«Per quanto triste sia la situazione, sappiate che c’è una resistenza straordinaria»

Arundhati Roy

Foto di copertina: Arundhati Roy a Cambridge nel 2017
Foto di Chris Boland chrisboland.com


“Arundhati Roy utilizza la forma letteraria del saggio come strumento di lotta,
per il modo con cui analizza il fascismo nelle sue diverse configurazioni.
Nel conferire questo premio al complesso del suo lavoro letterario,
la Giuria ha inteso riconoscere l’impegno di un’autrice
che ha reso la scrittura intervento politico”.

Con queste motivazioni il Premio europeo per la saggistica Charles Veillon, 45ima Edizione, ha premiato qualche giorno fa (12 settembre) a Losanna, la scrittrice Arundhati Roy per il complesso del suo lavoro letterario, dal suo debutto nel 1997 con Il dio delle piccole cose, fino alla più recente raccolta di saggi Azadi (2019), entrambi i titoli sono stati pubblicati in Italia Ugo Guanda Editoe.

L’intervento di Arundhati Roy è dal minuto 35 in poi

Per gentile concessione della stessa autrice, che calorosamente ringraziamo, ecco il testo integrale del suo intervento pronunciato con l’occasione del Premio a Losanna. Buona lettura!


Ringrazio la Fondazione Charles Veillon per avermi conferito il Premio europeo per la saggistica 2023. Potrebbe non essere immediatamente evidente la gioia che ho provato nel riceverlo. Ed è possibile che mi vediate gongolare. Ciò che mi rende particolarmente felice è che si tratta di un premio per la letteratura. Non per la pace. Non per la cultura o per la libertà culturale, ma per la letteratura. Per la scrittura. E per aver scritto il genere di saggi che scrivo e che ho scritto negli ultimi venticinque anni. Perché essi hanno mappato, passo dopo passo, la discesa (anche se alcuni la considerano un’ascesa) dell’India verso il maggioritarismo prima, e poi verso il peggior fascismo. E’ vero che continuiamo ad avere elezioni e per questo motivo, al fine di assicurarsi un affidabile collegio elettorale, il messaggio di suprematismo indù del Bhartiya Janata Party (BJP) al governo è stato impartito senza sosta a una popolazione di 1,4 miliardi di persone. Di conseguenza, le elezioni sono una stagione di omicidi, linciaggi e ulular di cani, il momento più pericoloso per le minoranze indiane, musulmani e cristiani in particolare. Non sono solo i nostri leader che dobbiamo temere, ma una buona parte della popolazione. La banalità del male, la normalizzazione del male è ormai manifesta nelle nostre strade, nelle nostre aule scolastiche, in moltissimi spazi pubblici.

La stampa mainstream, le centinaia di canali d’informazione in onda 24 ore su 24 sono stati imbrigliati nella causa del maggioritarismo fascista. La Costituzione indiana è stata di fatto messa da parte. Il Codice Penale indiano è stato riscritto. Se l’attuale regime otterrà la maggioranza nel 2024, è molto probabile che vedremo una nuova Costituzione. È molto probabile che si verifichi il cosiddetto processo di “delimitazione” – un riordino dei collegi elettorali – ovvero quel processo di manipolazione (gerrymandering, come lo chiamano negli Stati Uniti) che garantirà più seggi parlamentari agli stati di lingua hindi dell’India settentrionale, dove il BJP ha una forte base. Ciò causerà un forte risentimento negli stati meridionali, e potenzialmente potrebbe portare alla balcanizzazione dell’intera India. Anche nell’improbabile caso di una sconfitta elettorale, il veleno suprematista scorre ormai in profondità e ha compromesso tutte le istituzioni pubbliche che avrebbero un ruolo di controllo e riequilibrio. Al momento non c’è praticamente nessuno in grado di garantire questo ruolo, a parte una Corte Suprema sempre più debole ed erosa.

