L’isola dei militari | Walter Falgio
A foras. Una prima indagine sull’antimilitarismo in Sardegna dagli anni sessanta all’attualità (prima parte)
Il pomeriggio del 12 ottobre 2019, davanti ai cancelli della base di Capo Frasca, si è tenuta sa manifestada contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna. Migliaia di persone hanno partecipato a un’iniziativa plurale convocata da “A Foras”, assemblea nata il 2 giugno 2016 a Bauladu con l’intento di includere gruppi, realtà politiche e singoli che oggi in Sardegna continuano a opporsi “all’occupazione militare”. Queste le parole d’ordine: firmare is esercitatziones, serrare is bases militares e is poligonos, bonifica e cunversione; bloccare le esercitazioni, chiudere le basi e i poligoni, bonifica e riconversione. Il sito internet dell’assemblea, ricco di informazioni, racconta come il movimento antimilitarista sardo si sia ricompattato a seguito di un’altra importante manifestazione che si tenne, sempre a Capo Frasca, il 13 settembre 2014.
Domusnovas, paese a 40 chilometri da Cagliari, ha visto nascere un comitato popolare per la riconversione della RWM Italia da fabbrica di bombe a fabbrica civile. La RWM è uno stabilimento del gruppo tedesco Rheinmetall che conta di aumentare la produzione degli esplosivi di tipo pbx con un importante piano di espansione. Italia Nostra, per esempio, è solo una delle tante associazioni che si oppone alla presenza dell’industria di armi, esportate e utilizzate per uccidere civili nel villaggio di Deir Al-Hajar nello Yemen nord-occidentale. Diverse le mozioni discusse in proposito dalla Camera, come quella del 18 giugno 2019 che vedeva come primo firmatario Federico Fornero.
L’arcipelago del movimento antibasi sardo è un’aggregazione trasversale e sfaccettata che interpreta un sentimento diffuso e si radica in uno specifico contesto territoriale e culturale: «‘Resistenza’ al colonialismo significava di più che semplice resistenza al dominio degli italiani. Come molte isole, e secondo una valutazione antica di secoli, se non di millenni, la Sardegna era ritenuta strategicamente importante. Inoltre, con le grandi estensioni di terra sottopopolata era il luogo ideale per l’addestramento militare», scriveva lo storico inglese Martin Clark nel 1989.
Le svariate forme di opposizione alla presenza militare nell’isola, piattaforma di servizio durante la Guerra fredda e ancor oggi nell’ambito degli interessi di una global Nato, sono oggetto di un ampio dibattito. Ne derivano i contorni di un tema di studio sulla storia politica e sociale della Sardegna del secondo dopoguerra tanto peculiare quanto poco indagato. Si propone qui una ricostruzione ancorché parziale della vicenda sarda prendendo le mosse dagli schemi interpretativi e dagli inquadramenti storici sul movimento nonviolento e antimilitarista nell’Italia del Novecento.
Uno studio di Amoreno Martellini (2006) propone una prima definizione terminologica e concettuale. L’espressione “pacifismo” – osserva Martellini – indica una disposizione generica alla pace che non necessariamente contiene il significato di nonviolenza e antimilitarismo: «I Partigiani della pace, la più importante organizzazione pacifista sorta in Italia dopo la fine della seconda guerra mondiale» ad opera del Pci, che vide tra i suoi principali promotori il leader comunista sardo Velio Spano, non contemplava tra le sue «opzioni di fondo né quella nonviolenta né quella antimilitarista». Allo stesso modo buona parte del pacifismo di orientamento cattolico non aveva difficoltà a schierarsi a favore delle “guerre giuste” e delle gerarchie militari. «D’altra parte – continua Martellini – se la nonviolenza deve per forza di cose contenere l’antimilitarismo, l’antimilitarismo, inteso come opposizione alla istituzione militare, non necessariamente deve fondarsi sulla scelta nonviolenta».
