Moralismo e scientismo o Barbie e Oppenheimer. I Sacerdoti del Capitalismo (parte 2)

Mirko Vercelli

«Ci son più cose tra cielo e terra, Orazio, di quante siano sognate nella tua filosofia» (Amleto, Atto I, scena 5)

La lotta alla morale identitaria e allo scientismo vuol forse dire assolvere qualsiasi cosa emerga dal sentimento anti-sistemico?

Certo che no, la complessità è endemica del contemporaneo, ma non dev’essere abbastanza per permetterci di liquidare con una reductio ad nazium o ancora peggio, dipingendo come “esotico pazzo” chiunque esuli dal discorso mainstream; chiunque dimostri fantasia insurrettiva. La sinistra, anche di movimento, si accoda molto spesso a questi discorsi. Citando il collettivo Wu Ming, è parte della nostra tradizione:

“[…] l‘operazione retorica di paragonare potenzialmente qualunque cosa al nazismo e qualunque avversario ai nazisti – e più in generale l’uso indiscriminato dei termini «fascismo» e «fascisti» – risalgono al Komintern e al Kominform degli anni Trenta e Quaranta: per gli stalinisti i trotzkisti erano «trotzko-nazisti», in una certa fase i socialdemocratici erano «social-fascisti» e più tardi i comunisti jugoslavi erano «tito-fascisti». Tutti noi abbiamo sentito compagne e compagni paragonare a Hitler più o meno qualunque politico, chiamare “fascismo” più o meno qualunque tendenza sgradita e abbiamo usare “fascista” come un insulto generico, col risultato di banalizzare e rendere sempre più vago il concetto di fascismo.

Come se non bastasse, in questa specifica dinamica post-ideologica in cui c’è un disperato bisogno sia di un Grande Altro che di un’identità, il ruolo dei nemici (maschilisti convinti, neofascisti, negazionisti) viene esagerato oltremodo. In molte piazze la loro presenza è irrilevante o assente, ma basta un’etichetta ed è ecco relegato al parametro interpretativo eretico-fascista l’illiberale. D’altra parte, come ne La Patente pirandelliana, chi è in piazza (che sia fisica o virtuale) inizia a riconoscersi nel modo in cui la sinistra parla di lui. Il malcontento anticapitalista ristora sotto il riconoscersi, dunque, fascista. Un Davide proletario e identitario che lotta contro il Golia plutocratico e annichilente.

Exsurge Domine

Allo stesso modo nessuno dovrebbe sorprendersi che dalla maggioranza si levino voci contro la “sinistra”.

È ormai chiaro a tutti che il Partito Democratico sia, nella percezione popolare, l’avversario dei lavoratori e dei poveri. E lo è non senza buone ragioni. La sua solida base elettorale, d’altronde è proprio la stessa borghesia saccente e ipocrita, che cerca di mostrare i segni rimanenti del suo “status intellettuale di sinistra”, ma nella pratica, svela la sua natura schifosamente elitaria. Si mostra entusiasta per il classismo in tutte le sue forme, ammira figure come il banchiere Draghi e promuove l’espansione della tecnocrazia e delle disuguaglianze, anche se preferisce presentarle sotto l’etichetta di “meritocrazia” o “innovazione“.

D’altra parte, quanto meno per dovere di contraltare semantico, “fascista”, “populista” e “destra” diventano sinonimo di popolare, semplice, “dal basso”.

Ed è ecco che si disegna un mondo capovolto, nel quale per liberarsi dello spocchioso coleottero che ha preso il posto del grillo parlante, Pinocchio vota il martello. Una dinamica inversa a quella di Feuerbach, per cui ora la ragione non che è una manifestazione della nostra religione. Uno scenario nei quali i capitalisti si comportano da classe all’interno di cospirazioni per difendersi dal   reazionario individualismo dei proletari. Amen.

Lei è tutto. Lui… è solo Ken.

Barbie di Gerwig ha effettivamente infastidito diversi moralisti per il suo presunto finale “ipocrita” e matriarcale; sorvolando sull’impianto prettamente nevrotico di chi vorrebbe riscrivere i film per combaciare con la loro “giusta propaganda”, il punto in cui la critica di queste persone a Gerwig e la critica stessa di Gerwig falliscono è tutt’altro. L’inversione di ruoli nel finale mostra volutamente e deliberatamente uno scenario frustrante, in cui diventa impossibile un lieto fine per Ken nonostante Barbie abbia il potere di cambiarlo. Ed è esattamente questa la sua critica che si può applicare dal femminismo all’ambientalismo, un mondo in cui piccole e circoscritte vittorie sono celebrate come traguardi della specie umana, ma un cambiamento paradigmatico non viene nemmeno contemplato.