Permettetemi di ringraziarvi ancora una volta per questo prestigioso premio e per il riconoscimento del mio lavoro – anche se devo dirvi che un premio alla carriera mi fa sentire vecchia, o forse dovrei semplicemente smettere di fingere di non esserlo. Per certi versi è una grande ironia ricevere un premio per venticinque anni di scritti – che avvertivano della direzione in cui stavamo andando e che non sono stati ascoltati, e anzi sono stati spesso derisi e criticati da quanti si consideravano liberali e magari progressisti. Ma il tempo degli avvertimenti adesso è scaduto. Siamo in una fase diversa della storia. Come scrittrice, posso solo sperare che la mia scrittura riesca a testimoniare questo capitolo così buio, che sta avviluppando la vita del mio Paese. E spero solo che il lavoro di altri come me possa proseguire, perché si sappia che non tutti erano d’accordo con ciò che stava accadendo.

La mia vita di scrittrice di saggi non è stata pianificata. Semplicemente è successa.

Il mio primo libro è stato Il Dio delle piccole cose, un romanzo pubblicato nel 1997. In quel periodo ricorreva il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dell’India dal colonialismo britannico. Erano passati otto anni dalla fine della guerra fredda e il comunismo sovietico era stato sepolto dalle macerie della guerra afghano-sovietica. Era l’inizio di quel mondo unipolare dominato dagli Stati Uniti, in cui il capitalismo emergeva come incontrastato vincitore. L’India si riallineò agli Stati Uniti e aprì i suoi mercati al capitale finanziario. Privatizzazioni e aggiustamenti strutturali erano l’inno del libero mercato. L’India stava conquistando il suo posto a tavola. Ma nel 1998 salì al potere un governo nazionalista indù guidato dal BJP. La prima cosa che fece fu condurre una serie di test nucleari. La maggior parte della popolazione, compresi scrittori, artisti e giornalisti, li accolse con i toni di un nazionalismo virulento e sciovinista. Ciò che era accettabile come discorso pubblico improvvisamente cambiò.

All’epoca avevo appena vinto il Booker Prize per il mio romanzo e mi trovavo involontariamente ad incarnare il ruolo di ambasciatrice culturale, di questa Nuova India così assertiva. Ero sulla copertina di importanti riviste. Sapevo che se non avessi detto qualcosa, si sarebbe dato per scontato che fossi d’accordo con tutto ciò che succedeva. Capii allora che tacere era altrettanto politico che parlare. Capii che parlare sarebbe stata la fine della mia carriera di principessa di quel fatato mondo letterario. Ma soprattutto capii che se non avessi scritto ciò che credevo, indipendentemente dalle conseguenze, sarei diventata il mio peggior nemico e forse non avrei mai più scritto. Così ho scritto, per salvare la mia scrittura. Il mio primo saggio, dal titolo Un mondo senza immaginazione, fu pubblicato contemporaneamente su due importanti riviste, Outlook e Frontline[1], che godevano di una vasta circolazione. Fui subito etichettata come traditrice e anti-national. Ricevetti quegli insulti come allori, non meno prestigiosi del Booker Prize. E fu questo che mi spinse ad intraprendere un lungo viaggio di scrittura, tra dighe, fiumi, sfollamenti, caste, miniere, guerre civili – un viaggio che ha affinato la mia capacità di comprendere e ha intrecciato il mio modo di narrare e scrivere saggi in modi che non possono più essere separati.

Leggerò un breve estratto da uno dei saggi del mio libro Azadi, che parla di come questi saggi vivono nel mondo. Si intitola Il linguaggio della letteratura.[2]

