Una nuova Nakba? Intervista ad Arturo Marzano

Daniela Patrucco

Perché 400.000 persone, a rischio delle morte, esitano a raccogliere l’invito di Israele ad evacuare il nord della Striscia di Gaza spostandosi verso sud? Si tratta di terroristi o sostenitori di Hamas vocati al martirio o c’è la possibilità che si stia assistendo a una nuova Nakba? Cioè, che chi rimane non voglia correre il rischio di non poter più ritornare, come nel 1948 quando i circa 700.000 palestinesi fuggiti da Gerusalemme non sono più potuti rientrare nelle proprie case? C’è la possibilità che la parte nord della Striscia sia in seguito annessa o riportata sotto il controllo israeliano e che, come accaduto nel 1948 agli attuali arabi israeliani di Gerusalemme, solo gli abitanti della Striscia rimasti e sopravvissuti potranno continuare a viverci?

Da queste domande spontanee, ma infine anche giustificate dal contenuto di documenti ufficiali del governo israeliano, nasce la riflessione condivisa con Arturo Marzano, professore associato all’Università di Pisa dove insegna Storia del Medio Oriente e Storia delle relazioni internazionali.  Si occupa di storia del sionismo, dello Stato di Israele, del conflitto israelo-palestinese e dei rapporti fra Europa e Medio Oriente.

Professor Marzano, stiamo assistendo a una nuova Nakba?

Francesca Albanese, la relatrice speciale delle Nazioni Uniti per il Territorio Palestinese Occupato, parla di pulizia etnica in atto e molti la pensano in questa maniera. Io direi di prenderci del tempo perché per dare una definizione del genere è necessaria un po’ di distanza, anche storica.

Certamente da parte dei palestinesi c’è la percezione di una sorta di pulizia etnica in corso, dovuta soprattutto alla richiesta di Israele a circa un milione di persone di lasciare la propria casa, spostarsi al sud ed eventualmente andare da qualche altra parte, ad esempio nel Sinai, per tornare in seguito. Questa situazione ovviamente ricorda ai palestinesi sia la Nakba nel ’48 che la guerra dei sei giorni del ’67 ma in particolare rimanda a una memoria evidente del ’48.

Allo stesso modo, è fuor di dubbio che nella politica e nella società israeliana esistano persone e gruppi che desiderano il trasferimento della popolazione palestinese, tanto da parlarne apertamente. Si tratta di un tema che persiste all’interno del movimento sionista fin dalla fine dell’800, e che oggi circola ancora più di prima in Israele. Tuttavia, per dire che il governo israeliano ha in mente scientificamente la pulizia etnica secondo me occorrono del tempo e delle prove. In futuro gli storici potranno esaminare le minute dei meeting dei gabinetti di guerra e stabilire appunto la verità storica.

In questo momento c’è la volontà israeliana di colpire Hamas duramente, provando a evitare i cosiddetti danni collaterali, cosa peraltro impossibile a Gaza per via della densità di popolazione che vi risiede. É dunque possibile che il governo israeliano consideri l’idea di spostare la popolazione palestinese come un modo per proteggerla. Credo che la cosa migliore sia sospendere il giudizio e tornare su questi eventi in futuro.

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La popolazione è invitata ad andare a sud: quale sud, posto che le frontiere con l’Egitto sono chiuse?

Ci sono due aspetti fondamentali. Il primo è che la Striscia di Gaza occupa un’area di circa 365 km² con una densità di popolazione di oltre 5000 persone per chilometro quadrato. Spostarsi, dunque, è difficilissimo, se non impossibile. Al sud, peraltro, è in atto una crisi umanitaria, tra Khan Yunis e Rafah, il che rende molto difficile accogliere altre persone. In questo contesto, se non fosse drammatico, chiedere a un milione di persone di spostarsi farebbe quasi sorridere.

Il secondo aspetto riguarda un attore di cui pochi parlano, che è l’Egitto, che tiene chiuso il varco di Rafah. Perché? La risposta è complicata. Certamente perché al-Sisi, il Presidente, è fortemente contrario ad Hamas in quanto parte della Fratellanza Musulmana, suo nemico interno, e inoltre perché non vuole caricarsi di un problema umanitario accogliendo la popolazione nel Sinai, con conseguente destabilizzazione dell’area. Infatti, chi garantisce che non ci saranno attacchi dal Sinai verso Israele e risposte da Israele, un po’ come accade in Libano?

C’è poi un’altra questione, che riguarda la volontà dei Paesi arabi di pungolare Israele utilizzando i palestinesi, continuando a non soccorrerli tenendo così sotto scacco Israele. In realtà Israele non se ne occupa e gli accordi con una parte del mondo arabo dimostrano che né Israele né i Paesi arabi hanno interesse per i palestinesi. Questa, purtroppo, è tradizionalmente la posizione dei Paesi arabi, una posizione da condannare totalmente posto che coinvolge le sorti della popolazione civile. Israele certamente è responsabile ma l’Egitto è parte del problema e il suo ruolo deve essere considerato all’interno di una analisi onesta e lucida.

D’altra parte, immaginando che Gaza confinasse con l’Europa o gli Stati Uniti, questi sarebbero disposti ad aprire le loro frontiere sapendo che situazioni emergenziali si trasformano poi in campi profughi stabili e perenni?