Il movimento pacifista dei comunisti che fu capace di coinvolgere milioni di italiani, giovani, donne, intellettuali, anche al di fuori dell’alveo della sinistra, attorno ai temi dell’antimperialismo e dell’antiamericanismo e contro il nucleare atlantico, fu pienamente operativo sino al 1956. La pace era a tutti gli effetti utilizzata come un’arma ideologica nell’ambito dello scontro planetario della Guerra fredda e delle contraddizioni aperte soprattutto dopo lo scoppio del conflitto in Corea nel 1950. In contrapposizione al movimento delle organizzazioni di sinistra si schierò un pacifismo di matrice cattolica monopolizzato dalla Democrazia cristiana. L’egemonica mobilitazione partitica attorno al messaggio pacifista portò a una marginalizzazione dei gruppi di donne e uomini indipendenti, nonviolenti o antimilitaristi radicali, che, pur ispirandosi a solide tradizioni come il pensiero tolstoiano o quello anarchico e socialista dei primi del Novecento, non contavano su adesioni di massa (Scarantino, 2006; Moro, 2012).
Altri fattori di isolamento delle istanze nonviolente e antimilitariste nell’Italia del secondo dopoguerra sono riconducibili all’atteggiamento repressivo dello Stato soprattutto nei confronti dell’obiezione di coscienza e all’avversità della Chiesa cattolica, sino al Concilio Vaticano II. In proposito si richiamano gli episodi di obiezione di coscienza al servizio di leva obbligatorio in Italia alla fine degli anni Quaranta e la conseguente reazione delle istituzioni militari. Insieme ai casi di Rodrigo Casello, cuneese, e di Enrico Ceroni di Casale Monferrato, processati e condannati rispettivamente nel 1947 e nel 1948 (il primo, pentecostale, fu amnistiato, mentre al secondo, testimone di Geova, fu concessa la sospensione condizionale della pena) si annovera Pietro Pinna, ragioniere di origini sarde, condannato anch’egli a più riprese dai tribunali militari a diciotto mesi di carcere per il reiterato rifiuto supportato da ragioni politiche di svolgere il servizio di leva. Fu infine congedato a causa di una improbabile “nevrosi cardiaca”. La sua vicenda fu raccolta dalla stampa ed ebbe anche una eco internazionale ma né la politica né la Chiesa cattolica accolsero favorevolmente la scelta della disubbidienza civile. Nel 1950 una delle prime voci critiche autorevoli si levò proprio dal mondo religioso vaticano. Dalle colonne de «La Civiltà Cattolica» fu il teologo gesuita Antonio Messineo a difendere «il dovere morale per il cattolico di ottemperare alla coscrizione obbligatoria». Bisognerà attendere i primi anni Sessanta per assistere all’affermazione di una nuova generazione di militanti e a una diffusione della coscienza pacifista, nonviolenta e antimilitarista anche sull’onda delle successive rivolte giovanili globali di fine decennio. Le proteste contro l’installazione degli euromissili a Comiso dell’81 segneranno un’altra grande impennata della partecipazione popolare.
Espropri e missili
La vicenda sarda in parte si intreccia con il corso dei movimenti a respiro nazionale, in parte – come accennato – assume dei caratteri specifici che si svilupperanno nel contesto sociale e politico della realtà isolana. La destinazione di area addestrativa e di servizio viene assegnata all’isola nell’immediato dopoguerra in ambito Nato e in virtù di patti tra il governo italiano e quello statunitense che reclama strutture militari per garantire la propria operatività nello scenario europeo e mediterraneo. Lo schieramento nazionale con il blocco occidentale comporta l’adeguamento alla sfera di influenza americana e a tutte le conseguenti politiche di difesa nel contesto ideologico del Patto atlantico e della guerra fredda determinate anche da accordi bilaterali. Uno di questi, tuttora soggetto a segreto di stato e che ha provocato effetti sull’isola, è il Bilateral