Terra bruciata. Puntata dei Perché

Cinzia Picchioni

Una recensione non basta! 3censioni

«Se mai sul nostro pianeta avremo ancora un futuro vivibile e condiviso, si tratterà di un futuro offline»

Terra bruciataQuesto è un articolo-recensore, suddiviso in 3 puntate; quindi s’intitola: 3censioni (o «Trecensioni», se preferite). È un articolo-recensore perché è zeppo di citazioni da un libro fondamentale, quello di Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era digitale verso un mondo postcapitalista, uscito da poco e sottovalutato, dove ho trovato – scritto molto meglio di come potrei mai fare – ciò che penso e sento da molti anni rispetto al «sistema internet», e che all’inizio era appena accennato ma via-via si è fatto sempre più inquietante.

A proposito del libro di Jonathan Crary, Terra bruciata. Oltre l’era digitale verso un mondo postcapitalista, Meltemi, Milano 2023. è già uscita una recensione, in questo stesso sito, che si trova qui:

Sono stata «contenta» di leggere ciò che ho letto, ma non sono in grado – non basta, appunto – di scriverne un «riassunto» come si addice a una recensione, perché ho incontrato continuamente brani, frasi, pagine intere che avrebbero avuto bisogno di essere citate: «senti cosa dice qui… e qui…, no, ma leggi cosa scrive qui! E vuoi sapere cosa scrive di…?». Il libro è tutto così. Pieno di riflessioni – e a volte conclusioni – piuttosto sconvolgenti, a volte devastanti, più spesso illuminanti.

Ho deciso allora di scrivere questo articolo – lunghissimo, per questo è diviso in 3 puntate – in cui ho inventato tutti i sottotitoli, in cui a volte ci sono anche parole mie (in corsivo), ma in cui per la più parte cito direttamente dal libro, indicando il numero di pagina e mettendo i brani tra virgolette «». Cominciamo?

Incipit (e potrebbero bastare le frasi-chiave)

«Se mai sul nostro pianeta avremo ancora un futuro vivibile e condiviso, si tratterà di un futuro offline, slegato dai devastanti meccanismi e sistemi del capitalismo 24/7. […] la rete, nel modo in cui la viviamo oggi, sarà diventata una parte marginale e fatiscente delle rovine […] una breve epoca digitale sarà stata superata da una cultura materiale ibrida basata su vecchie e nuove modalità di vivere e lavorare in modo cooperativo.

In questo momento, nel mezzo di una crisi sociale e ambientale […] ogni giorno più intensa, cresce anche la consapevolezza che una vita quotidiana, oscurata a tutti i livelli dal complesso di internet, abbia ormai superato una soglia di […] tossicità. Sempre più persone lo sanno o lo percepiscono, facendo tacitamente esperienza delle conseguenze rovinose di un tale modo di vivere. I dispositivi e i servizi digitali utilizzati ovunque dalle persone sono subordinati al potere di compagnie transnazionali, agenzie di intelligence, cartelli criminali e un’élite miliardaria e sociopatica.

Per la maggioranza della popolazione del pianeta alla quale è stato imposto, il complesso di internet è il motore implacabile di dipendenze, solitudine, false speranze, crudeltà, psicosi, indebitamento, spreco di vita, corrosione della memoria e disintegrazione sociale. Tutti i suoi propagandati benefici sono resi irrilevanti o secondari dai suoi impatti lesivi e “sociocidi”», pp. 9-10.

Autostima, scala di valori e altre psicopatologie (tanto c’è il bonus-psicologo…)

«[…] Le schiaccianti asimmetrie di scala tra la singola persona e le reti globali fanno sfigurare qualunque concezione non quantitativa di ciò che è importante e di valore. Ognuno di noi è degradato dalla venerazione di statistiche – follower, click, like, hit, visualizzazioni, condivisioni, dollari – che, fittizie o meno, costituiscono un rimprovero costante alla fiducia in noi stessi. […]

Fin dalla loro origine, i segmenti social e commerciali di internet hanno fornito innumerevoli strumenti di inganno e manipolazione, una congerie di piattaforme e applicazioni che non solo permette, ma premia il comportamento sociopatico. […] “sociopatico” denota ciò che è “antisociale” o lesivo per l’esistenza di una società, e la spersonalizzazione della maggioranza delle interazioni online alimenta una sociopatica assenza di rimorso, l’egoismo e la mancanza di empatia […]

Una volta che la comunicazione umana viene collocata in un sistema customizzato funzionale alle priorità delle compagnie globali, delle agenzie militari e di intelligence, dei cartelli criminali, dei trafficanti sessuali e dei più vari operatori depravati, non vi è più alcuna responsabilità nei confronti di chicchessia o di alcunché. […] internet è uniformemente e inalterabilmente “dark”, in quanto la massima nichilistica “tutto è permesso” prende la veste della sua forma più corrotta: “Tutto è permesso fintanto che può essere monetizzato e reso disponibile su richiesta”», pp. 33-35

Perché consiglio la lettura di questo libro (welfare e warfare)

Perché non posso riportare proprio tutte-tutte le parole che nel Primo capitolo spiegano

«che il rafforzamento di un warfare state permanente è coinciso con l’installazione e l’adozione di massa del web 2.0 [che] si è rivelato un fattore ulteriore nel promuovere la normalizzazione della guerra e la sua invisibilità a milioni di persone comodamente avvolte nelle loro vite online», p. 25.