L’Egitto ha anche una parte di ragionevole preoccupazione ma rimane prevalente la questione di Hamas, che l’Egitto vuole che venga annientato, e in questo c’è una sorta di neanche più tanto segreta intesa con Israele, così come con l’Arabia Saudita, grande sostenitore di al-Sisi contro la Fratellanza musulmana. Sull’altro fronte, la Turchia e il Qatar, che sono legati alla Fratellanza musulmana, sostengono Hamas.

La popolazione di Gaza avrebbe anche una terra dove andare e pronta ad accoglierli: la Cisgiordania. Se non vogliamo parlare di pulizia etnica, perché Israele non consente l’evacuazione verso la Cisgiordania?

Francesca Albanese definisce il suo mandato di relatrice speciale per il “Territorio Palestinese Occupato”, declinato al singolare, per sottolineare la volontà sua e di una parte ampia del mondo accademico, ma anche nel mondo politico e dell’associazionismo di rivendicare l’unità territoriale fra Gaza e la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est.

Il fatto che Israele dal ’91 abbia fatto in modo di separare Gaza dalla Cisgiordania è funzionale a indebolire il mondo palestinese e rendere più complicata la nascita dello Stato palestinese. Ma tra Gaza e la Cisgiordania esistono reti familiari, che contribuiscono a tenere unite le due terre. Ora, io non ho la minima idea di cosa sia successo dopo il 7 ottobre ma non escludo che qualcuno sia potuto fuggire e andare in Cisgiordania trovando un varco nella barriera che circonda Gaza. Credo quindi che una parte degli abitanti di Gaza vorrebbe andare in Cisgiordania, ma Israele non fa entrare né uscire nessuno e anche in Cisgiordania la situazione è molto complicata.

Un’ampia area della stampa e della società israeliana mette in luce il fatto che proprio in Cisgiordania sta avvenendo una espulsione vera e propria, ad esempio da alcune zone a sud di Hebron dove i coloni hanno a lungo aggredito i pastori e dove circolano volantini molto chiari e minacciosi per chi rifiuta di andarsene.

Quasi tutto il mondo considera Hamas un’organizzazione terroristica che governa Gaza in modo illegittimo. In quale misura è vero che quello di Hamas è un governo illegittimo?

Nel 2006 Hamas ha vinto le elezioni politiche in tutto il territorio palestinese, perché si votò tanto a Gaza quanto in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, stravincendo nei collegi uninominali e vincendo di poco nel proporzionale ma conseguendo alla fine la maggioranza assoluta dei seggi e il diritto a governare legittimamente. Di fronte al rifiuto di Hamas di accettare le condizioni di Stati Uniti e Unione Europea di riconoscere lo Stato di Israele, accettare il processo di Pace di Oslo e rifiutare la violenza, nessuno ha negoziato con Hamas e le tensioni tra Hamas e Fatah sono aumentate. Il governo che era stato creato nel 2006, formato da Hamas e Fatah, non era affatto radicale, vedeva al suo interno accademici e esponenti della società civile e meritava che la comunità internazionale lo considerasse un interlocutore.

Quel momento ha costituito uno spartiacque fondamentale nei rapporti fra Unione Europea e politica palestinese così come nei rapporti fra Fatah e Hamas. Quando il governo è caduto, a seguito di un tentativo di Fatah di forzare la mano in una situazione in cui il governo legittimo era di Hamas, c’è stato il golpe e la situazione è sfociata in una repressione molto dura dei sostenitori di Hamas in Cisgiordania e di quelli di Fatah a Gaza. Lungi da me difendere Hamas, soprattutto dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre, ma quello è stato un momento importante dove si è avuta l’ultima vera possibilità, forse anche per la soluzione di due Popoli due Stati.

Oggi Israele sta violando la Convenzione di Ginevra o dobbiamo aspettare una lettura storica per parlare di crimini di guerra?

Io non sono un giurista ma ritengo che non si debba aspettare il futuro perché il presente già ci dice che Israele non sta applicando il principio fondamentale della proporzionalità. Legittima difesa significa avere dei limiti nell’uso della forza. Israele aveva giustamente il diritto di proteggere sé stesso e quindi di rispondere con la forza, tutta la forza necessaria, per porre fine al massacro. Una volta fatto questo, e quindi riconquistata la sicurezza del proprio territorio, poteva rispondere agli ulteriori lanci di missili da parte di Hamas in maniera proporzionale.  Ma questo non sta accadendo.

La convenzione di Ginevra prevede che nessuna persona protetta possa essere punita per una trasgressione che non ha personalmente commesso. Pertanto, limitare la fornitura di cibo, di acqua e di elettricità a due milioni e duecentomila persone è un crimine di guerra. Bene comprendere il dolore della popolazione israeliana ma esiste un governo che è tenuto a rispettare la convenzione di Ginevra, che Israele ha ratificato nel luglio del 1951-

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Questo rimane un punto fermo anche in presenza di ostaggi naturalmente

È fuor di dubbio che anche Hamas stia violando il diritto internazionale: non si possono mai trattenere ostaggi, peraltro in molti casi si tratta di bambini piccoli o anziani. Tuttavia, anche in questo caso la risposta di Israele è esecrabile. Ci vuole onestà intellettuale nel riconoscere la gravità di quanto accaduto il 7 ottobre, condannando l’attacco terroristico di Hamas senza se e senza ma, ma anche la gravità di quanto sta facendo Israele: abbiamo assistito a tre settimane di bombardamenti diffusi, con oltre 10.000 morti, nel quasi silenzio della politica internazionale.


 

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