Tuttavia, la critica di Gerwig è proprio una utopia capitalistica perché, nonostante la sua volontà e il suo appello all’azione per un futuro egualitario, la produzione soffre del problema di forma e sostanza nella sua analisi del patriarcato.

Prima la forma, poi la sostanza: quest’affermazione ingenua e in parte controintuitiva è sia alla base della psicoanalisi (nella quale l’analisi del sogno non è mai l’analisi del suo contenuto, quanto piuttosto il motivo per cui il particolare reale del desiderio si è manifestato in una forma specifica nel sogno) sia della metafisica hegeliana (dove la sostanza – l’oggetto – dipende dalla forma della coscienza che interpreta e comprende). L’inversione di Gerwig e il conseguente declino distopico non sono altro che un cambiamento di sostanza all’interno della stessa forma, cioè il capitalismo. La sua critica non riesce a vedere come la forma sia il punto assoluto d’antagonismo per un appello all’azione.

Supponiamo che ogni persona decida di abolire il patriarcato dopo aver visto Barbie e ci si riesca effettivamente; avremmo raggiunto una società egualitaria? Nient’affatto, per sostenersi, il capitalismo dovrà necessariamente sfruttare qualcun altro che sia la natura o una nuova identità.  Il risultato di questa santa inquisizione della morale ha il solo risultato di nascondere e rendere invisibile la violenza all’interno del capitalismo.

Il problema di forma e sostanza è lo stesso della libleft, vero target della pellicola, la quale è disposta a rinunciare a tutta la sostanza capitalista (ad esempio, con la promozione di politiche contro la concorrenza, predicando una forte ridistribuzione delle ricchezze o di politiche anti-trust, sospendendo il mercato di fronte a situazioni di emergenza), ma per tutto questo tempo non è stata mai disposta a rinunciare alla stessa ragione del nostro antagonismo “impossibile“: la forma capitalistica.

Nell’analisi ideologica di Zizek, il sintomo è il punto che oggettiva l’impossibilità dell’ideologia tutta. Ça va sans dire, per il nazismo l’ebreo è il sintomo che impedisce il raggiungimento di una società corporativa di razza pura e contemporaneamente mostra l’impossibilità ontologica di avere una società priva di antagonismo. Parafrasando Laclau e Mouffe, una società capitalista esiste bilanciando gli interessi individuali e quelli della struttura relazionale; gli interessi rispettivi non saranno mai sovrapponibili del tutto. Tuttavia, ogni giorno affermiamo a noi stessi di volere un’umanità unita e compatta cantando per mano Imagine di John Lennon, contemporaneamente mascheriamo l’impossibilità di cui su attraverso sintomi precostruiti come gli immigrati, le drag queen, i complottisti o gli analfabeti funzionali e usiamo quel sintomo come l’unico ostacolo che ci impedisce di raggiungere la nostra utopia.

L’egualitarismo capitalista di Gerwig soffre di un sintomo simile: la libertà. La libertà utopica nel capitalismo esiste solo se la si può vendere a qualcun altro; così facendo si può eliminare l’antagonismo intrinseco al capitalismo.

Detestare dal profondo questa sinistra non vuol dire certo essere fascisti. E non è nemmeno colpa di chi non riesce a immaginarne una diversa, perché siamo la progenie bastarda di lunghi anni di stagnazione dei movimenti. Non ha nemmeno senso disquisire filosoficamente sul presunto abuso del termine «libertà» da parte delle destre che certi intellettuali rivolgono al termometro politico. Si manca il bersaglio, perché il più delle volte le piazze non stanno davvero parlando solo di «libertà»: stanno parlando della propria proletarizzazione; così come molti dei maschilisti che han criticato Barbie (probabilmente spesso senza nemmeno vederlo) non rivendicano una posizione di superiorità, quanto il diritto ad essere anche loro vittime.

We Are Legion

La classe media, che certo non andrà in paradiso, impoverita, precaria e spaventata – persone nient’affatto avvezze alla nostra neolingua della lotta sociale e che non ereditano tradizioni politiche ben definite – traduce il proprio disagio in termini di “libertà“.

In un impulso a dissociarsi da queste esternazioni, una certa fazione della “sinistra” sui social media dimostra spesso disprezzo per le libertà personali quando si parla dell’Altro; non è certo una novità: all’interno delle tradizioni di sinistra esistono precedenti in cui le libertà sono state trattate con sufficienza e persino spregio in nome di un benessere comune, me ne salvino i rossobruni, ma da queste parti si va verso i gulag.

