Addio, e grazie!, don Luigi Bettazzi, beato costruttore di pace

Enrico Peyretti

Ieri abbiamo pianto in molti, ma subito abbiamo sorriso, alla notizia mattutina della morte di Luigi Bettazzi, vescovo costruttore di pace, quindi beato, come dice Gesù in Matteo 5,9. Abbiamo sorriso come certamente ha fatto lui, valicando il colle dalla vita limitata alla vita piena. Sapeva unire ai problemi più gravi, anche drammatici, il sorriso serio, che alleggerisce la paura e sostiene la speranza attiva.

Forse pochi lo conoscono da più tempo di me: dal 1956 o 57, cioè da circa 65 anni, quando era vice-assistente nazionale della Fuci, e io tra i dirigenti centrali, poco più che ventenne. Via via nei decenni, tanti hanno visto fiorire in lui le qualità che allora cominciavamo a riconoscere. Negli ultimi circa 15 anni ha sempre partecipato agli incontri annuali che una dozzina di noi, allora nella Fuci e rimasti collegati in vari impegni, abbiamo realizzato in varie parti d’Italia, da Messina a Torino, Firenze, Roma, ecc. Lo chiamiamo il gruppo “Fuci 60”. Lui veniva sempre, come uno di noi. Almeno una volta ha detto messa in una casa delle nostre. Portava sempre le sue battute, come questa: «Se arrivo a cento anni, sono un prete… secolare!»

Gli ho fatto visita il 3 luglio scorso, dodici giorni fa, quando la sua condizione, fino ad allora buona, si fece seria e critica. Sono molto grato a chi lo assisteva con cura e amore per avermi invitato a vederlo e ascoltarlo. Era fisicamente prostrato ma lucidamente comunicativo e sorridente. Mi ha ripetuto tre volte, nonostante la fatica, perché lo ricordassi bene, un punto che immagino sia nel suo ultimo libro, che dovrebbe uscire presto. Da molto tempo scriveva un libro all’anno per tenersi attivo. Mi ha detto e ribadito questa osservazione: l’ultima cena di Gesù era la cena ebraica, perciò vi partecipavano non solo i dodici apostoli, ma le loro famiglie, le donne e i bambini. C’erano anche le donne, non solo gli apostoli! Voleva che ricordassi bene questa sua sottolineatura. Gli ho portato il saluto e l’affetto degli amici comuni, specialmente di quel gruppo che ora continuerà a riunirsi nella memoria di lui.

Ho un altro ricordo importante, poco noto, che non compare tra i tanti affettuosi e caldi interventi oggi in rete. Nel pieno della pandemia, aprile 2020, le chiese erano chiuse. Qualcuno pensò di fare “eucaristie domestiche”. Erano vere eucaristie? Io scrissi una lettera ai giornali per dire: una soluzione c’è, nell’emergenza eccezionale. Ricordando che, prima dell’invenzione del clero, «tutti i credenti … nelle case spezzavano il pane» ecc. (v. Atti degli apostoli), chiedevo che si riconoscesse ad una comunità familiare la possibilità, volendo, di compiere il «fate questo in memoria di me», come Gesù ha chiesto che facciamo, nella viva memoria di lui. Che sia definito come sacramento o no, non è decisivo: è certamente memoria reale di Gesù risorto, presente con il suo Spirito, come ci ha promesso. Non sarebbe stato un rifiuto dei ministeri riconosciuti, ma una prassi di emergenza, tutt’altro che priva di significato buono e santo. Chiedevo: si avrà il coraggio di andare alla sostanza della fede e della presenza, più che alle forme rituali e alle dottrine?

Mandai la lettera anche a Bettazzi. Fu pubblicata solo da Repubblica, edizione di Torino, il 29 aprile. Nello stesso giorno, don Luigi mi scrisse questa mail: «Carissimo, bene per la lettera. Dovremmo dirlo anche in Amazzonia. Dico sempre che queste eucaristie, impossibilitate ad avere il ministro normale, sono eucaristie  di desiderio, equivalenti come il battesimo di desiderio per chi non può avere il battesimo d’acqua. Grazie e auguri, +Luigi Bettazzi».

Tra i video di conferenze e interviste che stanno circolando di nuovo, raccomando quella in piazza ad Ivrea, in un presidio per la pace, il 7 maggio scorso.


 

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