India verso il G20: Benvenuti a Modi Land

Daniela Bezzi

Il Governo cinese ha confermato ieri che al G20 indiano il leader cinese Xi Jinping non potrà esserci, al posto suo manderà il premier Li Quiang. Malessere improvviso? Ben altre priorità? Riluttanza a riconoscere all’India un ruolo di protagonismo in area pacifica, in un momento in cui l’economia del dragone è in ribasso mentre quella dell’elefante promette mirabolanti crescite di PIL?

Nella ridda delle speculazioni la stampa indiana pro-Modi si è affrettata a diramare le più tranquillizzanti rassicurazioni: in effetti non sarebbe la prima volta che un capo di stato non partecipa a un G20, e nel caso di Xi Jinping era già successo quando due anni fa la presidenza fu italiana. E comunque l’incontro tra Xi Jinping e Narendra Modi c’è già stato durante il summit di Johannesburg…

Nessun motivo di immaginare chissà quale sgarbo diplomatico, anche se è vero che le due superpotenze confinanti sono di nuovo ai ferri corti per l’ennesima rivendicazione territoriale, questa volta riguardante il massiccio del Doklam: che l’India rivendica entro i propri confini, mentre per Pechino si tratta di un versante sicuramente cinese della catena himalayana – e stiamo parlando dell’Arunachal Pradesh, in quell’India nord-orientale da sempre complicata da istanze separatiste, con il vicino stato del Manipur che quest’estate è stato teatro di atrocità intercomunitarie di matrice solo apparentemente etnica, situazione tutt’altro che pacifica.

E comunque, siamo ormai al count down, per questa G20 Parade che tra l’8 e il 10 settembre vedrà riuniti a Delhi i capi di stato delle economie più avanzate del mondo, con una scenografia che non sapremmo immaginare più esagerata e spendacciona. Un grande e multicolor fior di loto, che sarebbe il logo della manifestazione, illumina la notte sulla trafficatissima Mathura Road che conduce alla sede degli incontri, a Pragati Maidan. Il passante ferroviario che gli passa proprio sotto, è stato decorato con lunghi murales raffiguranti l’epica del Ramayana, con legioni di operai-pittori al lavoro sulle impalcature di bamboo. Gran profusione di rimandi al Ramayana anche per le proiezioni luminose che hanno acceso di colori il Qutub Minar, che splende come una torcia nella parte sud di Delhi.

Il centro città è tutto un zampillare di fontane, firmate dagli astri nascenti dell’Indian Design, alla faccia della siccità. Per non dire delle statue a decine! E delle aiuole di fiori: ben 376.000 nuove piante donate dalla Garden Society in modo da trasformare in ininterrotto nastro verde il percorso che collega l’aeroporto con il centro – e pazienza se nei tanti altrove dell’India interna, nelle aree tribal-minerarie afflitte dall’estrattivismo, intere foreste e aree agricole sono state già da un pezzo sacrificate alle superiori esigenze di sviluppo; pazienza se i poveri ambulanti, i tantissimi senza casa e mendicanti sono stati deportati chissà dove, per non guastare il bell’effetto.

Oltre a quella di Xi Jinping, è data per scontata l’assenza di Putin per le ragioni che sappiamo. In compenso Joe Biden sbarcherà in India già da giovedì 7 settembre, in anticipo su tutti: per rendere omaggio all’indubbio impegno del paese ospitante alla presidenza del G20, e mettere in chiaro chi proverà a dettare l’agenda, contando su un’amicizia da molto particolare, nonostante la conclamata neutralità dell’India sul conflitto russo-ucraino. L’accoglienza che la Casa Bianca ha riservato a Modi durante la visita dello scorso giugno a Washington, ha solo confermato la special relation di cui l’India gode presso l’amministrazione americana: per controbilanciare l’influenza cinese in area Indo-pacifica e più in generale sul fronte dei BRICS, che il recente summit di Johannesburg ha fotografato così compatto e numeroso.

E dunque, indipendentemente dalle speculazioni che potranno solo infittirsi nelle prossime ore, il G20 indiano può considerarsi cominciato: con il personale appello di Narendra Modi alla cittadinanza di Delhi, per la massima collaborazione nonostante i disagi che ci saranno sul fronte-traffico; con le luminarie accese come per la festa del Diwali anzi di più; con i canali tv che non perdono occasione di amplificare il significato universale di quel concetto, Vasudhaiva Kutumbakam che il Presidente Modi ha voluto per il suo G20 – per ribadire che Il mondo è una famiglia. “Non solo uno slogan, ma una filosofia che deriva dal nostro ethos e patrimonio culturale”,  ha tenuto a precisare in una recente intervista.