Quando i miei saggi vennero pubblicati per la prima volta (prima su riviste a grande tiratura, poi su Internet e infine in volume) furono guardati con malignità e sospetto, perlomeno in certi ambienti, e spesso da persone che non erano neppure in disaccordo con le idee politiche che vi venivano espresse. I testi avevano un taglio che non coincideva con ciò che viene convenzionalmente definito letteratura. La diffidenza era una reazione comprensibile, specie tra le persone inclini alla classificazione, le quali non riuscivano a capire esattamente di cosa si trattasse: pamphlet o polemica, scritti di natura accademica o giornalistica, diari di viaggio o puro e semplice avventurismo letterario? Per alcuni, non si poteva considerare scrittura: “Ah, ma perché hai smesso di scrivere? Non vediamo l’ora che esca il tuo nuovo libro”. Altri immaginavano che fossi una mercenaria della penna e quindi mi arrivarono offerte di ogni genere: “Tesoro, mi è piaciuto da morire quel pezzo sulle dighe, me ne faresti uno sulla violenza sui minori?” (E’ successo davvero.) Mi ritrovai a ricevere, per lo più da uomini di caste superiori, severe ramanzine su come si scrive, sui soggetti da trattare e sul tono da assumere.

Ma altrove – diciamo fuori dai percorsi più battuti – i saggi furono subito tradotti in altre lingue indiane, stampati come pamphlet, distribuiti gratuitamente nelle foreste e nelle vallate fluviali, nei villaggi sotto attacco e nei campus universitari, dove gli studenti non ne potevano più di sentirsi raccontare bugie. Perché questi lettori schierati in prima linea, già scottati dal divampare dell’incendio, avevano tutt’altra idea su ciò che la letteratura è o dovrebbe essere.

Racconto questa vicenda perché mi ha insegnato che il ruolo della letteratura lo costruiscono insieme autori e lettori. È un luogo fragile, per certi versi, ma indistruttibile e, quando si rompe, lo si ricostruisce. Perché c’è sempre bisogno di un rifugio. Mi piace moltissimo l’idea di una letteratura necessaria. Di una letteratura che offre un rifugio. Un rifugio che assume molte forme.

Oggi sarebbe impensabile per qualsiasi media mainstream in India pubblicare simili saggi, perché tutti dipendono dalla pubblicità. Negli ultimi vent’anni il libero mercato, il fascismo e la cosiddetta libera stampa hanno danzato lo stesso valzer perché l’India raggiungesse un punto in cui non si può più assolutamente parlare di democrazia.

Nel gennaio di quest’anno sono accadute due cose che illustrano quanto è successo come meglio non si potrebbe. La BBC ha trasmesso un documentario in due parti dal titolo India: The Modi Question, e pochi giorni dopo, una piccola società statunitense chiamata Hindenburg Research, specializzata in ciò che è noto come activist short-selling, ha pubblicato quello che oggi è conosciuto come Hindenberg Report, un’esposizione dettagliata della serie di scioccanti illeciti riguardanti la più grande società indiana, il gruppo Adani.

Il momento della BBC-Hindenburg è stato dipinto dai media indiani come un attacco all’India equivalente alle torri gemelle: rappresentate dal primo ministro Narendra Modi e dal più grande industriale indiano, Gautam Adani, che fino a poco tempo fa era il terzo uomo più ricco del mondo. Le accuse mosse contro di loro non sono indifferenti. Il filmato della BBC denuncia il coinvolgimento di Modi per aver favorito una strage.[3] Il Rapporto Hindenburg accusa Adani di aver messo in atto “la più grande truffa della storia”. Il 30 agosto scorso i quotidiani The Guardian e Financial Times hanno pubblicato articoli basati su documenti incriminati ottenuti dall’Organized Crime and Corruption Reporting Project che avvalorano ulteriormente il Rapporto Hindenburg. Le agenzie investigative indiane e la maggior parte dei media indiani non sono in grado di indagare o pubblicare queste storie. Quando lo fanno i media stranieri, è facile che nell’attuale atmosfera di pseudo-iper-nazionalismo, ciò venga dipinto come un attacco alla sovranità indiana.

