Perché pratico anch’io il boicottaggio accademico d’Israele

Jake Lynch

Quasi due terzi degli israeliani a favore di negoziati diretti e concreti fra il proprio governo e i dirigenti di Hamas. Qualche errore, per forza? Ebbene, no: questo era il risultato di uno sondaggio nel febbraio 2008 dell’Università di Tel Aviv. Neppure dieci mesi dopo, mentre si avviava l’Operazione Piombo Fuso, ai sondaggisti risultavano maggioranze perfino più alte, fino al 90% in certi casi, a favore della guerra contro lo stesso movimento Hamas nella Striscia di Gaza.

Tutti possiamo avere opinioni diverse, in alcuni casi persino contraddittorie sulla stessa questione. Che cosa ci colpisce maggiormente nei vari momenti, dipende dalle circostanze. In nessun altro luogo questa sindrome psicologica si trasforma più prontamente in realtà politica che in Israele. Parte del paesaggio interiore degli israeliani è teatro di atteggiamenti e disposizioni istituzionali noti come militarismo: non solo il possesso di e – da parte di molti – la partecipazione a una possente macchina militare, ma il ricorso a mo’ di riflesso a soluzioni militari quando quelle politiche paiano troppo complesse o rischiose.

Gli israeliani sono stati allevati a racconti di ingegnosità e ardimento dei loro soldati e avieri. L’incursione su Entebbe vide un coordinamento di commando liberare ostaggi israeliani dalla morsa di spietati dirottatori. Il salvataggio ripeté il successo di un’operazione analoga all’aeroporto di Tel Aviv quando delle forze speciali si fecero passare per meccanici, alla guida di Ehud Barak, attuale ministro della difesa d’Israele. La “guerra dei sei giorni” del 1967 si aprì con le risorse aeree arabe che venivano distrutte a terra mentre i generali egiziani faticavano ad arrivare in ufficio, dato l’accorgimento israeliano di attaccare durante l’ora di punta mattutina al Cairo.

Il ricorso all’uso della forza, perciò, ha assunto lo status di opzione automatica nelle relazioni di Israele con i paesi e i popoli vicini, offuscando e insidiando gli appelli alla pace. Un tempo gli antagonisti erano la Giordania, l’Egitto e la Siria. Successivamente si sono trovati nel mirino i libanesi e ovviamente i palestinesi. Tre principi di diritto internazionale dovrebbero governare il comportamento di Israele, poiché essi hanno lo scopo di contenere le reazioni di qualunque stato che si trovi in un conflitto.

Il primo è racchiuso nell’articolo 2, paragrafo 4, della Carta dell’ONU, che afferma che: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.” Questo significa che la guerra aggressiva – sparare per primi – è effettivamente bandita.

E’ stata una parte chiave della narrativa di Israele per il conflitto lo stabilire che l’Operazione Piombo Fuso era un atto di auto-difesa, avendo sostenuto uno sbarramento di razzi da Gaza. Intervistata mentre si avviava l’offensiva militare, il ministro degli Esteri Tzipi Livni disse alla seguitissima trasmissione della domenica mattina Meet the Press dell’NBC (il 28 dicembre 2008) che: “Circa mezz’anno fa, secondo l’Iniziativa Egiziana, abbiamo deciso di entrare in una specie di tregua e non attaccare la Striscia di Gaza … Hamas ha violato quotidianamente tale tregua, bersagliando Israele, e noi non abbiamo risposto”.

Tuttavia, un bollettino pubblicato dal consolato israeliano a New York City dopo l’inizio della tregua concordata con Hamas nel giugno 2008, diceva che il tasso di razzi e fuoco di mortaio da Gaza era calato quasi a zero rimanendo tale per quattro mesi consecutivi. Come fanno notare Nancy Kanwisher, Johannes Haushofer e Anat Biletzki nel Huffington Post, la tregua cessò il 4 novembre 2008 “allorché Israele uccise per prima dei palestinesi, che allora lanciarono razzi su Israele”.

Questa fu una storia persa dalla gran parte dei media USA, secondo un’indagine per l’Interpress service di Jim Lobe e Ali Gharib, i quali fecero osservare che “Mentre la principale agenzia  USA Associated Press (AP) riferì che l’attacco in cui sei membri dell’ala militare di Hamas erano stati uccisi da forze di terra israeliane minacciava la tregua, il suo rapporto fu ripreso solo da una manciata di giornaletti sparsi per il paese”.

“Anche il raid del 4 novembre – e l’escalation che ne seguì –  non fu riferito dai principali programmi televisivi USA, sia convenzionali che via cavo, secondo una ricerca sul database Nexis di tutte le notizie in lingua inglese fra il 4 e il 7 novembre.” Stephen Zunes dell’Università di San Francisco disse a Lobe e Gharib: “Sebbene nessuna delle due parti abbia mai rispettato del tutto le condizioni della tregua, l’incursione israeliana è stata di gran lunga la violazione peggiore, una enorme, abnorme provocazione; e mi sembra chiaro che fosse effettivamente intesa a far sì che Hamas rompesse la tregua”.

