, meglio, il potere. “Di’ la verità” – gridano sempre gli inquisitori. Pretendono poi l’attestato di combattenti per la verità.” diceva Stanisław Jerzy Lec. Che sia una verità morale o una verità scientista, poco importa. Farle combaciare in una naturalizzazione biologizzante è l’imperativo per rifuggire le critiche ideologiche.

Come notato da Alessandro Lolli in un interessante passaggio per Not:

“chiunque frequenti piazze e bar sa benissimo che non c’è niente di strano nell’esprimere sospetti sull’11 settembre; mentre nei luoghi del ceto medio riflessivo come giornali, università, e circoli culturali di varia natura, è letteralmente da pazzi avanzare dubbi sulle versioni ufficiali fornite dal governo USA. La guerra del debunking assume insomma, suo malgrado, i contorni della lotta di classe: come Pasolini, la working class «sa ma non ha le prove» e la borghesia colta fa da pompiere spegnendo la stessa legittimità di fare domande, e scavando un solco sempre più profondo tra le fazioni. Da una parte quindi, nei ceti popolari la sfiducia nei confronti dei governanti prende la forma – spesso allucinatoria, a volte terribilmente vera – del complottismo. Dall’altra, il disprezzo «dall’alto» per le interpretazioni popolari viene ribadito anche quando queste interpretazioni sono sostanzialmente vere.”

Niente a che vedere con la semplificazione per persone “cognitivamente limitate” di cui parlano certi intellettuali. Oltre gli appiattimenti e le distorsioni, l’immaginario delle cospirazioni ha tentato anche – nelle sue versioni più raffinate – di narrare e ritrarre una realtà intrinsecamente sfuggente. In sostanza, è invece il debunker che ti offre una spiegazione dicendoti che “le cose sono esattamente come te le hanno descritte, punto“.

Moralismo e scientismo

Jean Tatlock | Photo by unknown, Fair use, Link

In questo Oppenheimer fa un lavoro intelligente: Jean Tatlock, psichiatra e grande amore dello scienziato, perse la vita a soli 29 anni, affogando nella vasca del suo bagno, in quello che viene dichiarato ufficialmente “suicidio”. La Tatlock era membro del CPUSA e scrittrice di punta del Western Worker; sotto sorveglianza speciale da parte dell’FBI e costantemente intercettata per anni. Una teoria di complotto, abbracciata dal film, vorrebbe che sia stata uccisa proprio dall’intelligence americana per l’influenza che stava avendo sul progetto Manhattan.

Questo tipo di congettura sarebbe difficile da descrivere senza mettere  apertamente in discussione la morte di Jean, ma Nolan usa la paranoia in soggettiva di Oppenheimer per mostrarci il dubbio senza renderlo ovvio. Molti la trovano una caduta di stile, una strizzata d’occhio al peggior complottismo che rovina il realismo del film. Non importa che negli stessi anni negli USA la CIA e l’FBI portassero avanti progetti come MKULTRA, COINTELPRO e Family Jewels. Un complotto, quando si perdono le prove (o le si dimentica), resta una teoria di complotto. E quello che fanno i sacerdoti del capitalismo è chiedere le fonti senza averle loro o, peggio, nascondendole.

Questi e altri casi dovrebbero farci cogliere l’idea che delineare le caratteristiche di una “teoria del complotto” (come ad esempio pochi individui che tramano in segreto, il governo che si danneggia da solo, ecc.) si rivela insignificante quando confrontato con l’utilizzo effettivo di questa categoria, il quale risponde a scopi teorici e politici differenti. Screditare l’approccio ecologico alla corruzione sottesa, rispondendo con un semplice “non è così, è il contrario è basta, lo dicono gli esperti/la scienza”.

