Venaus: un amore che nasce dalla rabbia e una rabbia che nasce dall’amore.

Ivan Basadonna

Forse non tuttə conoscono la storia e il portato simbolico dell’area di Venaus dove da ormai 7 edizioni si svolge il festival alta felicità.

A Venaus, lungo un pezzo del prato su cui vengono montate le tende e nell’area dell’arena, doveva sorgere il primo mega cantiere del tunnel di base del TAV nel 2005.

Il movimento notav, che fino a quel momento era ancora un movimento d’opinione che cercava di assumere una legittimità politica, attuava qualche piccolo atto di sabotaggio e si dedicava allo studio del progetto facendo controinformazione, decise così di occupare con delle tende e un container questa piccola area adiacente alla statale facendo per quasi un mese socialità e assemble nel freddo inverno di montagna.

Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre qualcosa cambiò, per la prima volta lə solidali in un pacifico e festoso presidio provarono quella che a tutti gli effetti fu la prima e feroce violenza di uno stato, con cui fino a quel momento si era provato a dialogare ma che mai ci aveva veramente ascoltato. Una violenza di stato che da quel momento in avanti divenne ritualità in val di susa.

Centinaia di forze dell’ordine in assetto antisommossa arrivarono all’improvviso in piena notte, sgomberando l’area e attuando ciò che a tutti gli effetti era stato il metodo Diaz di qualche infame anno prima: sfondarono con delle ruspe le barricate, ed entrarono picchiando selvaggiamente tutte le persone a ridosso di queste e coloro che ancora dormivano nelle tende prima di accorgersi del loro arrivo, bloccarono le ambulanze sulla strada, tagliarono le tende e distrussero quanto dei no TAV ci fosse in quella zona anche pisciando a sfregio sui vestiti e i sacchi a pelo di chi era scappato. Le persone si rinchiusero così, dentro la proloco circondate, senza la possibilità di essere medicate e sotto le continue intimidazioni psicologiche delle forze dell’ordine che per diverse ore avevano circondato la zona e minacciavano di entrare a finire il lavoro.

In quella notte purtroppo per loro, in quell’area non trovarono però soltanto militanti o anarco insurrezionalisti di cui la collettività si sarebbe potuta dimenticare il giorno seguente, ma gli abitanti della val Susa, il panettiere, la maestra della scuola elementare, i miei vicini di casa, gli assessori e i sindaci dei paesi.

Ora tutti sapevano chi era il nemico e di cosa era capace.

La rabbia era tanta e collettivamente si decise di indire una manifestazione 2 giorni dopo con l’obbiettivo di riprendersi Venaus e l’8 dicembre e così andò. Migliaia di persone incazzate e a volto scoperto sotto la neve circondarono il paese e scendendo dai boschi e avanzando un metro alla volta sulla strada asfaltata riuscirono ad arrivare fino alle reti, abbattendole e riconquistando tutta l’area che dopo ore di assedio, senza possibilità di far arrivare ricambi e viveri era diventata per le forze dell’ordine ormai indifendibile. Le camionette di invasori furono così costrette ad andarsene, scappando con la coda tra le gambe tra insulti e sputi lungo 2 lunghissimi corridoi fatte dalle persone presenti.

L’ultimo cordone ad andarsene fu proprio quello posto a proteggere esattamente il luogo in cui ora c’è l’arena dei concerti.

TELT capí che quel luogo non si sarebbe mai più potuto riprendere e decise di cambiare radicalmente il progetto e ripartire da zero spostando il tunnel di base a chiomonte.

Venaus era libera, il movimento notav aveva vinto.

Perché ancora oggi, la valle di Susa e il festival di Venaus fanno ancora così paura?

Perché ci ricordano anche questa storia, ci ricordano che anche una valle di pochi montanari può vincere e resistere anche al più tiranno degli stati o dei governi. Fa paura perché rappresenta ad oggi l’unica zona franca in Italia che riesce a dimostrare che il sistema capitalistico e predatorio in cui viviamo ha un’alternativa, ed è attuabile e migliore per tuttə . Rappresenta la nostra visione di come vorremmo fosse organizzata la società e il mondo che la circonda, mettendola in pratica.

Perché in quei giorni questo piccolo paese di montagna diventa una realtà a sé, distante e totalmente diversa da qualsiasi altra esperienza si possa fare o trovare in qualsiasi altro luogo in cui il capitalismo e la globalizzazione siano arrivati.

Perché nel mondo che vorremmo non si segue la logica del profitto, ma del benessere delle persone e dell’ambiente.

Perché nel mondo che vorremmo ci si basa sul rispetto e sulla fiducia reciproca in cui anche se si chiede ad esempio di non portare alcolici esterni, nessuno ti aprirà mai lo zaino per controllare che rispetti questa regola se tu non puoi permetterti di comprarlo lì o decidi di non corrispondere questa cortesia.

Perché nel mondo che vorremmo la socialità e la cultura dev’essere accessibile a tuttə, e se in altre situazioni per assistere a concerti o eventi del genere per vedere il tuo artista preferito dovresti spendere centinaia di euro, qui non viene chiesto nulla, perché tutti dovrebbero aver modo di divertirsi senza che sia la tua classe sociale ad impedirtelo.

Perché nel mondo che vorremmo le scelte su ciò che avviene nel tuo territorio devono essere prese confrontandosi collettivamente in delle assemblee tra chi in quei luoghi vive e non tra pochi manager o politici assetati di denaro.

Perché nel mondo che vorremmo non esiste individualismo e meritocrazia, ma che ognunə dia qualcosa nella maniera in cui può farlo. in quanto il festival è fatto da studenti, lavoratori e chiunque sia disposto a dare una mano, spesso persone comuni che magari prendono ferie 2 settimane a fine luglio passando comunque 10 giorni a lavorare 15 ore al giorno per montare, smontare e organizzare tutto questo, collaborando tra loro, senza chiedere nulla in cambio e spesso senza che nessuno se ne accorga.

Perché nel mondo che vorremmo ognunə dev’essere libero di vestirsi ed esprimersi come cazzo gli pare senza la paura di essere giudicatə per il proprio colore della pelle, il proprio orientamento sessuale, i propri capelli azzurri, verdi o la propria personalità eccentrica.

Perché nel mondo che vorremmo l’ambiente e le cose immateriali devono essere tutelate quanto quelle materiali, e ognuno deve poter esprimere la propria rabbia e indignazione nei luoghi in quei questi sono stati calpestati e martoriati in nome di interessi superiori.

Ogni giorno di festival è una rivoluzione.
Ogni giorno in cui il nostro movimento non muore è una rivoluzione.
Ogni persona che viene per la prima volta, ascolta quanto abbiamo da dire, e riesce a cogliere anche solo un pezzetto di ciò che c’è al di fuori dei concerti è una rivoluzione.
La nostra rabbia per le ingiustizie e l’amore per la nostra terra che ci ha portato a creare tutto ciò è una rivoluzione.

Anche con tutte le armi, i soldi e la repressione che potete provare ad usare, resisteremo sempre un metro in più di voi.

Con la rabbia e con l’amore finché tutta l’Italia non sarà Valle di Susa, a presto.


 

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