infrastructure agreement, (Bia), del 20 ottobre 1954: «Secondo un autorevole commentatore, esso fu firmato dall’allora ministro italiano degli esteri Giuseppe Pella e dall’ambasciatrice Usa in Italia, Clara Booth Luce. Tra l’altro, esso stabilisce il tetto massimo delle forze Usa che possono stazionare in Italia. L’accordo è inoltre corredato di annessi tecnici, relativi alle singole basi». Tra queste, se ne individuavano due da istituire in Sardegna, nei territori di La Maddalena e di Cagliari (Ronzitti, 2007). L’isola è indentificata come territorio ideale dove allestire poligoni di tiro, impianti di telecomunicazioni, depositi di armi, munizioni e carburante secondo le strategie difensive sovranazionali dell’alleanza atlantica. Una sorta di retrovia in funzione del controllo del confine orientale. È in quest’ottica che a metà degli anni cinquanta iniziano ad essere operativi i poligoni di Quirra e di Capo Teulada, seguiti da Capo Frasca, tuttora in piena attività per addestrare esercito, marina e aeronautica alle missioni Nato out of area e per la sperimentazione di armamenti e di tecnologie militari e civili gestita anche da soggetti privati. «La possibilità di svolgere tali attività è particolarmente importante – scrive lo Stato maggiore della difesa – perché consente di mantenere un elevato livello di riservatezza minimizzando così il rischio che prove o cicli addestrativi su poligoni esteri potrebbero portare a una indesiderata dispersione di informazioni operative» (Direttiva sull’organizzazione, impiego e funzionamento del PISQ, SMD – L 014 – 27 febbraio 2003, p. VIII).
Nell’immediato dopoguerra, sull’onda delle iniziative del movimento dei Partigiani della pace e dell’Unione donne italiane, si svolgono anche in Sardegna diversi incontri sul tema del disarmo. Ma per registrare una prima significativa denuncia dell’impatto che l’istituzione delle basi militari ebbe sul territorio della Sardegna sarà necessario attendere il documentario di Giuseppe Ferrara, Inchiesta a Perdasdefogu (Italia, 1961). Il film – accompagnato dal brano contro la guerra di Italo Calvino, Cantacronache e Sergio Liberovici Dove vola l’avvoltoio? – inquadra il malcontento della popolazione di dieci paesi «da Villaputzu a Ulassai» interessati dalla installazione della base militare con le testimonianze dirette degli abitanti. L’esproprio delle terre, quello che Ferrara definisce un «avvenimento drammatico», è all’origine di una protesta corale raccolta dal regista. Un agricoltore di Perdasdefogu lamenta la distruzione del proprio raccolto a fronte della richiesta negata di indennizzi, il sindaco di Tertenia illustra le ricadute negative della presenza militare: quattromila ettari espropriati dove prima pascolavano cinquemila capi di bestiame e dai quali trovavano sostentamento centoventi famiglie. Efficace è la descrizione che Ferrara presenta dei vigneti impiantati dalla cooperativa agricola fondata a Jerzu nel 1953 con duecento soci e ora ridotta a sessantacinque lavoratori: centotrentotto ettari di terreni avuti in affitto dissodati, sessantamila metri cubi di pietre trasformati in muri e accantonamenti, strade, acquedotti, vasche, ponti e tubi catramati per 2.600 metri costruiti, dodici case agricole edificate. Sette anni di lavoro e mezzo milione di piante di vite che «solo ora – spiega il regista – stavano iniziando a portare i frutti, dovranno tornare deserto». Il lavoro di Ferrara si chiude con il racconto di un contadino che dichiara di aver visto un missile fuori controllo precipitare nel suo terreno. Il 13 gennaio 1961 – di contro – il quotidiano «L’Unione Sarda» proseguiva quella che sarebbe diventata una lunga serie di servizi dedicati alla base con l’articolo intitolato: «Lanciato il primo razzo italiano da un poligono della Sardegna. Riuscito esperimento nella base Perdasdefogu».