Il primo episodio del documentario The Modi Question trasmesso dalla BBC, riguarda il pogrom anti-musulmano che nel 2002 ha sconvolto lo Stato del Gujarat dopo che i musulmani erano stati ritenuti responsabili dell’incendio di un vagone ferroviario in cui vennero bruciati vivi 59 pellegrini indù. Modi era stato nominato – benché non eletto – ministro in carica per quello Stato solo pochi mesi prima del massacro. Il film non si limita a ricostruire la strage, ma anche il viaggio durato vent’anni che alcune vittime hanno dovuto fare nel labirinto del sistema legale indiano, mantenendo fede, sperando nella giustizia e in una qualche responsabilità politica. Il film si basa su parecchie testimonianze oculari, tra cui quella particolarmente toccante di Imtiyaz Pathan, che ha perso dieci membri della sua famiglia nel massacro della Gulbarg Society, in cui sessanta persone sono state uccise dalla folla, tra cui l’ex membro del Parlamento Ehsan Jaffri, smembrato e bruciato vivo. Era un rivale politico di Modi e aveva fatto campagna contro di lui in una recente elezione. Si è trattato di uno dei numerosi massacri non meno raccapriccianti avvenuti in quei giorni in Gujarat. Uno degli altri massacri – non presente nel film – è stato lo stupro di gruppo della diciannovenne Bilkis Bano e l’uccisione di 14 membri della sua famiglia, compresa la figlia di 3 anni. Lo scorso agosto, per la Festa dell’Indipendenza (15 agosto, ndr), mentre Modi si rivolgeva alla nazione sull’importanza dei diritti delle donne, il suo governo, nello stesso giorno, ha graziato gli stupratori-assassini di Bilkis Bano e della sua famiglia, nonostante su di essi pesasse la condanna all’ergastolo. Avevano trascorso la maggior parte della loro detenzione avvalendosi della condizionale. E adesso sono liberi. Sono stati accolti con ghirlande fuori dal carcere e ora sono membri rispettati della società e condividono il palco con i politici del BJP negli eventi pubblici. Il filmato della BBC ha anche rivelato un rapporto interno commissionato dal Ministero degli Esteri britannico nell’aprile 2002, finora sconosciuto al pubblico. Quell’inchiesta stimava che fossero state uccise “almeno 2.000” persone e definiva il massacro un pogrom pianificato in precedenza, che aveva “tutte le caratteristiche della pulizia etnica”. Inoltre confermava che, secondo informazioni affidabili, la polizia aveva ricevuto l’ordine di non intervenire. Il rapporto incolpava insomma chiaramente Modi. Dopo il pogrom in Gujarat, gli Stati Uniti gli hanno infatti negato il visto d’ingresso, il che non impedì a Modi di vincere tre elezioni consecutive come Ministro del Gujarat fino al 2014. Il divieto d’ingresso è stato revocato dopo che è diventato Primo Ministro.

Il governo Modi ha censurato il filmato. Tutte le piattaforme di social media si sono conformate al divieto e hanno tolto tutti i link e i riferimenti al film. Poche settimane dopo l’uscita del film, gli uffici della BBC in Delhi sono stati circondati dalla polizia e perquisiti da funzionari del fisco.