È importante fare attenzione a quali termini si decide di denigrare perché sì, c’è una grande differenza tra l’individualismo e l’egoismo da un lato e l’autonomia che ogni individuo dovrebbe poter godere, l’habeas corpus esistenziale che è fondamentale per la vita dall’altro. Come ricorda il collettivo Wu Ming, senza questa distinzione si rischia di creare una confusione disastrosa e di finire per abbracciare un autoritarismo, persino all’interno del contesto capitalistico, senza neanche poter addurre la scusa della dittatura del proletariato.

Quelli che scendono in piazza oggi e scenderanno in piazza domani, da sinistra, sono spesso solo movimenti d’opinione. Una parade di idee senza ideologia che si limita alla significazione in simboli. Non c’è un pianeta b. Forti identità individuali, che in un precedente articolo avevo chiamato individualismo di piazza, che in quanto ad identità collettive si presentano come imitazioni, apocrife pantomime.

Foto Victoria Pickering | Occupy Wall Street (CC BY-NC-ND 2.0)

Vi ricordate lo slogan di Occupy Wall Street scandito tra le fronde di Zuccotti Park?

We are the 99%”. Quello che stiamo facendo ideologicamente è occupare lo spazio di quell’1%, ma distribuendo patentini morali al restante 99%.

Saranno proprio quelli che ora censuriamo e denigriamo i soggetti protagonisti delle rivoluzioni, con buona pace del 3,5% teologico a cui si affidano attivisti come Extinction Ribellion. E come se non bastasse, questi rivoluzionari mancheranno dei background per cui noi tanto battiamo i piedi sperando così di educarli: non avranno la consapevolezza delle lotte operaie e dei movimenti sociali o una coscienza di classe. Ma questo darà loro, come risultato collaterale, una totale libertà dall’adesione a schemi predefiniti. Quello che noi non avremo mai e per cui la nostra fantasia tanto fatica. Lo intuì persino Negri in un articolo del 1981 intitolato “Erkenntnistheorie: elogio dell’assenza di memoria“.

Per tornare all’intersezione di assi, i protagonisti delle future ondate di lotte spesso saranno individui “biconcettuali“: proletari (anche precari) nella loro nuova condizione di vita, ma con residui di mentalità borghese. Inizialmente, a causa del colpo subito dal declassamento, cercheranno di mantenere i valori borghesi precedenti, frammenti dello status di tempi non sospetti. E noi Barbie ci scaglieremo contro di loro perché stonano con la nostra palette. Come suggerisce il linguista cognitivo George Lakoff, gli individui non formati ideologicamente presentano ancora di più la coesistenza pacifica di concetti abissalmente differenti. Nessuna ipocrisia, ma una narrativa personale fatta di account e risposte già pronte che permette a una narrazione di essere contemporaneamente di sinistra e di destra. Dobbiamo rivolgerci alla parte della loro mente che condividiamo, all’esperienza delle nuove condizioni materiali, ai loro vissuti concreti e alla loro indignazione verso il sistema.

Se non lo facciamo, saranno i fascisti ad arrivare alla nostalgica rabbia per il loro privilegio borghese e bianco passato.

Solo attraverso la pazienza e resistendo all’impulso di categorizzare immediatamente ciò che sta accadendo, possiamo sperare di generare sintesi proficue. La fretta giudicatrice che spesso caratterizza i social media è senza dubbio il nostro avversario. Eppure sembra essere proprio l’arma imbracciata dalla sinistra nei nostri bei talk con spritz e aperitivo al termine. Segue djset di DjOchoMacho. Vasi di coccio che si credono vasi di ferro. Performance da camera che ci confermano che sì, noi venti in un centro sociale siamo i buoni e gli altri milioni sono i cattivi. Niente di diverso, probabilmente, dai discorsi che si potevano sentire tra le stanze di Versailles.

Tanti piccoli San Pietro

Il potere non ha valori da seguire ed è quest’aberrazione concettuale ad aver creato negli anni alcune tra le situazioni più surreali e violente. La moglie, il fratello, l’amante e numerosi amici e colleghi di Oppenheimer erano tutti parte del CPUSA (Partito Comunista Statunitense), e nel periodo del terrore rosso maccartista, in cui bastava un sospetto per perdere il posto di lavoro o venire espulso, a lui venne permesso di guidare ugualmente il segretissimo progetto Manhattan; questo il film di Nolan lo mostra bene. Gli imperialisti americani sapevano benissimo del rischio concreto di fughe d’informazioni verso l’URSS, tuttavia, erano disposti a correrlo tranquillamente pur di costruire e usare la bomba atomica il più rapidamente possibile – non solo prima dei nazisti, ma anche e soprattutto dei sovietici.