Ma non basta cambiare gli autori del complotto per portare avanti una buona pedagogia degli “ultimi”.  Certo, come ha osservato anche Clifford, la convinzione di un uomo non è sempre una questione privata, che riguarda solo lui. E quindi continuiamo a difendere i paladini del debunking, i fact-checkers del giusto, arrivando a introiettare in noi queste dinamiche. Quante persone a qualsiasi affermazione dell’interlocutore, per quanto scontata e assiomatica, arrivano a rispondere “fonti?”. Disclaimer superflui e spesso comici si sono susseguiti sui social per ogni notizia dai tempi del COVID, con l’idea di combattere le fake news, creando di fatto una mania paranoica e persecutoria degna della DDR;  in rete ha trovato un suo specifico nome, il deboonker.

Le critiche che ricevono i debunker, i divulgatori e i «blastatori» di professione, come Burioni o Mentana, troppo spesso si focalizzano su questo deficit di cortesia che polarizzerebbe ancora di più il complottista anziché aiutarlo a redimersi. Tuttavia, questo aspetto, che sia vero o meno, lascia il tempo che trova. Il problema si configura come un autentico enigma filosofico, che trascende l’ambito della comunicazione. Già.

Un processo che affonda le sue radici nell’imposizione manichea di una dicotomia tra teoria del complotto e rivelazione, nell’ardua ricerca per stabilire un regime di verità scientifica: da una parte il falso, dall’altra il vero. Ma una volta che questo meccanismo viene applicato alla sfera politica, è in grado di trattare in modo simile qualsiasi tipo di convinzione (compresa la scelta politica delle riforme ecologiche o i discorsi sull’identità e la cultura) coinvolgendola nel suo incontestabile regime di verità perorato da tantissimi eroi della sesta giornata.

Convergenze troppo parallele

Dovrebbe essere chiaro ai compagni, ma forse arriverà in ritardo di qualche decennio, che la nostra Visione Globale, proprio come la loro, è altrettanto “congetturalista“. In altre parole, in accordo con il paradigma epistemico che sta alla base della teoria della “teoria cospiratoria della società“, non vi è una notevole differenza tra il pensiero marxista e quello di un qualsiasi eretico.

Per essere ancora più chiari: il “marxismo” si rivela ancor più astratto, sfuggente e difficile da dimostrare rispetto a molte affermazioni classificate come “teorie del complotto“. Chi possiede una prospettiva più materialista, chi si adira contro il Gruppo Bilderberg e il World Economic Forum – istituzioni reali, documentate, con dichiarate ambizioni e membri estremamente influenti – oppure chi cerca di spiegare ogni singolo problema sociale attraverso la lente dell’analisi dei rapporti  di produzione su scala globale, fenomeni presenti ovunque eppure allo stesso tempo evanescenti, caratterizzati da tendenze e contro-tendenze che tracciano le loro radici nella successione dei vari modelli produttivi, dall’età della pietra sino alla rivoluzione industriale?

I sostenitori del marxismo non comprendono l’impatto di ciò che stanno proponendo al sostenitore delle teorie del complotto, che individua con nome e cognome alti papaveri e carneadi che agiscono al di fuori dei meccanismi democratici istituzionali. Dobbiamo costruire una fantasia nella quale arrivare, non una fantasia in perenne fuga da noi.

Siamo sempre stati dotati di un vasto dizionario per categorizzare le dichiarazioni fatte dagli individui, un vocabolario che il concetto stesso di complottismo ha impoverito. Li conosciamo tutti questi termini: ipotesi, teorie, incertezze, ilazioni. Ma possiamo anche includere quelli dall’accezione negativa: dicerie, leggende urbane, miti, voci. Come ancora nota Lolli, la distinzione tra una leggenda e un “complotto” sta nel fatto che non esiste un “leggendista“.

