Trasformazione del conflitto come modalità di vita

Johan Galtung

Da un saggio scritto nel 1968, “Conflict as a Way of Life” [conflitto come modalità di vita] [i]:

“Se non si può rimuovere un conflitto, perché non aggiustare il proprio pensiero al riguardo? Perché non cercare di vedere il conflitto come il sale della vita, il poderoso energizzante, il rompicapo, tantalizzante, che sfida, anziché una gran seccatura, rumore in un audio perfetto, increspature fastidiose in acque altrimenti calme? In breve, perché non trattare il conflitto come una forma di vita, tanto più sapendo tutti che è appunto durante la nostra vita che siamo esposti a un conflitto che ci sfida davvero, e che quando siamo finalmente in grado di padroneggiarlo che ci sentiamo più vivi che mai”.

Il saggio prosegue esplorando “una scienza della conflittologia” (questo libro ne è un tentativo); “come materia scolastica che enfatizza “la risoluzione delle incompatibilità soggiacenti” (Il progetto SABONA è un tentativo in tale direzione); la “partecipazione al conflitto” (importante nel 1968, pur se oggi quasi ovvia); la “democratizzazione della gestione del conflitto” (potrebbe essere migliore , anche superando l’elitismo nella mediazione); “l’apprezzamento del conflitto – se abbiamo il coraggio e la maturità di affrontare la sfida e goderne”.

Maturità e sfida competono da ultimo all’individuo. E l’esposizione al conflitto generalmente aumenterà. Le associazioni richiedono accesso alle persone, la società nazionale penetra nelle associazioni, la società globale quelle nazionali. Non è quasi possibile ritrarsi da quanto avviene a livello mega, macro e meso nel mondo d’oggi, dati i mezzi di comunicazione e di trasporto – e può darsi che ne siamo appena all’inizio. Ritrarsi insieme ad altri – in una comunità locale aconflittuale, una vicinanza territorialmente chiusa – giocherebbe un ruolo.

Ma così pure l’esposizione all’enorme diversità della condizione umana, come le varie fasi della vita che proviamo tutti. La cultura si aprirebbe a nuovi valori anche quando siano soddisfatti i bisogni e gli interessi basilari. Chiuderemmo anche quella finestra? Ci sarebbero comunque forze e controforze finché siano presenti esseri umani, Allora chiuderle fuori, optando per uno stile eremitico? Non sarebbe solo in-umano ma anti-umano. Una dialettica, un dinamismo, interiore, staccata da una dialettica esterna, è solo per pochissimi.

Il conflitto è il nostro destino. Come lo sono i microrganismi, allora meglio imparare a maneggiare tali situazioni. L’esporsi al conseguimento di obiettivi bloccati dal conseguimento di altri obiettivi si può superare se la nostra capacità di resistenza è sufficiente, come un’infezione si può superare con il sistema immunitario. Ma, se il conflitto è (quasi) identificato con la violenza il più di quella capacità di resistenza viene perso in un sforzo altrimenti lodevole di ridurre la violenza. Va persa la sfida di trascendere, andare oltre, a tutt’e quattro i livelli, in quanto a crescita umana, sociale, regionale, globale.

Ovviamente possiamo trascendere senza conflitto. Magari abbiamo un obiettivo ma non i mezzi; un problema, dunque. Possiamo applicarci la nostra creatività umana: Einstein, Picasso. Ma il conflitto ci aggiunge, come vettori, la dinamica di almeno due ricerche incompatibili degli obiettivi; prego attenzione al qui e ora. Avendo come obiettivo un master e tempo, denaro e lavoro sodo ci si arriva, Avere come obiettivo uno studio congiunto per un affetto condiviso e si rende magari necessario un quantum di empatia e creatività.

Sicché, stiamo faticando nelle nostre società per rendere compatibili obiettivi legittimi di crescita e distribuzione, compreso con la Natura. La soluzione comoda è l’indolenza: mirare a uno solo di tali obiettivi; attori così esistono. Ma mirare a entrambi ha condotto al social-capitalismo, i modelli giapponese e cinese; non perfetti, ma innovativi, e poi altro è in pentola. La politica è l’arte dell’  impossible; altrimenti non è altro che tecnologia.