Uno strumento di propaganda per cui non esistevano persone moralmente inadatte. Almeno fino a che non venne raggiunto l’obiettivo. Come evidenzia un segmento nevralgico del film, nel ’54, finita la sua utilità, a Oppenheimer viene revocato il permesso di sicurezza governativo ed è accusato di tradimento. Dal maccartismo ai dilemmi etici, quello che il film mette in evidenza è che la politica non può essere separata dal modo in cui la scienza e l’innovazione vengono utilizzate per aiutare o ostacolare l’umanità. Noi siamo i buoni, dunque, todo modo para buscar la voluntad divina.

Un punto di svolta che non può essere ignorato è stato sicuramente il periodo pandemico. Da un lato, ha portato a una radicalizzazione proletaria a causa delle contraddittorie comunicazioni delle istituzioni tutte, dall’altro ha convinto molti compagni ad abbracciare lo scientismo. Il “trust the experts” ha in molti casi adottato la violenza di una vera dittatura, giustificando le contro narrazioni da persecuzione per raggiungere i conversos e i marrani.

Quando un governo che ha in eredità disastri ambientali occultati, stragi di stato e corruzione d’ogni genere obbliga i cittadini a somministrarsi vaccini realizzati da colossi farmaceutici pluricondannati per corruzione, abusi, disease mongering  e centinaia di morti procurati in corpore vili, se qualcuno dice “io non mi fido”, direi che non dovrebbe suonare così fuori di testa. Questa diffidenza ha fondamenti solidi, che derivano non solo dalla gestione discutibile della pandemia, ma più in generale dalla comprensione che, in una società capitalistica, la medicina è influenzata dalle logiche del capitalismo.  Quello che hanno fatto molti compagni in voli pindarici scientisti, è stato proprio negare questa verità di fatto, concedendosi a patetici “fact-checking”. Il paternalismo dei giusti è così chiaro che non fa altro che polarizzare lo scetticismo degli eretici. Non si può considerare queste persone come nemiche, più della classe dirigente che ci ha portato in questa difficile situazione.

Naturalmente, quando i teorici del complotto si lanciano loro stessi in teorie pericolose e false, è nostro dovere morale contrastarle. Quello che non dovremmo fare è unirci a coloro che utilizzano i “fascisti“, “gli analfabeti funzionali” come capri espiatori o partecipare a una campagna d’odio che vede nell’eretico la mancata venuta di Cristo.

Usando una funzionale semplificazione, Wu Ming 1, nel suo La Q di complotto, parla di “nuclei di verità” dietro la diffusione dei cospirazionismi; l’espressione di un malcontento, di una diffusa consapevolezza che può essere più o meno specifica.

“Persino QAnon ha nuclei di verità: il sistema è effettivamente mostruoso, il partito democratico americano serve davvero gli interessi di un’élite schifosa. Il fatto che da queste premesse e intuizioni derivi, anziché una coscienza coerentemente anticapitalistica, la credenza in una società segreta di satanisti pedofili vampiri che tengono milioni di bambini schiavi sottoterra è un grosso problema. Non per questo quei nuclei di verità scompaiono. QAnon è un’allegoria inconscia e una parodia involontaria di una critica al sistema.”

I nuclei di verità sono premesse generali, intuizioni incomplete o errate, manifestazioni inconsce delle nostre angosce climatiche ed esistenziali. Se possiamo individuarle in movimenti come QAnon, con ancora maggior ragione li possiamo riscontrare nei discorsi che attribuiamo alla destra. Quando si contrastano le tesi false e complottiste, anche quando sono diffuse proprio dai padroni, non dovremmo limitarci a smentirle, ma cercare di capire per quale motivo stiano facendo presa sulle persone e quindi comprenderne il nucleo di verità.

Un approccio al cospirazionismo che fa svanire le contraddizioni del sistema, le divisioni di classe, i rapporti sociali e di forza, in generale le dinamiche collettive, prosegue Wu Ming 1, è un approccio in cui scompaiono, in breve, le condizioni materiali del cospirazionismo stesso. In una classica robinsonade, come le chiamava Marx, in questo tipo di narrazione, rimane solamente il “cospirazionista“, un personaggio che può essere blastato o portato a ragionare (o entrambe le cose contemporaneamente), ma sempre sul terreno astratto di una “battaglia delle idee“, che sia la morale a didascalia di un servizio di Fanpage o il dibattito di un programma di Del Debbio. Solo nuovi movimenti e nuove interconnessioni collettive possono prevenire deviazioni individuali e tribali nel cospirazionismo, riappropriandosi di quell’area che abbiamo lasciato vuota e che è stata occupata dalle fantasie del complotto da una parte o dalla morale bigotta e individualista dall’altra.

Continua nella parte conclusiva. Di seguito la prima parte:


 

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