Il Rapporto Hindenburg accusa il Gruppo Adani di aver messo in atto uno “sfacciato schema di manipolazione delle azioni e di frode contabile”, che – mediante l’uso di entità di comodo offshore – ha artificialmente sopravvalutato le sue principali società quotate in borsa e gonfiato il patrimonio netto del suo presidente. Secondo il rapporto, sette delle società quotate di Adani sono sopravvalutate di oltre l’85%. Modi e Adani si conoscono da decenni. La loro amicizia si è consolidata dopo il pogrom in Gujarat del 2002. All’epoca, gran parte dell’India, compresa l’India degli imprenditori, è rimasta inorridita dal massacro e dallo stupro di massa di musulmani, che ha avuto luogo nelle strade delle città e dei villaggi del Gujarat, coinvolgendo folle di vigilanti indù in cerca di “vendetta”. Gautam Adani restò al fianco di Modi. Con un piccolo gruppo di industriali gujarati ha creato una nuova piattaforma di affarismo. Hanno denunciato i critici di Modi e lo hanno sostenuto nel lancio di una nuova carriera politica come Hindu Hriday Samrat, ovvero “l’imperatore dei cuori indù”. È nato così quello che è ormai noto come il modello di “sviluppo” del Gujarat: un violento nazionalismo indù sostenuto dal denaro delle grandi aziende. Nel 2014, dopo tre mandati come Ministro a capo del Gujarat, Modi è stato eletto Primo Ministro dell’India. Si è recato alla cerimonia di giuramento a Delhi su un jet privato con il nome di Adani impresso sulla carrozzeria dell’aereo. Nei nove anni del mandato di Modi, Adani è diventato l’uomo più ricco del mondo. Il suo patrimonio è passato da 8 a 137 miliardi di dollari. Solo nel 2022 ha guadagnato 72 miliardi di dollari, più dei guadagni combinati dei nove miliardari del mondo messi insieme. Il Gruppo Adani controlla oggi una dozzina di porti marittimi che movimentano il 30% delle merci indiane, sette aeroporti che gestiscono il 23% dei passeggeri delle compagnie aeree indiane e depositi che collettivamente contengono il 30% del grano indiano. Possiede e gestisce centrali elettriche che sono i maggiori generatori di elettricità privata del Paese.

Certo, Gautam Adani è uno degli uomini più ricchi del mondo, ma se si guarda al loro operato durante le elezioni, il BJP non solo è il partito politico più ricco dell’India, ma forse del mondo. Nel 2016 il BJP ha introdotto lo schema dei bond elettorali per consentire alle aziende di finanziare i partiti politici senza che la loro identità sia resa pubblica. È diventato il partito con la quota di gran lunga maggiore di finanziamenti aziendali. Evidentemente le due torri gemelle hanno solide fondamenta in comune.

Così come Adani è rimasto al fianco di Modi nel momento del bisogno, il governo Modi è rimasto al fianco di Adani e si è rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda venisse sollevata dai membri dell’opposizione in Parlamento, arrivando a cancellare i loro interventi dagli atti parlamentari.

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Mentre il BJP e Adani accumulavano le loro fortune, un rapporto schiacciante di Oxfam ha dichiarato che il 10% della popolazione indiana detiene il 77% del totale della ricchezza nazionale. Il 73% della ricchezza generata nel 2017 è andato all’1% più ricco, mentre 670 milioni di indiani, che costituiscono la metà più povera della popolazione, hanno visto aumentare la loro ricchezza solo dell’1%. Sebbene l’India sia riconosciuta come una potenza economica con un mercato enorme, la maggior parte della sua popolazione vive in disperante povertà. Milioni di persone vivono di razioni di sussistenza distribuite in pacchetti con il volto di Modi stampato sopra. L’India è dunque un Paese molto ricco abitato da una popolazione molto povera. Una delle società più diseguali del mondo. Per tali sofferenze, anche Oxfam India è stata perquisita. E Amnesty International e una serie di altre ONG problematiche per India sono state costrette a chiudere i battenti.

Tutto questo non ha fatto alcuna differenza per i leader delle democrazie occidentali. A pochi giorni dalle rivelazioni Hindenburg-BBC, dopo incontri “calorosi e produttivi”, il Primo Ministro Modi, il Presidente Joe Biden e il Presidente Emmanuel Macron hanno annunciato che l’India acquisterà 470 aerei Boeing e Airbus. Biden ha dichiarato che l’accordo creerà oltre un milione di posti di lavoro americani. Gli Airbus saranno alimentati da motori Rolls Royce. “Per la gioia del fiorente settore aerospaziale del Regno Unito”, ha dichiarato il premier Rishi Sunak, “non c’è limite al cielo”.

Lo scorso luglio Modi si è recato negli Stati Uniti in visita di Stato e poi in Francia come ospite d’onore per la commemorazione della Presa della Bastiglia. Riuscite a crederci? Macron e Biden lo hanno adulato nel modo più imbarazzante, ben sapendo che tutto ciò sarebbe diventato oro colato per le elezioni generali del 2024, in cui Modi si candiderà per un terzo mandato. Benché non potessero ignorare proprio nulla dell’uomo che stavano abbracciando.

