Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza

Massimiliano Fortuna

Raoul Pupo, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. XVI, 297, € 20,00

La copertina del libro

Sin dal momento della sua istituzione, come si sa, il Giorno del ricordo ha suscitato dispute e contrapposizioni. Forse in quello appena celebrato quest’anno l’eco delle polemiche è stata più contenuta e i toni meno aspri, purtroppo però la radicalizzazione ideologica in quest’ambito, come in molti altri, del resto, ogni volta si ripresenta immancabile, perché di continuo si ascoltano voci che di tali fatti si servono con l’evidente scopo della propaganda politica e non della comprensione storica.

Da un lato, ad esempio, eventi gravi e drammatici, quali sono indubbiamente stati quelli delle foibe, vengono equiparati a un fenomeno come la Shoah, la cui natura genocidiaria fu certamente altra cosa rispetto alle violenze del confine orientale; dall’altro lato, per contro, da parte di alcuni si attua una minimizzazione di crimini di guerra che non possono esser solo messi in conto alla categoria della “giustificata reazione” rispetto a una precedente oppressione.

Come sempre, per provare a uscire dalle contrapposte semplificazioni occorre guardare a libri che affrontano in modo storico-critico un contesto articolato come quello relativo al territorio dell’Alto Adriatico. Questo libro di Raoul Pupo assolve certamente a tale compito, innanzitutto perché, rispetto alle foibe e all’esodo, ci propone uno sguardo che, con una sorta di carrellata all’indietro, allarga il nostro campo visivo e ci offre una prospettiva panoramica, un quadro più ampio: sia in senso temporale, dal momento che prende le mosse dalla fine dell’Ottocento, sia in senso spaziale, perché si esce dal punto di vista della storia di un singolo stato nazionale.

Quello che ne viene fuori è una mappa capillare, e mi pare sufficientemente esaustiva, della violenza che ha attraversato quelle terre: terre di confine, nelle quali il mondo latino, quello germanico e quello slavo si incontrano, in un contatto che può essere, e in parte è stato, generatore di ricchezza – poiché la pluralità linguistica, culturale, religiosa è certamente una possibile fonte di ricchezza –, ma ha prodotto anche un urto capace di suscitare contrasti violenti.

E dunque «l’intreccio di rivalità nazionali, sociali, ideologiche e statuali non si è limitato a generare esplosioni isolate di violenza, quanto piuttosto ha determinato, a partire dalla Grande Guerra sino al termine degli anni ’50, una continua e pervasiva presenza della violenza politica, se pur con fasi ed intensità diverse». Insomma, le terre adriatiche «hanno costituito per tanti aspetti un laboratorio delle esperienze politiche estreme del ’900», perché «ebbero in sorte di provare in rapida successione alcune forme di dominio tra le più brutali fra quante popolarono il secolo breve: fascismo, nazismo, comunismo».

È in quest’ottica complessiva e in questo quadro d’insieme che sarebbe bene provare a guardare alla vicenda delle foibe, se l’intento fosse quello di comprenderla senza volerne fare un qualsivoglia uso strumentale e scollegato dal contesto restante. Una vicenda la cui violenza, secondo Pupo come secondo molti altri storici del tema, non può essere qualificata come violenza genocida, che è stata sì presente «nelle propaggini locali della Shoah, ma non invece all’interno dei contrasti pur durissimi fra movimenti nazionali e politici».

A questo riguardo Pupo aggiunge alcune considerazioni decisive: «lo so bene, alcune memorie non la pensano così: s’interroghino parenti d’infoibati, sopravvissuti ai campi d’internamento fascisti ovvero esuli costretti a lasciare casa e terra ed affetti e spesso nelle risposte la dimensione genocidiaria delle violenze cui sono stati sottoposti verrà data per scontata. La ricerca storica, peraltro, di fonti ne usa tante e non si limita a riprodurre i ricordi, pur rispettando in massimo grado la loro soggettiva verità».

La memoria non è la storia, giustamente gli storici ce lo ricordano spesso, il che non significa che le memorie, tutte le memorie, non vadano tenute presenti e prese in considerazione, in vista non della costruzione di una “memoria condivisa”, che suona come un artificio forzato e un po’ retorico, ma del difficile quanto indispensabile tentativo (questo, e nulla di meno, sarebbe l’alto compito della politica) di riconciliazione delle molteplici memorie coinvolte. Nella loro diversità tutte queste memorie hanno in comune il fatto di essere la, più o meno diretta, testimonianza di un dolore. Questo dolore va ascoltato: sia che si tratti del dolore di chi è stato soltanto vittima, sia, oserei direi, che si tratti del dolore di chi prima di diventare vittima era stato carnefice.


 

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