L’intero capitolo tratta di guerra, anzi di guerre, e per chi si occupa di pace è fondamentale leggerlo.

Perché il titolo Terra bruciata (o scorticata)?

Dire «bruciata» fa pensare agli incendi, e qualcuno si ostina a parlare di autocombustione, o a dire che le catastrofi naturali ci sono sempre state e possono sempre accadere… non ci si può fare niente… invece «scorticata» fa pensare a un’azione di qualcuno su qualcun altro. Ecco allora che forse il libro di Crory poteva essere intitolato Terra scorticata per trasmettere meglio il messaggio che contiene: siamo noi, con le nostre azioni, a scorticare la Terra. Altroché punizioni divine, dèi altri che lanciano saette o Natura matrigna! Come spiega l’autore:

«La moderna civiltà industriale si trova sull’orlo di dare il mondo alle fiamme […] Stiamo facendo esperienza del capitalismo nella sua fase terminale, quella della Terra bruciata (scorched Earth). In ambito militare questa è la fase nella quale si distruggono le risorse vitali essenziali in modo che una popolazione sconfitta o un esercito che avanza non possano utilizzarle. In un senso più generale, una Terra bruciata si ha quando le aree più prospere sono ridotte a una condizione di sterilità e hanno perso la loro capacità di rigenerazione.

È una terra arida, deprivata dell’acqua, con i fiumi e le falde avvelenati, l’aria inquinata e i suoli afflitti dalla siccità e dall’agricoltura chimica. Il capitalismo della Terra bruciata distrugge tutto quello che consente ai gruppi e alle comunità di perseguire forme di sussistenza autosufficienti, di autogoverno e di aiuto reciproco. Il fenomeno si verifica con estrema violenza nel Sud del mondo, dove l’estrazione, la deforestazione e gli scarichi tossici creano lande desolate invivibili e città nelle quali i poveri diventano disperati esulti interni. […] Per quanto sia ormai evidente che il capitalismo non raggiungerà mai quella sussunzione totale della vita che alcuni continuano ancora a prevedere, esso si sta tuttavia mostrando più capace che mai nel mutilare e sterminare tutto ciò che sostiene la vita.

Etimologicamente, le correnti sotterranee della parola scorched (bruciato) riportano al francese antico escorchier che significa scorticare o strappare via la pelle da un corpo, rendendolo facilmente esposto. Lo scorticamento degli strati protettivi e vitali della terra accelera di mese in mese, esemplificato dal bruciamento dele foreste amazzoniche, dalla perdita di colore delle barriere coralline, dallo strangolamento dei grandi fiumi per mezzo di dighe per la produzione di energia idroelettrica e dalla perdita massiccia delle praterie dei climi temperati», pp. 45-46

Perché quando c’è qualcuno a casa mia io non rispondo al telefono (e le solite parole-chiave in rosso)

«A meno che il difficile compito di creare nuove forme di vita comunitarie e cooperative non divenga una priorità politica, tutte le forme di attivismo online continueranno ad essere del tutto innocue, incapaci di ottenere alcun cambiamento radicale o di fondo. Dimostrazioni, proteste, cortei hanno sì luogo, ma, al contempo, avviene una re-immersione nella separazione atomizzante della vita digitale. I legami che sembrano sbocciare nel mezzo dell’azione finiscono poi per evaporare. Persino negli effettivi eventi dei cortei, delle occupazioni, delle zone liberate e delle mobilitazioni di ogni tipo, la solidarietà di gruppo è affievolita da una massa critica di individui che sono sempre anche altrove, appiccicati ai loro dispositivi e alle risorse di auto promozione messe a disposizione dai social media», p. 22.

Proprio come quando siamo riuniti in una piazza per guardare i fuochi d’artificio e, invece di guardarli insieme li fotografiamo-riprendiamo-inviamo-postiamo-creiamo l’evento tramite facebook. Così non li stiamo guardando, li stiamo perdendo, perdiamo l’attimo, ci proiettiamo nel futuro, inutilmente.