Sapevano del ruolo di Modi nel pogrom del Gujarat. Sapevano della nauseante regolarità con cui i musulmani vengono linciati pubblicamente, di come alcuni responsabili di quei linciaggi sono stati accolti con corone di fiori da un membro del gabinetto di Modi e del rapidissimo processo di segregazione e ghettizzazione dei musulmani. Sapevano dell’incendio di centinaia di chiese da parte dei vigilanti indù.

Sapevano della caccia ai politici dell’opposizione, agli studenti, agli attivisti per i diritti umani, agli avvocati e ai giornalisti, alcuni dei quali hanno ricevuto lunghe pene detentive; degli attacchi alle Università da parte della polizia e di sospetti nazionalisti indù; della riscrittura dei libri di storia, della messa al bando dei film, della chiusura di Amnesty International India, dell’irruzione negli uffici indiani della BBC, degli attivisti, dei giornalisti e dei critici del governo inseriti in misteriose liste di divieto di volo, e delle pressioni sugli accademici, sia indiani che stranieri.

Sapevano che l’India è ormai al 161° posto su 180 Paesi nell’Indice mondiale della libertà di stampa, che molti dei migliori giornalisti indiani sono stati licenziati dai media mainstream e che i giornalisti potrebbero presto essere sottoposti a un regime di “regolamentazione censoria” in cui un organismo nominato dal governo avrà il potere di decidere se le notizie e i commenti dei media sul governo sono falsi o fuorvianti. Per non dire della nuova legge sulle tecnologie informatiche, che mira a bloccare il dissenso sui social media.

Sapevano delle folle di vigilanti indù violenti e armati di spada che invocano regolarmente e apertamente l’annientamento dei musulmani e lo stupro delle donne musulmane.

Sapevano della situazione in Kashmir, che a partire dal 2019 è stato sottoposto a un blackout delle comunicazioni che è durato per mesi – la più lunga interdizione di Internet in una democrazia – e dove i giornalisti subiscono molestie, arresti e interrogatori. Nessuno nel XXI secolo dovrebbe vivere come loro, con uno stivale premuto sulla gola.

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Sapevano del Citizenship Amendment Act, la legge di modifica dello stato di cittadinanza approvata nel 2019, che discrimina apertamente i musulmani, e sapevano delle massicce proteste che ne sono conseguite e di come queste si siano concluse solo dopo l’uccisione di decine di musulmani l’anno successivo, da parte di folle indù a Delhi (e per inciso, tutto questo è successo mentre il presidente Donald Trump si trovava in città per una visita di Stato, ma non ha detto una parola). Sapevano di come la polizia di Delhi abbia costretto giovani musulmani gravemente feriti che giacevano per strada, a cantare l’inno nazionale indiano mentre venivano picchiati e presi a calci. Uno di loro è poi morto.

Sapevano che, nello stesso momento in cui festeggiavano Modi, molti musulmani erano in fuga da una piccola città dell’Uttarakhand, nel nord dell’India, dopo che estremisti indù affiliati al BJP avevano marcato con delle X le loro porte, intimando loro di andarsene. Si parla apertamente ormai di un Uttarakhand “senza musulmani”. Sapevano che mentre Modi stava a guardare, lo Stato del Manipur, nel Nord-Est dell’India, è precipitato in una barbara guerra civile, e che si è verificata una forma di pulizia etnica. Il governo centrale dell’India è complice, il governo dello Stato del Manipur è di parte, le forze di sicurezza sono divise tra polizia e altri soggetti senza una catena di comando. Internet è stato tagliato. Le notizie impiegano settimane per filtrare.

Eppure, le potenze mondiali hanno scelto di dare a Modi tutto l’ossigeno di cui ha bisogno per distruggere il tessuto sociale e ridurre l’India in cenere. Per me tutto questo è una forma di razzismo. Dicono di essere democratici, ma sono razzisti. Non ritengono che i loro professati “valori” possano applicarsi ai Paesi “non bianchi”. È una vecchia storia, come ben sappiamo.