Non si può individuare un attributo antropologico che sovrintenda alla creazione di tutte le leggende e che possa rischiare di influenzare l’intera umanità. Un effetto positivo, le narrazioni complottistiche, lo conservano di sicuro. La divisione tra il “Noi” e il “Loro”. Noi che critichiamo il sistema, loro che lo difendono a costo della vita, la nostra. Tertium non datur. Fedeli a una linea che deraglia ai margini per chi rifiuta la logica binaria. Le nostre lotte, le nostre fantasie di un mondo migliore sono troppo simili al Malleus Maleficarum piuttosto che alla Bibbia. L’eliminazione dell’eretico è il nostro sogno (erotico) che il capitalismo trattiene come fulgido esempio di democrazia.

Quando Ruth Handler, nel finale di Barbie, dice che “essere un umano può essere piuttosto spiacevole” e che “gli umani inventano cose come il patriarcato e Barbie per affrontare quella parte spiacevole” quello che non viene spiegato è quale sia questa parte spiacevole. Le condizioni materiali create dal capitalismo? In tal caso, cambierebbe l’ordine delle cose. La parte spiacevole ha creato Barbie e il patriarcato per far si che gli esseri umani (leggasi, i proletari, ndr) continuassero a viverci.

Margot Robbie appare incredula, “sei la mia creatrice, non puoi controllarmi?”. La fondatrice di Mattel le risponde di no, in chiusura ad un film prodotto dalla Mattel Films su una proprietà intellettuale Mattel che inaugura il Mattel Cinematic Universe di cui il New Yorker ha reso noti  almeno 45 film futuri basati sui giocattoli Mattel. Per la cronaca, Ruth Handler, quella vera, è morta vent’anni fa e non credo avrebbe scherzato così facilmente sulla frode e il falso il bilancio della sua azienda come fa nel film.

Ma Barbie fugge nella realtà, oltre l’illusione, perché la fantasia che ci siamo creati è patetica e deprimente quanto la realtà. “Barbie ha lasciato la plastica e il pastello di Barbieland per la plastica e il pastello di Los Angeles”.

La fuga nella realtà ritorna, da Barbie al Matrix tanto caro ai complottisti.

Citando un’ultima volta Zizek, in questo risiede la lezione finale delle avventure nella realtà: non solo ci rifugiamo in una fantasia per evitare di affrontare la realtà, ma fuggiamo nella realtà (degli atti brutali) per non ammettere la totale futilità delle nostre fantasie. In ambito ecologista, lo scoprire un reale oltre le narrazioni ad usum Delphini, ad esempio, prende pieghe ancora più traumatiche, come nota Claudio Kulesko: è necessario affrontare il trauma del ritorno della natura, e rendersi pienamente coscienti di come le radici di tale trauma affondino a tal punto nei nostri corpi e nelle nostre menti, da stravolgere del tutto la nostra capacità di reagire e pensare lucidamente.

Non esiste niente, non esistono valori, nulla ha senso. Benvenuti nel deserto del reale.

Per molti di questa generazione, purtroppo, la risposta è un distacco ironico o un immobilismo totalizzante. Torna in mente il passaggio da Il Porcile di Pasolini:

“Perché oggi, un giorno d’Agosto del ’67, non ho opinioni. Ho tentato di averne e ho fatto di conseguenza il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista. […] Le mie cinquanta parti conformiste sono annoiate. Le mie cinquanta parti rivoluzionarie sono sospese.”

Ma di fronte a dei sacerdoti alternativamente della morale o della scienza, che vogliono farsi gatekeeper della giusta lettura del mondo, del giusto modo di vivere, a noi non resta che fare i nomi e continuare a cercare di tracciare i confini del sistema tutto per immaginare e desiderare ciò che vogliamo. Après nous, le déluge.

Questa è la nostra libertà/ nel dire i nomi giusti/ senza paura/ a voce bassa// nel chiamarci l’un l’altro/ a bassa voce/ chiamare per nome il divoratore/ con nient’altro che il nostro respiro// salva nos ex ore leonis/ tenere aperte le fauci in cui abitiamo/ non per nostra scelta.

Hilde Domin, Salva nos


 

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