C’era una volta Wimbledon. Storie di esclusione, ieri e oggi

Massimiliano Fortuna

Il barone

Gottfried von Cramm (ma, a quanto pare, lui al “von” non ci teneva) è stato il più forte tennista tedesco degli anni Trenta. Anzi, è stato il più forte tennista tedesco di sempre prima dell’avvento, a metà degli anni Ottanta, di Boris Becker.

Di antica nobiltà, chiaro di capelli, elegante nei modi e dotato di un impeccabile savoir-faire avrebbe potuto facilmente rappresentare un motivo d’orgoglio per una Germania nazista che puntava su atleti di fama per dare lustro al proprio prestigio internazionale. Alcuni di questi però, come lo stesso von Cramm, come Luz Long, il saltatore in lungo che sfidò Jesse Owens alle Olimpiadi del 1936, o come Max Schmeling, il peso massimo che divenne campione del mondo e in seguito riuscì nell’impresa di battere Joe Louis, avevano assai scarsa simpatia per il regime hitleriano. Non si ribellarono apertamente, ma non assecondarono la propaganda nazista, come le gerarchie avrebbero voluto e come sarebbe loro convenuto fare per ricavarne privilegi personali. Nel caso di von Cramm il vantaggio più immediato sarebbe stato quello di evitare qualsiasi fastidio dovuto alla propria omosessualità.

Il regime nazista, a partire dal 1934, aveva infatti dato inizio a una stretta nei confronti degli omosessuali: «nell’ottobre del 1934, la Gestapo di Himmler spedì un comunicato ai dipartimenti di polizia di tutto il paese richiedendo una lista delle “persone implicate in attività omosessuali di qualsiasi tipo” […]. Gottfried e i suoi amici osservarono con orrore il numero crescente di gay […] che scomparivano dalle strade per finire in prigione, o sempre più speso nei campi di concentramento: novecento nel 1934, più di duemila nel 1935, quasi novemila nel 1936» (Marshall Jon Fisher, Terribile splendore, 66thand2nd, 2013, pp. 218-19).

Alla fine il processo toccò anche a von Cramm, il 5 marzo 1938 venne prelevato dal castello di famiglia a Brüggen e incarcerato a Berlino, con l’accusa di essersi macchiato di incontri illeciti con l’attore Manasse Herbst e anche di contrabbando di valuta. Venne condannato a un anno di detenzione, in seguito gli furono condonati cinque mesi per buona condotta. Si può certo dire che la sua fu una pena mite e la reclusione sopportabile, se confrontata con molti altri casi.

Sicuramente la popolarità e il titolo di barone lo aiutarono a non entrare in quella spirale di repressione più estrema che toccò a tanti. Riacquistata la libertà si trovò, come prevedibile, abbandonato dalla Federazione tennistica tedesca e cercò di iscriversi alle competizioni a titolo individuale. Ma a Wimbledon, il più prestigioso torneo di tennis del mondo, nel 1939 la sua iscrizione non venne accettata e il motivo dell’esclusione fu proprio la condanna per omosessualità comminatagli dal regime nazista.

L’Inghilterra liberale, che da lì a poco sarebbe entrata in guerra contro la Germania hitleriana, escludeva un giocatore da una gara perché colpevole di essere omosessuale, riconosciuto come tale da un regime liberticida e spregiatore dei diritti umani. Una consonanza fra regimi, teoricamente ispirati a principi opposti, che di primo acchito stupisce ma a ben guardare nemmeno sorprende del tutto, si trattava in fondo della stessa Inghilterra che qualche anno dopo avrebbe imposto un calvario a Alan Turing – il cui contributo fu decisivo durante la guerra per la decifrazione dei codici segreti usati dall’esercito tedesco –, condannandolo per omosessualità e spingendolo ad accettare una cura ormonale, umiliazioni che probabilmente lo portarono poco tempo dopo a togliersi la vita.

Anche gli Stati Uniti, del resto, riservarono a von Cramm un analogo trattamento, anzi più restrittivo ancora, dal momento che gli negarono il visto di entrata nel paese per «depravazione morale», mentre in Inghilterra, perlomeno, la possibilità di ingresso non gli fu mai impedita.