Stiamo inoltre faticando in un mondo con [confronti] nord-sud e occidente-islam. Comodo sarebbe, di nuovo, mirare a un solo corno di questi dilemmi. Ma l’altro corno non svanisce, siamo agganciati, vuoi a un ordine, o disordine, mondiale o nazionale.  Affrontiamola di petto, niente pigrizia, dai!

Usando le incompatibilità, le contraddizioni, con l’energia per attingervi che ci dà la sfida. Facendo progredire la storia? Dipende, non si presenta con garanzie, salvo la promessa daoista che si profilano muove contraddizioni. L’energia non spesa si può destinare alla prossima contraddizione.

Il punto sta nell’equilibrio fra la Scilla dell’apatia, cedere semplicemente a qualche o-o, e la Cariddi di combattere l’alternativa con l’energia conflittuale negativa. ma così non è esigere troppo da poveri esseri umani? Non proprio, ci sono ampie gratificazioni. Non solo l’ottenere un diploma, ma col proprio affetto; godere i frutti sia della crescita sia della distribuzione; l’avere regioni arricchisce gli uni e gli altri, a doppio senso, non solo unico, aprirsi alla saggezza di due, tre, molte religioni. Che cosa potrebbe gratificare di più una volta usciti alla trappola dell’o-o?

Ma c’è un intoppo: può essere duro lavoro; e difficile. Perché dovrebbe essere facile? Chi ha detto che tali frutti e-e, l’una e l’altra cosa siano serviti sul piatto gratis? Non è tuttavia necessario avre assorbito criticamente queste pagine, o libri analoghi. Piuttosto, la cosa si reduce a una semplice essenza, prendere “cinque” [precetti] dall’islam e il termine “comandamento” dal cristianesimo.

Per la trasformazione del conflitto come modalità di vita, oltre tale attitudine si considerino dunque questi cinque comandamenti:

  1. Cercate di vedere un conflitto dall’alto: gli attori, i lor obiettivi, i loro modi di perseguirlit, i loro scontri. Voi compresi. Potete aver bisogno di aiuto esterno.
  2. Cercate di essere equanimi. Cercate di vedere voi o il Vostro altro versante altrettanto chiaramente di quanto vedete gli altri. Anche qui potete aver bisogno d’aiuto.
  3. Il test di legittimità: siate giudicanti su obiettivi e modalità di conseguimento, fini e mezzi, compresi i vostri: che cos’è legittimo – legale, compatibile con i diritti umani, con i bisogni umani basilari – che cosa non lo è?
  4. Guardate tutti quegli obiettivi e relative modi di conseguirli e mettete all’opera la vostra creatività combinata/sinergica: quali sono i cambiamenti minimi necessari per una visione convincente, con il massimo accoglimento di tutti gli obiettivi legittimi?
  5. Attuate quella visione. E se non funziona, tornate al punto n° 1. Riprovate; ancora … e ancora… La chiave sta nella perseveranza.

Se funziona, affrontate il successivo conflitto della fila. Cominciate con voi stessi, i vostri dilemmi, poi le vostre dispute coniugali, in famiglia, a scuola e al lavoro, coi vicini; in cerchi sempre più ampi. Fate sentire la vostra voce empatica, nonviolenta, creativa in àmbito sociale, globale. E siete così parte di una cultura mondiale di trasformazione pacifica dei conflitti.

Nota:

[i]. Capitolo 15, Johan Galtung, Peace and Social Structure, Essays in Peace Research, Vol. III, Copenhagen: Ejlers, 1978, pagg. 484-507 (v. http://www.transcend.org/tup/); presentato alla Sessione Plenaria della Federazione Mondiale per la Salute Mentale, 7° Congresso Internazionalw, Londra, 16 agosto 1968. Sento ancora il calore di Margaret Mead dopo la sessione; questo era il suo genere di cose tipico!

Questo è l’Epilogo del libro A Theory of Conflict, TRANSCEND University Press, 2010. Originariamente pubblicato il 21 giugno 2010 – #117


EDITORIAL, 26 Feb 2024

#837 | Johan Galtung – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


 

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