Studi di pace: ispirazione, obiettivi, conseguimenti

Johan Galtung

Discorso d’accettazione del Premio 1987 per i Giusti Mezzi di Sostentamento

La pace piace ai cuori, gli studi al cervello. Sono necessari entrambi, anzi indispensabili. ma altrettanto indispensabile è una connessione valida fra cervello e cuore.

La storia degli studi di pace è ovviamente una storia collettiva, e non è iniziata negli anni 1950 – è vecchia quanto l’umanità, come la storia degli studi di guerra, lo studio della guerra con mezzi bellicosi.  Suppongo che lo stesso valga per quelli chiamati oggi studi di sicurezza, ossia gli studi di pace con mezzi bellicosi, equilibrio di potere, equilibrio del terrore, deterrenza mediante rappresaglia credibile etc. Manco a dirlo, questo non è l’oggetto degli studi di pace, che riguardano la pace con mezzi pacifici, e penso che oggi si accetti che ciò debba esser fatto in maniera olistica e con una prospettiva globale, ossia – con terminologia più stretta – interdisciplinare e internazionale. Mi si chiede di dire qualcosa su quel che mi ha portato in questo campo. Presto detto: lo devo a tre fattori che m’incombevano non trascurabili a 18 anni:

  • L’apparato militare e gli istituti di coscrizione generale norvegesi – compresa quella letterina che mi chiedeva di servire nelle forze armate del mio paese, al tempo un paese NATO, legato a una delle superpotenze mondiali.
  • Un padre molto garbato, molto dolce e molto colto che aveva viziato per anni il suo figlio unico, permettendomi sempre, addirittura incoraggiandomi a porre quella domanda essenziale – perché, cercando pazientemente di rispondere alle mie indagini sempre più avide di sapere.
  • L’occupazione tedesca della Norvegia dal 1940 al ‘45, Soldati col Gott mit uns, quello stesso dio lodato in Norvegia, con le loro fibbie, che lasciavano tutti i norvegesi con due domande basilari: che facciamo per evitare qualunque cosa del genere in futuro? e, dovessimo essere di nuovo occupati, c’è un’alternativa nonviolenta, pacifica alla resistenza armata? Due domande, che mi si erano fatte urgenti perché mio padre una notte del febbraio 1944 fu trascinato via a un campo di concentramento, da cui torno a guerra finita, segnato dall’ esperienza.

Quindi, nulla di misterioso, semplici fonti d’ispirazione. Quando dopo tre anni di riflessione in merito feci infine richiesta di riconoscimento come obiettore di coscienza, ci aggiunsi il pensiero che mi sarebbe piaciuto dedicare la vita a studi di pace, termine quasi senza senso definito, anche per me. Però avevo letto frattanto un bel po’ di letteratura non compresa nel corso di matematica che avrei dovuto studiare, come Gandhi, Freud, Einstein etc. Per pura tenacia ottenni comunque la mia laurea in matematica. Ed ero diventato proprio uno scarso matematico lavorando su certa matematica fino allora inaudita, ma un ricercatore di pace ragionevolmente valido.

Questo per l’ispirazione. E in quanto agli obiettivi?

Sono due, né l’uno né l’altro modesti.

Il primo è la meta finale ed è esattamente lo stesso che per il movimento pacifista: l’abolizione della guerra come istituzione sociale. Suona ingenuo, nevvero? Beh, sì, come i discorsi di quelli che volevano abolire la schiavitù come istituzione sociale, e di quelli che volevano abolire il colonialismo come istituzione sociale – a tutti loro venne detto che stavano lavorando contro qualcosa di molto oscuro e misterioso chiamato natura umana.

Eppure in qualche modo riuscirono; Ci sono in giro ancora elementi di schiavitù e colonialismo, ma non come legittime istituzioni sociali, il che è un punto davvero basilare. Perché ciò avvenga, si devono trovare alternative; punto molto balordo. In un senso il colonialismo delle piantagioni fu l’alternativa alla schiavitù, e il neocolonialismo del Terzo mondo l’alternativa al colonialismo, l’uno e l’altro estremamente inaccettabili. Un ricercatore sulla pace dovrebbe badare a questo punto per non finire con un’alternativa alla guerra altrettanto inaccettabile, il che potrebbe qualificarsi come quarta delle categorie di cui sopra, mancante: guerra con mezzi pacifici; per esempio, un governo mondiale che si riferisca alla propria belligeranza come a un’azione politica?