Perché non partecipo a nulla che sia solo on-line

Soprattutto dopo la pandemia (quando abbiamo cominciato – per forza – a partecipare agli eventi on-line) dovremmo chiederci se sia davvero necessario offrire la possibilità di seguire conferenze, presentazioni, riunioni on-line (riunioni di insegnanti alle 20??? Va bene durante la pandemia, ma oggi? E la qualità del lavoro? Il tempo privato? E il lavoro da casa, invadendo lo spazio privato senza che ce ne sia la necessità? Occorre:

«compiere la difficile transizione verso la priorità della responsabilità nei confronti degli altri rispetto al miraggio dell’autonomia individuale. Tale transizione non avverrà mai online: internet produce prepotentemente forme di soggettività egocentriche incapaci di immaginare obiettivi o risultati diversi da quelli privati, individuali […] Fintanto che ci spaventiamo all’idea di condividere e cooperare con altri come stile di vita abituale, si è incapaci di rivoltarsi e si rimane dipendenti dalle istituzioni vigenti. La verità è inconfutabile: nei social media non esiste alcun soggetto rivoluzionario», p. 23

Lavoro agile? E altre menzogne

«[…] la realtà del lavoro a basso reddito che utilizza la tecnologia digitale è fatta di compiti ripetitivi e fisicamente snervanti, soggetti a dure forme di gestione del tempo e di sorveglianza della produttività […] ha lasciato il posto alla pervasiva realtà dell’isolamento sul posto di lavoro, della disperazione e della minaccia della sostituzione.

I lavoratori della Gig economy hanno poche cose da condividere tra loro che non siano deprivazione materiale ed esaurimento psichico. A partire dagli anni Novanta abbiamo avuto un ulteriore abbattimento della separazione tra il tempo di lavoro e quello di non-lavoro, rendendo difficile, se non impossibile, la creazione di comunità politiche o civiche. Porzioni della vita che una volta erano delimitate come private o personali diventano una catena senza fine di impegni online in vigore a tutte le ore di veglia. […] internet è ovviamente gravido di contraddizioni sociali, ma non vi è alcun modo in cui un’analisi dialettica possa trasformarle in un luogo o un insieme di strumenti utili alla lotta di classe.

Suggerire che internet sia il luogo in cui i popoli indigeni, i migranti apolidi, i disoccupati, i poveri e i detenuti dovrebbero contestare la propria condizione di marginali e di potenziali scarti sociali è non solo errato, ma anche crudelmente irresponsabile», pp. 33-34

Perché sono contraria all’internet per tutti (e no, non è perché vivo nel Medioevo; è perché il colonialismo dovrebbe essere finito…)

«La realtà della crescente polarizzazione e disuguaglianza è costantemente mascherata dalle falsificazioni dei media mainstream che narrano di un pianeta felicemente sempre più unito grazie alle tecnologie che tutti condividiamo. Ci viene così raccontato di come i pescatori delle Prime Nazioni nel Labrador utilizzino gli strumenti Gps per guidare le loro barche, di come le comunità aborigene australiane usino Facebook “per raccontare le loro storie”, di come gli artisti tessili dello Zimbabwe vendano i loro prodotti su Etsy ed eBay, e di come i Mooc (massive open online course) stiano portando luce e prosperità in Nord Africa e in Medio Oriente.

L’idea implicita in tutti questi racconti è che l’impatto “civilizzante” di internet solleverà tutti gli svantaggiati dai loro limiti tecnologici consentendogli di diventare “come noi”. Un giornalismo di questo tipo non è solo una forma di autoconsolazione, di rassicurazione etnocentrica di come il mondo stia dopotutto andando nella giusta direzione. È anche il palesarsi dell’assunto colonizzante, profondamente radicato, che le regioni povere della periferia del mondo desiderino e accolgano di buon grado l’adozione della tecnologia occidentale, compresi i social media, e che una volta installati ne trarranno senz’altro beneficio.

Per il teorico politico Samir Amin, questa è l’eredità dell’eurocentrismo nella sua versione peggiore, ovvero della proposta del capitalismo come modello per un’abbondanza materiale strutturalmente impossibile da conseguire […]. Una volta accettata l’esca della modernizzazione occidentale, ciò che ne segue non è altro che il perpetuarsi e intensificarsi di rapporti iniqui», p. 29

E perché benedico i villaggi e gli individui non ancora raggiunti da internet. Perché benedico le zone «fuori campo» (ancora parole-chiave in rosso)

«Tutto il fervore apparentemente altruistico riguardo al superamento del “divario digitale” continua a essere una campagna a reti unificate portata avanti dagli interessi aziendali che pretendono conformità digitali ovunque […]. si è suggerito che le persone prive di accesso a una connessione a banda larga vivano in una condizione di deprivazione, tagliati fuori […] dalle opportunità di carriera e di arricchimento culturale. Sennonché, l’obiettivo primario dei portatori di interessi più potenti è la potenziale trasformazione di tutte le persone in consumatori obbedienti e schiavi dei loro prodotti e servizi.

