Universalismo come pluralità delle vie

Enrico Peyretti

Pier Cesare Bori, Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, pp. 217, € 15,00

La nonviolenza e l’universalismo spirituale

Pier Cesare Bori (scomparso il 4 novembre 2012), docente di filosofia morale, studioso della nonviolenza, ha ricercato e praticato – con la presenza assidua di insegnamento e di rapporto umano, sia nell’Università sia nel carcere di Bologna, specialmente con i detenuti immigrati – un intenso lavoro di individuazione degli elementi comuni alle diverse vie spirituali (culture, religioni, etiche) dell’umanità. Ha percorso la storia morale dell’umanità, con ampia informazione e riflessione sulle espressioni più varie delle sapienze umane.

In questo libro del 2004, Universalismo come pluralità delle vie, raccogliendo tredici suoi saggi, Bori ricapitolava il percorso, fino a quel momento, della sua ricerca. Nel libro autobiografico postumo (CV, curriculum vitae, Ed Il Mulino 2012), egli dice che il libro sull’Universalismo, con alcuni altri successivi, è «espressione di una fiducia ritrovata, che mi spinge a intuire, o almeno a suggerire strade nuove».

Nel secondo saggio, che dà il titolo al libro, l’Autore propone un modello interculturale, già abbozzato altrove, che trae dalla Bhagavadgîtâ, il libro chiave dell’induismo, amato da Gandhi, che ne faceva il proprio vangelo. Questa tradizione distingue, nella vita spirituale: contemplazione, azione, devozione.

La devozione – culto personale o fede in un Dio, insomma una rappresentazione religiosa di ciò che “sta per” la divinità «intesa come potenza distinta essenzialmente dal mondo, ma non separata da questo quanto a realtà ultima» – è un possibile, non necessario complemento di azione e contemplazione.
Bori ne trae uno schema quadripartito (p. 38 e ss.):

1 con rappresentazioni religiose 2 senza rappresentazioni religiose
A contemplazione A 1 A 2
B azione B 1 B 2

1 = religione, che comporta trasformazione etica di sé e del mondo
2 = ricerca intellettuale, non religione, ma produttrice di impegno pratico

Ogni cammino spirituale umano sembra poter essere ricompreso in questo paradigma. Qui “spirituale” è più ampio di “religioso” e include anche «quegli orientamenti etici e contemplativi che non implicano una fede in una divinità personale» (p. 39).

Sulla scorta di Albert Schweitzer, Bori individua la contemplazione come «atteggiamento “monistico”, volto a contemplare – teologicamente o filosoficamente – la realtà come necessaria, senza divaricazione tra essere e dover essere»; e individua l’azione come «l’atteggiamento “dualistico” di chi, assumendo la divaricazione tra essere e dover essere – il male! – si assume anche il compito di superarla nella prassi, sia essa motivata religiosamente, sia essa un’etica laica» (p. 40-41).

Le diverse vie spirituali e religiose dell’umanità si differenzierebbero per l’accentuazione dell’uno o dell’altro aspetto – contemplazione e azione – non per la presenza o assenza dell’uno o dell’altro.

Così, induismo e buddhismo (questo con origine in A2: contemplazione non religiosa) coprirebbero attualmente le quattro possibilità. Confucianesimo e taoismo si collocherebbero rispettivamente in B2 e A2 (azione e contemplazione non religiose). I monoteismi biblico e coranico nascerebbero in B1 (azione religiosa), ma, p. es. il sufismo spazierebbe tra A1 e A2 (contemplazione religiosa e non religiosa), e la sapienza biblica (aspetto diverso da quello profetico) spazierebbe tra B1 e B2 (azione religiosa e non religiosa).

Nella Bibbia e nel Corano, Bori distingue un aspetto profetico da un aspetto sapienziale: l’appello profetico autoritario (pro-fezia significa parlare “al posto di altri”, e questo ethos profetico sarebbe il carattere originario dei monoteismi) contiene nel suo centro stesso «una sostanza di razionalità etica», cioè di sapienza, in quanto «esige una corrispondenza necessaria tra il culto di Dio e la giustizia verso gli uomini» (p. 53). Si può leggere Isaia 1,11-17; Giovanni 4,23 e ss.; Corano 98,4 e ss.; 2,172.

Questi impegni etici sono richiesti anche dalla sapienza egizia, dalla razionalità etica ellenistica, dalla cultura religiosa del Medio Oriente cristiano e persiano. C’è una sapienza etica prima e dopo le rivelazioni profetiche. La novità degli appelli profetici è che la divinità stessa si impegna a fare ciò che esige dagli uomini. Ciò non impedisce, ma semmai richiede che la parola profetica sia elaborata nel suo contenuto razionale immanente. Questo processo comincia nella Bibbia stessa e continua nella teologia, nella filosofia religiosa, nella stessa mistica. Max Weber parla del «grandioso razionalismo etico che scaturisce da ogni profezia religiosa» (p. 55).

Il modello monoteistico comporta un duplice dinamismo: quello che spinge verso la traduzione della profezia in sapienza etica; quello delle potenzialità ulteriori dell’ispirazione profetica che ritorna e si rinnova nel tempo.

La versione sapienziale etica della profezia tende all’universalismo interculturale, mondano, secolare, della regola etica enunciata in un determinato contesto profetico religioso. Anche Pico della Mirandola, acutamente studiato da Bori (Pluralità delle vie. Alle origini del Discorso sulla dignità umana di Pico della Mirandola, Feltrinelli, Milano, 2000), rintraccia un paradigma universale, reperibile in ogni tradizione a lui nota, che costruisce la “dignità dell’uomo”: trasformazione etica (azione); ricerca intellettuale (contemplazione); identificazione con la Realtà ultima (religione). I percorsi umani avrebbero dunque un parallelismo non contenutistico ma strutturale, che permetterebbe una convergenza finale e, intanto, un sostanziale consenso etico (pp. 43-44).

Ora, riferendo alla ricerca della nonviolenza queste riflessioni, a me pare che la nonviolenza sia sicuramente un atteggiamento e un orientamento che coinvolge progressivamente la persona in profondità. Infatti, non basta, nell’esperienza, un atteggiamento strettamente pragmatico, proprio perché la nonviolenza è confrontarsi col male, nulla di meno; anzi, essa nasce proprio dal confronto col male-violenza (cfr Jean-Marie Muller, Aldo Capitini; vedi gli “esperimenti con la verità” di Gandhi e di ogni grande lottatore nonviolento).

La nonviolenza è dunque una via spirituale; è anche contemplazione (riflessione, ricerca, individuazione del “bene” umano); è azione (riforma di sé, riforma di strutture e culture); non è necessariamente religione in quanto esplicita “rappresentazione” religiosa, ma l’esperienza religiosa, sollecitata dalla nonviolenza a purificarsi da scorie di cultura violenta, contribuisce ad ispirare ricerca e azione, nei termini sapienziali razionali, sul terreno comune di ogni autentico cammino di liberazione.

 

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