Il secondo [obiettivo] è più come un mezzo: rendere gli studi di pace accademicamente accettabili. Qui s’è fatto un gran progresso rispetto agli inizi dei tardi anni 1950. S’insegnano studi di pace in oltre cento università degli USA, per esempio. Più importante è che abbiamo qualcosa da insegnare, un vasto corpo di conoscenze, cui possono applicarsi sempre più i due aggettivi importanti di olistiche e globali – non alla singola ricerca bensì alla totalità.

In breve, abbiamo sì qualcosa da insegnare. Quindi è quanto mai ovvio il prossimo traguardo: diplomi in studi di pace, da quante più possibili università al mondo. Ce ne servono migliaia, MPS, Master in Studi di Pace, in servizio presso organizzazioni internazionali, governative e ONG, aziende transnazionali con una coscienza – che esistono – governi con una coscienza – che pure esistono – organizzazioni volontaristiche religiose, sindacali, e più ancora quel nuovo attore di pace non trascurabile sulla scena mondiale: la municipalità. E, se questo elenco non è ancora convincente: si pensi alle molte posizioni da aprire per insegnare studi di pace a livello di scuole elementari e superiori!

Ne è passato di tempo da quando gli studi di pace potevano portare solo ad altri studi di pace come opportunità professionale – ma c’è ancora molto lavoro da fare. La Scuola di Studi di Pace all’Università di Bradford ha tracciato il cammino, l’Università ONU per la Pace in CostaRica fa un lavoro importante nella stessa direzione, e così la Sezione per la ricerca sulla pace all’Università di Uppsala, e il programma di studi su Pace e conflitto all’Università di California a Berkeley, tanto per citarne alcune. Ma serve molto, molto di più e su scala ben più vasta; un compito importante per un istituto come l’Università delle Hawaii per l’emisfero Pacifico, o l’Istituto Austriaco di Ricerca ed Educazione alla Pace per la regione europea. Perché si può fare solo in luoghi con una dirigenza immaginativa, creativa.

A questo punto provo un bravissimo compendio di dove stiamo con gli studi di pace, secondo me. Se pace è la riduzione della violenza, come l’abolizione della guerra e di fenomeni collegati, dobbiamo cominciare con una concettualizzazione migliore della violenza che nella sola parola “guerra”. Ho trovato utile distinguere frat tre tipi di violenza:

  • Violenza Diretta, sovente espressa come potere militare, di solito uccisione sbrigativa e intenzionale; (evidente)
  • Violenza Strutturale, sovente espressa come potere economico, di solito uccisione non intenzionale, lenta; (non evidente)
  • Violenza Culturale, sovente espressa come potere culturale, che legittima gli altri due tipi di potere, dicendo a chi lo detiene che ne ha diritto, perfino dovere – per esempio perché le vittime del potere diretto e/o strutturale sono pagani selvaggi, atei, kulak, comunisti, o quant’altro.     (non evidente)

Figura 1: Il Triangolo di Galtung


Ormai considero le prime due relativamente semplici. Ci sono modi per ridurre abusi su vasta scala dei poteri militare ed economico, come la deterrenza mediante una difesa difensiva non provocatoria, come alternativa ai sistemi d’arma a lungo raggio che implicano una deterrenza per rappresaglia, che la controparte guarda con sospetto come arma offensiva. E ci sono modi per ridurre abusi su vasta scala del potere economico con fiducia in sé stessi a livello economico regionale (Terzo mondo), nazionale e locale, usando fattori propri di produzione anziché diventando dipendenti da altri (“internalizzando le esternalità” e condividendo equamente le esternalità” secondo formulazioni più tecniche). Ripensare la scienza militare e quella economica!

Ma la violenza culturale, sotto forma di religioni e ideologie che si annunciano come le sole fedi valide, per il modo intero e inoltre con un Popolo Eletto nominato per diffondere quella fede ad altri, non solo come diritto a come dovere, è più difficile da trattare. Qui stiamo toccando una pietre angolare dell’identità di molti; bugia, di certo, ma, come diceva Ibsen, togliendo quella bugia alla persona media, la stai privando della felicità. Non sarebbe questo stesso una violenza? Un problema chiave per gli studi di pace, certo non risolto rigettandolo. Faccio sì che questo ed altro fungano da esempi, sperando che mettano appetito.

La pace piace ai cuori, gli studi al cervello. Sono necessari entrambi, anzi indispensabili. ma altrettanto indispensabile è una connessione valida fra cervello e cuore. Ed è ben questo, in essenza, ciò di cui trattano gli studi e la prassi di pace


EDITORIAL, 17 Jul 2023

#805 | Prof. Johan Galtung – TRANSCEND Media Service

Traduzione di Miki Lanza per il Centro Studi Sereno Regis


 

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