Ma non importa. Combatteremo la nostra battaglia e alla fine riconquisteremo il nostro Paese. Tuttavia, se pensano che lo smantellamento della democrazia in India non si ripercuoterà su tutto il mondo, devono essere davvero degli illusi.

 

Per tutti coloro che credono che l’India sia ancora una democrazia, questi sono alcuni degli eventi accaduti negli ultimi mesi. Questo è ciò che intendevo quando ho detto che siamo entrati in una fase diversa. Il tempo degli avvertimenti è finito e dobbiamo temere alcuni settori della popolazione tanto quanto i nostri leader:

– nello stato del Manipur, dove infuria una guerra civile, la polizia, che è interamente di parte ha consegnato due donne alla folla per farle sfilare nude in un villaggio e poi violentarle in gruppo. Una di loro ha assistito all’uccisione del fratello minore davanti ai suoi occhi. Le donne appartenenti alla comunità degli stupratori sono rimaste al loro fianco e hanno persino incitato i loro uomini allo stupro;

– nello stato del Maharashtra un ufficiale della Railway Protection Force (il sistema di sicurezza ferroviario, ndr) ha percorso armato il corridoio di un treno sparando ai passeggeri musulmani e invitando la gente a votare per Modi;

– un vigilante indù piuttosto famoso, spesso fotografato in compagnia di politici e poliziotti di alto livello, ha invitato gli indù a partecipare a una marcia religiosa attraverso un popoloso insediamento a maggioranza musulmana. Resta a piede libero benché sia il principale accusato dell’omicidio di due giovani musulmani che sono stati legati a un veicolo e bruciati vivi a febbraio. E’ successo nella cittadina di Nuh al confine con l’area di Gurgaon (alla periferia sud di Delhi, ndr) dove hanno sede importanti società internazionali. Gli indù in marcia portavano mitragliatrici e spade. I musulmani si sono difesi. Prevedibilmente, la marcia è finita in violenza. Sei persone sono rimaste uccise. Un imam di 19 anni è stato massacrato nel suo letto, la sua moschea è stata vandalizzata e bruciata. La risposta dello Stato è stata radere al suolo tutti gli insediamenti musulmani più poveri, costringendo centinaia di famiglie a fuggire per salvarsi la vita.

Il Primo Ministro non ha avuto nulla da dire su tutto questo. Siamo già in periodo di elezioni. Il prossimo maggio ci saranno le elezioni generali. Tutto questo fa già parte della campagna elettorale. Dobbiamo prepararci ad altri spargimenti di sangue, uccisioni di massa, attacchi false-flag, finte guerre e qualsiasi cosa possa polarizzare ulteriormente una popolazione già polarizzata.

Recentemente ho avuto modo di vedere un piccolo agghiacciante video girato nell’aula di una piccola scuola. L’insegnante dice a un bambino musulmano di restare al suo banco e poi chiede agli altri compagni, ragazzi indù, di avvicinarsi uno alla volta per dargli uno schiaffo. Ammonisce quelli che non lo hanno colpito abbastanza forte. Al momento risulta che gli abitanti indù del villaggio e la polizia abbiano fatto pressione sulla famiglia musulmana perché non sporgessero denuncia. La retta scolastica del ragazzo musulmano è stata rimborsata e lui è stato tolto dalla scuola.

Quello che sta accadendo in India non è una varietà di fascismo ad uso-internet. È una cosa reale. Siamo diventati nazisti. Non solo i nostri leader, non solo i nostri canali televisivi e i nostri giornali, ma anche vasti settori della nostra popolazione. Un gran numero di indù indiani che vivono negli Stati Uniti, in Europa e in Sudafrica sostengono questi fascisti sia politicamente che materialmente. Per il bene delle nostre anime e per quello dei nostri figli e dei figli dei nostri figli, dobbiamo reagire. Non importa se falliremo o avremo successo. Questa responsabilità non può riguardare solo noi in India. Molto presto, se Modi vincerà di nuovo nel 2024, ogni possibilità di dissenso sarà negata. Nessuno di voi in questa sala deve fingere di non sapere cosa sta succedendo.