Peccato che all’interno di quella sempre più immensa famiglia che è l’India (la cui popolazione supera ormai quella della Cina) la convivenza sia tutt’altro che armoniosa. Non lo è per la minoranza mussulmana (una “minoranza” che conta oltre 200 milioni di persone) sempre più target della peggior campagna d’odio, che è stata un po’ sempre la cifra del Modi Raj ancor prima che diventasse Primo Ministro dell’India, come ha recentemente rievocato la BBC con il documentario The Modi Question, che ha riacceso i riflettori su quella terribile stagione di  violenze, che si scatenarono nella primavera del 2002 nello stato del Gujarath, quando Modi ne era ministro.

Un filmato che il governo indiano ha cercato invano di censurare – ma ahimè le violenze, i casi di linciaggio o più comune saccheggio nel nome dell’hindutva (che sta a indicare il progetto di suprematismo induista) non sono affatto un ricordo circoscritto a quel terribile momento in Gujarath, bensì la cronaca quotidiana ormai di tutta l’India.

Un mese fa è stata la volta della cittadina di Nuh nel nord dell’Haryana, a circa 80 km da Delhi: negozi, case, pompe di benzina, persino qualche hotel, oltre 300 proprietà appartenenti a mussulmani sono stati rasi al suolo a colpi di bulldozer, e chi ha provato a protestare si è trovato detenuto. Le demolizioni sono proseguite per ben quattro giorni replicando il copione di 21 anni fa in Gujarath: totale impunità per le squadracce hindu, mentre chi avrebbe dovuto intervenire non l’ha fatto.

E solo pochi giorni fa è stata di nuovo gran tamasha (clamore) sui media indiani, per un video che riprende un insegnante mentre incita un’intera classe ad accanirsi contro un ragazzino di sette anni, colpevole di esser nato mussulmano.

 

Il video è stato vigorosamente stigmatizzato come esempio di quella politica dell’odio che è la cifra del governo Modi – con il prevedibile effetto di suscitare una reazione uguale e contraria in difesa del prof, paladino del ‘sentire comune’! E basta pensare a cosa è successo anche qui da noi, con il caso-Vannacci, per capire che il trend (non solo per l’India) è il dilagante majoritarianism, quell’irresponsabile schiacciare sul pedale della maggioranza scambiato per partecipazione, come più volte denunciato da Arundhati Roy e anche di recente da un’intellettuale del calibro di Romila Thapar.

Dunque, sarà pur vero che l’India ha tutte le carte in regola per presentarsi al mondo come ‘fabbrica del mondo’ in alternativa alla totalitaria Cina, e con un costo del lavoro persino inferiore! E sarà pur vero che anche sul piano tecnologico non le manca nulla, come dimostrato con il recente sbarco nell’area sud della Luna, annunciato (applausi al tempismo) a conclusione del BRICS Summit di Johannesburg.

Ma il problema, la macchia, la vergogna per l’India di Narendra Modi, resta grande sul fronte interno, anche se la macchina della comunicazione farà di tutto per oscurarlo. La situazione sempre più inquietante sul fronte dei diritti umani, il più sistematico attacco all’ambiente, l’estrattivismo senza tregua nelle aree tribali e forestali, il dissenso regolarmente imbavagliato con la forza draconiana del UAPA, acronimo che sta per Unlawful Activities Prevention Act (ne ha parlato su questo web site l’eminente avvocato Virginius Xaxa) che in pratica autorizza l’infinita detenzione, in qualunque circostanza ipoteticamente anti-national, ovvero  lesiva per gli interessi del Governo – alla faccia del Vasudhaiva Kutumbakam che questo G20 vorrebbe propagandare.

 

Queste sarebbero stato le questioni sul tappeto del recente We20 Summit dei Movimenti Sociali che è stato prontamente silenziato dalle forze dell’ordine (e ne abbiamo scritto qui).

E di questo, dell’urgenza di difendere i più fondamentali diritti, si è di nuovo dibattuto nel corso di una Conferenza Nazionale per la Difesa dei Diritti Democratici che ha avuto luogo di nuovo a Delhi a fine agosto, con la partecipazione dell’economista John Dreze, dell’avvocato Prashant Bhushan, dell’attivista Kavita Krishnan, del film maker Sanjay Kak e molti altri. Perché la gravità della situazione è sotto gli occhi di tutti, e le luminarie e la retorica del G20 la rendono solo più stridente.