La marcia di Capitini
Le espressioni di una coscienza pacifista e antimilitarista in Sardegna nei primi anni sessanta non potevano che essere guidate e organizzate anche dall’azione di un leader della levatura di Aldo Capitini, docente di pedagogia all’Università di Cagliari dal 1956 al 1965. L’intellettuale perugino promosse nell’isola una consulta per la pace, un movimento giovanile di azione e un movimento contro le basi militari accompagnando le sue iniziative con frequenti interventi sulla stampa – per esempio su «Rinascita Sarda» e su «L’Unione Sarda» – e con occasioni di confronto pubblico. La Marcia della pace per la fratellanza dei popoli che si svolse il 13 maggio 1962 nel capoluogo isolano, rappresentò uno dei momenti culminanti dell’attività del pensatore in Sardegna, come ha sottolineato Elisa Nivola (2006): «Migliaia di persone convenute a Cagliari da tutta l’isola […] diedero vita a una civile manifestazione, esprimendo in una mozione conclusiva l’adesione a un piano per la pace e chiedendo la riduzione progressiva delle spese militari e delle armi convenzionali, l’eliminazione di tutte le basi missilistiche, la distruzione delle armi atomiche, l’istituzione di un servizio civile per i giovani […]» .
Un’isola per i militari
Sul finire degli anni sessanta iniziano a circolare anche attraverso la stampa e gli editori italiani gli scritti di uno dei principali artefici della diffusione delle istanze antimilitariste sarde. Si tratta di Ugo Dessy, insegnante di Terralba, libertario, particolarmente attivo nelle iniziative di educazione popolare. Il 4 novembre del 1969 a Milano, a margine del congresso del Partito radicale, si tiene uno dei primi incontri nazionali del movimento antimilitarista al quale Dessy presenta un contributo sulla realtà sarda: «La sua relazione documentò per la prima volta il processo di militarizzazione del territorio sardo: fu pubblicata da Umanità Nova, giornale con il quale Dessy collaborò per due anni», ricorda «“A”-Rivista Anarchica» del 1 febbraio 1984. Il volume Sardegna un’isola per i militari, pubblicato nel 1972 da Marsilio editori, fornisce una mappa dettagliata di tutte le installazioni della Difesa nell’isola: «Il Salto di Quirra, Perdasdefogu; l’isola di Tavolara; l’arcipelago de La Maddalena; Decimomannu e Serrenti; Capo Frasca; Capo Teulada; Cagliari e adiacenze; Orgosolo, il poligono di Pratobello». La Sardegna deve sopportare un peso di strutture militari spropositato che non ha eguali nel resto del paese e tale carico costituisce una delle cause del mancato sviluppo del territorio. Questa consapevolezza fornisce uno degli argomenti centrali alle tesi antimilitariste isolane.
«Le strutture militari rappresentano un condizionamento negativo e un limite opprimente dello sviluppo sociale ed economico delle comunità in cui sono insediate e un condizionamento dello sviluppo dei diritti civili e delle strutture democratiche», scrive l’insegnante, «Ma per la Sardegna – e soprattutto per la Sardegna d’oggi – il discorso diventa particolarmente illuminante, giacché – venuta meno quella caratterizzazione dell’isola, rappresentata dalla inaccessibilità geografica e dalla malaria – la regione è diventata la zona prediletta per gli insediamenti militari e per le sperimentazioni non solo degli strumenti bellici, ma delle strutture e dei rapporti tra società civile e potere militare».
Il capitolo conclusivo del volume di Dessy non a caso è dedicato alla “rivolta di Pratobello”. Altro episodio simbolico della protesta antimilitarista sarda che distilla molti dei significati politici delle lotte identitarie e popolari verso l’imposizione esterna. Sull’onda di una forte opposizione contro «l’arroganza del potere centrale e della Regione, quale suo braccio cagliaritano» e nel caso delle aree interne, contro la condizione di una «provincia amministrata in armi», scrive Eliseo Spiga (1982), esplode una contestazione spontanea al tentativo di istituire un poligono di tiro della brigata Trieste nei pascoli di Pratobello alla quale partecipa tutto il paese di Orgosolo. Queste manifestazioni di conflitto «avevano sì un respiro internazionale e un riferimento al sessantottesco maggio francese, ma anche un aggancio evidente con la specifica realtà sarda».