Se me lo permettete, concluderò leggendo un brano del mio primo saggio, Un mondo senza immaginazione. È una conversazione con un’amica in tema di fallimento – ed è il mio manifesto personale come scrittrice.

Ho detto alla mia amica che la mia non era affatto una storia perfetta. E ho aggiunto che in ogni caso la sua era una visione esterna delle cose, questo dare per scontato che la felicità di una persona, o la sua realizzazione, diciamo pure, abbia raggiunto l’apice (e adesso possa solo diminuire) soltanto perché per caso ha inciampato nel “successo”. Era una visone basata sulla convinzione priva di fantasia che fama e ricchezza sia la materia di cui sono fatti i sogni di tutti.

Vivi da troppo a lungo a New York, le ho detto. Ci sono anche altri mondi. Altri tipi di sogni. Sogni in cui il fallimento è concepibile. Onorevole. A volte persino degno degli sforzi di una persona. Mondi in cui il riconoscimento non è l’unico barometro dell’intelligenza o del valore umano. Ci sono tanti guerrieri che conosco e amo, persone che valgono molto più di me, che ogni giorno vanno in guerra sapendo in anticipo che falliranno. È vero, hanno meno “successo” nel senso più triviale del termine, ma non sono certo meno realizzati.

L’unico sogno che vale la pena di avere, le ho detto, è quello di vivere finché sei in vita e di morire solo quando arriva la morte. (Preveggenza? Forse.)

“Il che significa, esattamente…” (Sopracciglia ad arco, leggermente seccata).

Ho cercato di spiegarle, ma non ci sono riuscito molto bene. A volte per pensare ho bisogno di scrivere. Così gliel’ho scritto su un tovagliolino di carta. E questo è ciò che ho scritto: “Amare. Essere amati. Non dimenticare mai la propria insignificanza. Non assuefarsi mai all’indicibile violenza e alla grossolana disuguaglianza della vita attorno a te. Cercare la gioia nei posti più tristi. Inseguire la bellezza fin dentro la sua tana. Non semplificare mai le cose complicate e non complicare ma quelle semplici. Rispettare la forza, mai il potere. E soprattutto, guardare. Cercare di capire. Non distogliere mai lo sguardo. E mai, mai, dimenticare.

Permettete che vi ringrazi di nuovo per l’onore di questo premio. Mi è piaciuta in particolare quella parte della motivazione che dice: “Arundhati Roy usa il saggio come una forma di lotta”.

Sarebbe presuntuoso, arrogante e anche un po’ stupido per una scrittrice credere di poter cambiare il mondo con i suoi scritti. Ma sarebbe un peccato non provarci, almeno questo.

Prima di andare… voglio solo aggiungere ciò che segue. Questo premio mi arriva con una bel po’ di soldi. Non rimarrà a me. Sarà condiviso con i tantissimi attivisti, giornalisti, avvocati, registi incredibilmente coraggiosi che continuano a opporsi a questo regime senza quasi nessuna risorsa.

Per quanto triste sia la situazione, sappiate che c’è una resistenza straordinaria.

Grazie.


Note

[1] The End of Imagination, recentemente ripubblicato con il titolo Un mondo senza immaginazione, nella raccolta di saggi Il mio cuore sedizioso (Ed Guanda, 2019).

[2] Pubblicato nella raccolta di saggi Azadi. Libertà, fascismo, fiction all’epoca del Coronavirus, Ed. Guanda, 2020, Traduzione di Mariella Milan.

[3] L’autrice si riferisce ai pogrom di massa nei confronti della popolazione mussulmana che si verificarono nella primavera del 2002 in Gujarath sotto l’amministrazione di Narendra Modi.


 

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