Solo per citare qualche recente episodio: era il 9 agosto quando sono finiti in galera nove attivisti adivasi che da anni guidano la protesta contro la possente Vedanta per l’estrazione di bauxite dalle viscere del monte Niyamgiri, nello stato dell’Orissa. Una resistenza che dura da decenni, che dovrebbe considerarsi risolta da una serie di sentenze. E invece macché: lungi dal garantire la pace alle pendici di quella montagna che i tribali venerano come sacra, perché la bauxite funziona come una spugna, in grado di conservare le acque del monsone garantendo per molti mesi successivi la fertilità dei campi a valle – quei pronunciamenti hanno solo incattivito le mafie foraggiate dalla Vedanta, che a un simile bottino non vuole rinunciare.

E così oltre ai nove attivisti finiti in prigione il 9 agosto scorso, ecco la notizia (è successo proprio questo week end) del sequestro di Prafulla Samantara, attivista ‘storico’ nelle file del National Alliance of Peoples Movements, compagno di battaglie di Medha Patkar, nel 2017 premiato con il Goldman Award per l’Ambiente. Ho scritto sequestro, perché così è stato: in pieno giorno hanno fatto irruzione nella stanza dell’Hotel che lo ospitava a Rajagada, gli hanno legato le mani, coperto la faccia con uno straccio, lo hanno spintonato dentro una macchina e condotto al più vicino posto di polizia.

Il tutto è durato fortunatamente poche ore, verso sera era libero di nuovo grazie all’immediata mobilitazione di compagni e avvocati, e oggi è già partita la denuncia – ma questa è la situazione. Se una cosa simile può succedere a un Prafulla Samantara che gode di una certa notorietà, figurarsi il trattamento riservato agli attivisti locali, invisibili da sempre, eliminabili in qualsiasi momento.

Prigioni piene oltre ogni umana immaginazione nello stato del Jharkhand, che sta a nord dell’Orissa e da solo vanta il 40% delle riserve minerarie indiane. Vera e propria terra di conquista per i big dell’estrattivismo che (in omaggio alle strategie G/Local del Governo Modi) sono solo indiani, con le varie Hindalco, Thriveni, Dhiraya & Co a spartirsi il bottino che un tempo era monopolio della Tata Steel. In prigione è morto un paio di anni fa anche il missionario gesuita Stan Swamy, e ne abbiamo ripetutamente scritto. Ultraottantenne, sofferente di Parkinson, paladino dei diritti umani: nonostante l’età, l’infermità, il curriculum missionario, anche per lui è scattato il draconiano UAPA per ‘fiancheggiamento’ dei maoisti, benché decimati da tempo, dopo una sanguinosa guerra civile. Una ferita ancora aperta per l’India delle foreste.

In occasione della visita di Narendra Modi a Washington lo scorso giugno, Amnesty International ha ribadito l’urgenza di un chiarimento circa una situazione incompatibile con i più elementari standard di presentabilità: dietro le sbarre ci stanno non solo gli invisibili dell’India, ma un buon numero di intellettuali, giornalisti, scrittori, avvocati, studenti – come il website Civicus documenta molto bene.

Peccato che anche Amnesty International sia stata costretta a lasciare l’India dalla fine di settembre 2020, vittima di una campagna di denigrazione su varie situazioni che l’India considera delicate, in primis la questione dell’autonomia nello stato del Jammu & Kashimir, occupato militarmente da decenni, e non si contano le denunce per tortura nelle prigioni, le esecuzioni sommarie per fiaccare l’insorgenza. Stessa epurazione per funding violations (violazioni riguardanti i finanziamenti dall’estero) è toccata a Green Peace che si è vista i conti bloccati fin dall’aprile del 2015 e nel febbraio del 2019 è stata costretta a chiudere tutte le sue sedi. Continua con le campagne sul fronte ambientale, ma con staff ridotto ai minimi. E persino Oxfam, che in India è presente da decenni con progetti di cooperazione e sviluppo, persino le Missionarie della carità di Madre Teresa di Calcutta, si sono trovate indagate, perchè considerate “anti-nationals” da Narendra Modi.

Avranno modo di accorgersi di tutto questo, e magari sollevare qualche problema i distinguished guests che fra pochi giorni si troveranno accolti da questa rutilante scenografia di luminarie condita dalla più edificante retorica? “Nell’India che chiamiamo Bharat” leggiamo nella comunicazione compilata dal Governo Modi in occasione del G20 “il fatto di governare con il consenso della popolazione è stato parte integrante della vita sin dall’inizio della storia (sic!). Secondo  l’ethos dell’India, la democrazia si caratterizza per i valori di armonia, libertà di scelta, libertà di avere idee diverse, nonché inclusione, uguaglianza (ecc ecc) e solo da questo potrà derivare una vita dignitosa anche per i più comuni cittadini.”

Ecco, appunto: benvenuti in Modi Land…

2 – continua…


 

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