Tra gli anni settanta e ottanta si registreranno nell’isola altre importanti iniziative di base che favoriranno anche la diffusione dei temi antimilitaristi. Nel 1972 nasce la Comunità di Sestu che prende il nome del comune nei dintorni di Cagliari dove si insediò. Un gruppo proveniente dell’esperienza di Capodarco di Fermo per l’integrazione sociale dei diversamente abili, fondò così anche in Sardegna una realtà che ha contribuito in maniera determinante alla diffusione della cultura di pace. Dal 1974 accolse i primi obiettori di coscienza al servizio militare e in seguito divenne sede regionale della Loc (Lega obiettori di coscienza). Nel 1981 a Barrali, un piccolo centro della provincia Sud Sardegna, il militante anarchico Tomaso Serra diede vita a un’esperienza unica nell’isola, il centro di documentazione sulla storia dei movimenti anarchici, libertari, operai e rivoluzionari, Arkiviu-bibrioteka de kurtura populari, intestato poi allo stesso Serra dopo la sua scomparsa nel 1985. La grande mobilitazione contro l’installazione degli euromissili a Comiso del 1981 consentì ulteriori spinte associative come il Movimento antimilitarista sardo.
Il nucleare nell’arcipelago
La concessione nel 1972 dell’approdo per sommergibili nucleari della VI flotta Us Navy nell’isola di Santo Stefano, nell’arcipelago de La Maddalena, si fonda sul già citato Bilateral infrastructure agreement, accordo tra i governi statunitense e italiano (Nixon e Andreotti) mai sottoposto alle Camere e privo di alcuna ratifica del Quirinale, viene considerato da molti giuristi un atto nullo e non conforme alla Costituzione repubblicana che esprime il principio fondamentale del ripudio alla guerra di aggressione (Onorato, 1994). L’installazione militare – che dal 26 gennaio 2008 non ospita più la Us Naval support activity – non solo rappresentò la violazione della sovranità interna e di un delicato equilibrio ambientale, ma fu al centro di numerose denunce, sospetti e dispute sul rischio di inquinamento radioattivo nelle acque della zona (Cortellessa, 1990; Aumento, 2005). Servizi giornalistici e interrogazioni parlamentari riportarono diverse testimonianze su casi di cranioschisi e di anencefalie registrati dal 1976 al 1988 (Mannironi, 2004).
L’assenza di informazioni, di indagini e strumenti adeguati e soprattutto di trasparenza da parte delle autorità della Difesa (sia italiana sia statunitense) trincerate dietro al segreto militare (soprattutto riguardo alle caratteristiche di armamento e propulsione nucleare dei cosiddetti Hunter killer), ha portato a uno stato di sospensione di essenziali diritti come quello alla tutela della salute. Gli stessi americani dedicavano molta attenzione alla diffusione delle notizie sul pericolo nucleare a La Maddalena. Lo attesta questo resoconto molto dettagliato di un press tour alla base con una interessante rassegna stampa commentata, documento del 25 maggio 1976, spedito dalla struttura diplomatica americana in Italia e ricevuto dal Bureau of european and eurasian affairs del Dipartimento di stato Usa, pubblicato ora su Wikileaks. A proposito di segretezza, è indicativa altresì la nota interna che l’ambasciatore statunitense Ronald Spogli redasse il 7 luglio del 2008, e che fu resa pubblica sempre attraverso Wikileaks, dove il diplomatico suggeriva di rifiutare la richiesta del governo italiano di desecretare il Bia (Olianas, 2011).
La presenza statunitense intensificò le forme di protesta anche a livello nazionale, prendendo le mosse dalle prime manifestazioni del novembre del 1972 della Fgci e di altri gruppi giovanili dei partiti, passando per la marcia internazionale degli antimilitaristi che si concluse a La Maddalena nell’estate del 1976, per numerose iniziative organizzate dal Partito radicale, da Lotta continua, dal Comitato per la pace, come quella del 22 dicembre del 1984. Saranno diverse le incursioni di Greenpeace e nel 1988, due anni dopo il disastro di Chernobyl, si avvieranno le procedure per l’espletamento di tre referendum contro la presenza nucleare militare poi sospesi il 22 novembre e bocciati l’8 marzo 1989 dalla Corte costituzionale. Questa circostanza porterà a importanti mobilitazioni popolari come la manifestazione a La Maddalena del 10 dicembre 1988.
(continua)
Fonte: Storie in movimento
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