Il secondo principio vitale di diritto internazionale, di cui si è beffato Israele a Gaza, è la protezione dei civili nei territori occupati durante le operazioni belliche, come previsto dalla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949: “Le persone che non prendono parte attiva alle ostilità… saranno in ogni circostanza trattate umanamente”, con proibizione assoluta di “violenza contro ls vita e la persona”. Una conferenza speciale degli Alti Contraenti la Convenzione, tenuta a Ginevra nel 2001, affermava che tali disposizioni valevano effettivamente “nei territori palestinesi occupati, compresa Gerusalemme Est”.

L’obbligo generale di evitare danno ai civili vale altrettanto per Hamas, ovviamente, e i razzi che lanciano oltre la cinta in quel d’Israele sono per definizione armi indiscriminate. Le morti e le lesioni che causano sono anch’essi crimini di guerra, ma, data l’abissale disparità nel numero di vittime sui due lati, sarebbe grottesco se le accuse contro Israele non fossero il centro principale di qualunque indagine, tribunale o azione sociale. L’ONU ha criticato Israele per attacchi alle sue proprietà che hanno ucciso o ferito suo personale, e gruppi di osservatori internazionali hanno dato l’allarme per le centinaia di civili uccisi.

Il terzo principio qui implicato è l’inammissibilità generale di territorio acquisito con la forza. Le Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza ONU chiedono a Israele di ritirarsi dai territori occupati nel 1967, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel secondo caso, naturalmente, sono stati smantellati gli insediamenti ebraici illegali, benché Israele, controllando tuttora lo spazio aereo e lo specchio di mare antistante Gaza e uno dei suoi confini, sia ancora tecnicamente la potenza occupante.

Nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso il parere consultivo che il cosiddetto muro di sicurezza di Israele, che ha arraffato, diviso e reticolato ancora altro territorio palestinese, è illegale. La sentenza sancì sette obblighi distinti per gli altri stati, in particolare che essi riconoscessero l’illegalità della situazione, e si astenessero dal fornire aiuto o assistenza nel mantenerla.

In tutti questi modi, Israele è un trasgressore seriale del diritto internazionale. Ma l’eventualità di una effettiva riparazione attuata con l’utilizzo delle disposizioni istituzionali esistenti è tuttora remota. I governi ritengono di avere interessi che rendono sconveniente insistere sul punto, più che altro per la loro avversione a inquietare Washington, che si nomina arbitro in capo nel conflitto per ragioni forse apprezzate al meglio nell’espressione attribuita a Caspar Weinberger, ministro della difesa sotto Ronald Reagan: “Israele è la nave da guerra inaffondabile dell’America nel Medio Oriente”.

C’è allora una situazione di effettiva impunità legale. E se non si può esercitare alcuna disciplina legale per disincentivare il ricorso alla violenza, allora siamo di fronte alla sfida e all’opportunità di far valere invece una disciplina sociale.

Ciò non comporta perdere di vista le trasgressioni al diritto internazionale o ai diritti umani da parte di altri paesi. Non vuol dire applicare doppi standard. Come dice la scrittrice Naomi Klein, “Il boicottaggio non è un dogma; è una tattica. La ragione per cui si deve tentare tale strategia [su Israele] è pratica: in un paese così piccolo e dipendente dagli scambi commerciali potrebbe effettivamente funzionare”. La responsabilità generale di agire è specificata, in questo caso, dall’opportunità di farlo efficacemente. Ecco perché le campagne internazionali per il boicottaggio di merci e servizi israeliani, e le sue università, stanno guadagnando terreno.

Gli accademici israeliani sono fonte di una gran massa di critiche significative e di opposizione alle politiche di Israele – ivi compreso il sondaggio dell’Università di Tel Aviv – per cui non viene suggerito di interrompere i contatti individuali. Le discussioni sul giornalismo di pace sono state considerevolmente accentuate dalla partecipazione di accademici israeliani saggi e bravi, e questo deve continuare. Però a livello istituzionale le università sono profondamente inserite nel sistema di occupazione e militarismo.

Ho lanciato un appello perché l’Università di Sydney cancelli i suoi accordi istituzionali con l’Università Ebraica di Gerusalemme e l’Università Technion ad Haifa. Benché piccoli in proporzione, tali contatti sono simboli di un impegno ad aiutare Israele a fruire di normali relazioni con il mondo esterno, nonostante la sua condotta abituale. Affinché questa cessi, il nostro contributo, per quanto relativamente poco importante, intende ora aumentare i costi sociali, economici e politici del militarismo in alternativa al dialogo e al negoziato. Il che porterebbe un impulso atteso da lungo tempo alla causa della pace con giustizia.


COMMENTARY ARCHIVES, 31 May 2009

Jake Lynch

Titolo originale: WHY I’M JOINING THE ACADEMIC BOYCOTT OF ISRAEL

Traduzione italiana a cura di Miki Lanza per il Centro Sereno Regis