Nuovi esclusi

Se si ricorda questo lontano episodio è perché, come noto, il torneo di Wimbledon, che oggi prende il via, quest’anno ha escluso i giocatori russi e bielorussi dalla competizione a causa dell’invasione dell’Ucraina. L’ATP, l’Associazione dei tennisti professionisti, ha reagito al bando decidendo di non assegnare al torneo i punti validi per la classifica, finendo per commettere a sua volta una piccola ingiustizia sportiva, perché i giocatori che l’anno scorso avevano ottenuto un risultato importante ai Championships non potranno difendere questo punteggio e scenderanno in classifica.

Daniil Medvedev in allenamento | Foto di Carine06 da Flickr

Cose minime in rapporto alla guerra in corso, si dirà. Certo, ma è difficile non avvertire lo stridore che corre tra la proclamazione ideale di principi liberali da parte di alcuni attori politici e una concreta negazione degli stessi un attimo dopo. Capita dunque che proprio chi, come il governo inglese, sostiene con più fervore di altri che la guerra in corso in Ucraina abbia alla sua radice una contrapposizione valoriale tra un sistema autocratico come la Russia e le democrazie liberali dell’Occidente, nel combatterla non esiti poi a fare ricorso in alcuni casi a una limitazione dei diritti individuali. I russi vengono esclusi da Wimbledon in quanto russi, anche se tra di loro c’è chi, come Daniil Medvedev, attuale numero uno del tennis maschile, o Rublëv, ottavo in classifica, ha preso esplicitamente posizione contro questa guerra.

Attenzione dunque a non militarizzare anche ciò che, come lo sport o come l’arte e la cultura, andrebbe inteso come un territorio più ampio di quello dello scontro politico tra nazioni, uno spazio che anche nei momenti di crisi dovrebbe rimanere come una sorta di riserva di “ossigeno” nella quale i rapporti tra fazioni avverse possano continuare a svolgersi in modo non conflittuale, se non altro come simbolica prefigurazione di una possibile pace futura. Purtroppo si sa bene che spesso questo non accade e lo sport viene politicizzato e usato come strumento di lotta.

Attenzione poi a non impugnare l’affermazione della propria libertà come uno scudo dietro al quale ripararsi in modo acritico, come se il dire di appartenere a un mondo libero e a uno stato di diritto fosse sufficiente e non richiedesse invece una messa in discussione continua delle limitazioni alla libertà ancora presenti nelle società liberali. Attenzione infine alle contrapposizioni simboliche troppo nette e troppo idealizzate, nella suggestione delle quali si rischia di perdere il senso di una realtà più articolata.

Restiamo a un esempio di carattere sportivo. Le medaglie vinte da Jesse Owens alle Olimpiadi di Berlino del 1936 vengono spesso salutate come una vittoria simbolica del mondo libero contro il regime nazista e la sua matrice razzista e autoritaria. Non bisognerebbe dimenticare però che nel paese dal quale Owens proveniva vigeva la segregazione razziale e che lo stesso presidente Roosevelt evitò di incontrarlo perché negli stati del Sud, che allora votavano in prevalenza per i democratici, questo riconoscimento pubblico sarebbe potuto risultare sgradito. Questo vuol dire che gli Stati Uniti di Roosevelt equivalevano alla Germania di Hitler? Certo che no, però ogni realtà storica va compresa alla luce di un’indagine che rifugge dagli schematismi e dalle assolutizzazioni.

Insomma, le vere voci liberali in genere non appartengono a coloro che, dal momento che ci si trova in guerra, decidono di indossare un elmetto e per difendere la società liberale della quale fanno parte giustificano qualsiasi decisione essa prenda, in ragione del fatto che proviene da una società liberale; le voci liberali degne di questo nome, al contrario, sono quelle che incalzano senza sosta le proprie società di appartenenza per aiutarle a non prendere decisioni che vengano meno ai principi che esse stesse sostengono di difendere. Per esempio, decisioni come quella di escludere dei tennisti da un torneo, oggi perché russi, ieri perché omosessuali.

1 commento
  1. Cinzia Picchioni
    Cinzia Picchioni dice:

    Grazie per la bella riflessione (non sempre le riflessioni sono anche "belle", a volte sono noiose…)
    su cui sono totalmente d'accordo. Soprattutto sulla frase di chiusura.
    Cinzia Picchioni

    Rispondi

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