Quello che non si dice è che con l’espansione dell’accesso e dell’uso di internet la disuguaglianza economica è aumentata, non diminuita. Ricchi e cinici mediatori politici come Nicholas Negroponte […] pontificano sul rendere l’accesso a internet un “diritto umano”, mentre le agende politiche a misura di azienda promuovono “un laptop per ogni bambino”, a dispetto degli assoluti fallimenti della didattica informatizzata nelle scuole elementari. […] la forza travolgente delle compagnie high-tech che commercializzano i loro prodotti e servizi nel Sud del mondo e altrove, hanno avuto conseguenze ancora più dannose.

I violenti processi di modernizzazione occidentale hanno sempre preso di mira le particolarità regionali e locali ancora in vita. In quelle nazioni o regioni nelle quali persistono solidarietà tradizionali o indigene, il complesso di internet diventa una nuova colonizzazione tecnologica che strappa via antiche forme di coesione sociale. Oggigiorno, anche solo una sua installazione parziale introduce un nuovo stato di omogeneizzazione, ma questa volta a livello della coscienza», pp. 28-29

Perché mi sento fortunata a non aderire a gruppi wathsapp, chat, social-media, homebanking eccetera tutta la stessa roba

«[…] internet ha alimentato la cultura dell’indiscrezione e dell’esposizione: ogni cosa si pensi che valga la pena sapere su qualcuno è rapidamente resa ricercabile e reperibile online. Qualsiasi cosa sia possibile apprendere di un altro col tempo, grazie a una conquista fatta di reciprocità e dissimulazione, non ha alcuna rilevanza o valore monetario. Stiamo perdendo la possibilità di ascoltare, di confrontarsi con pazienza con uno sconosciuto, con qualcuno di indigente, qualcuno che non offre nulla al nostro tornaconto personale. […]

Le forme di social media progettate dalle aziende hanno eliminato la possibilità di una relazione etica con l’alterità o la sofferenza. In una varietà di modi, siamo indotti o obbligati a seguire le routine del lavoro e del tempo libero digitali e di allinearci alla loro mediocrità e idiozia. […] ci autoconvinciamo che i nostri obiettivi e le nostre aspirazioni possano essere conseguiti attraverso una cieca e obbediente conformità ai precetti e alle normative di un sistema che sappiamo essere nocivo […]. Lo accettiamo per passività o convenienza, finendo col tempo per avere pensieri e gesti che non sono più nostri», pp. 135-136

Falsa indipendenza

Sul perché non ho e non voglio avere l’home-banking, e nemmeno il “banking”, nel senso che non ho un conto in banca, ma – almeno – alle Poste. Finché anch’esse non diventeranno «armate». Allora terrò i – peraltro pochi – soldi nel materasso, di lana. E sul perché se sono con un’amica, se qualcuno viene a trovarmi non rispondo al telefono, lasciando partire la segreteria: voglio essere presente a quella persona, ché capisca che ci tengo. I care, ricordiamo?

«Il complesso di Internet […] promuove la convinzione di non essere più dipendenti gli uni dagli altri, l’idea per la quale siamo amministratori autonomi delle nostre vite, che possiamo gestire le nostre amicizie nella stessa maniera in cui gestiamo i nostri conti online», p. 15

Perché resisto, resisto e ancora resisto

«Molte persone intuiscono quotidianamente l’immiserimento delle loro vite e delle loro speranze, ma potrebbero avere una consapevolezza appena accennata di quanto diffusamente le loro sensazioni siano condivise con altri. Il mio obiettivo, qui, non è presentare una raffinata analisi teorica, bensì – in un momento di emergenza – affermare la verità di interpretazioni ed esperienze condivise, e sostenere che forme di rifiuto radicale, piuttosto che di adattamento o rassegnazione, sono non solo possibili, ma necessarie. Il complesso di internet funziona come un interminabile annuncio pubblicitario sulla sua indispensabilità e sull’insignificanza di qualunque aspetto della vita che rimanga inassimilabile ai suoi protocolli.

L’onnipresenza e incorporazione di internet in quasi ogni ambito della vita personale e dell’attività istituzionale fa sembrare impensabile qualsiasi visione della sua transitorietà o marginalizzazione postcapitalista. Questa impressione, però, segnala un fallimento collettivo dell’immaginazione, nella sua accettazione passiva dell’intorpidente routine online quale sinonimo di vita. La visione di un’alternativa, però, è impensabile solo nella misura in cui i nostri desideri e i nostri legami con le altre persone e le altre specie sono stati danneggiati o debilitati», p. 11

Segue: Puntata delle Ribellioni


 

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