La giustizia per tutti

La giustizia per tutti. Lettura esegetico-ermeneutica del Discorso della montagna

Enrico Peyretti

 


Ernesto Borghi, La giustizia per tutti. Lettura esegetico-ermeneutica del Discorso della montagna, Claudiana 2007, pp. 238, € 19,50

Sulla via della giustizia

Questo libro lo leggerebbe volentieri anche Gandhi, che del Vangelo ammirava moltissimo il Discorso della montagna (Matteo, cap. 5-7; Luca cap. 6), e rimproverava ai cristiani di non viverlo. Richiamate le premesse culturali dei testi, l’Autore ne offre un’esegesi scientificamente rigorosa e un’ermeneutica culturalmente aperta. Che cosa hanno voluto dire questi testi? E che cosa dicono a noi oggi? Egli intende «individuare le modalità per rendere fruibile, ai propri contemporanei, quanto di profondamente umanizzante i testi biblici contengono». Il Discorso della montagna è un paradigma di enorme rilievo nella ricerca di una giustizia che può intridere esistenzialmente le relazioni fra tutti quanti vivono questo inizio di XXI secolo. Quindi precisa anzitutto che l’etica evangelica, letta bene, non è affatto fonte di «atteggiamenti rinunciatari nei confronti della violenza e del male».

Il tema continuo è la giustizia: la sua chiarezza, il suo orizzonte pieno, la sua ricchezza e le sue esigenze e condizioni. Si tratta di una esaltante utopia? Si può praticare oggi il Discorso della montagna? La giustizia del Vangelo può diventare legge positiva?

Nella Prefazione, un magistrato del valore di Francesco Saverio Borrelli, scrive che «la giustizia comune connotata da corrispettività, reciprocità, legalismo, è incommensurabile con la relazionalità gratuita della prassi indicata dall’altra giustizia». E rileva che l’Autore stesso «ammette che è irrealistico immaginare che una compagine umana di pluralistica composizione e di qualche complessità possa adottare la legge dell’amore e soprattutto la legge del perdono come fondamento generale del proprio modo d’essere». Tuttavia rimane la speranza che «nell’esercizio concreto della giustizia umana […] si tenda piuttosto alla ricostruzione del tessuto etico interiore o alla composizione, accompagnata dalla reciproca comprensione, del conflitto intersoggettivo». E cita Nietzsche: «Nell’occhio dei vostri giudici riluce sempre per me il boia, con la sua spada gelida. Dite: dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? Inventatemi dunque l’amore, che porta su di sé non solo tutte le pene, ma anche tutte le colpe».

Nella Postfazione, il vescovo Luigi Bettazzi nota che l’Autore chiarsce bene che queste pagine evangeliche non sono una utopia proiettata nel mondo dei sogni, né un prontuario di prestazioni super-virtuose. Si tratta, invece, di un’etica esemplare, «come una luce che brilla dal fondo, che non illumina a giorno ogni tratto del percorso, ma tiene vivo l’orientamento e la determinazione a seguirlo». Non una precettistica, dunque, ma germi di rinnovamento, esigenze impegnative, valori attraenti, capaci di fecondare la prassi in molti settori di vita, dalla pace alla solidarietà, con l’incoraggiamento alla gratuità e al perdono, con la fiducia nell’umanità e nelle sue capacità, per uscire da mali come il degrado ambientale, il commercio di armi e droga, le grandi sperequazioni e le grandi violenze.

L’appello evangelico non è un peso aggiunto, ma il dono di una progressiva capacità morale, grazie alla forza dello Spirito, a vivere una umanità più umana, come Dio creatore l’ha sognata, e come è il nostro più autentico desiderio di felicità.

Sottolineo qualche passaggio del libro. Per esempio la citazione di Armido Rizzi (sintetizzo): c’è una tradizione che collega giustizia e violenza, dalla guerra giusta alle rivoluzioni dei poveri. Questo nesso non va demonizzato: anche Gandhi ammette che davanti a una violenza è meglio rispondere con la violenza che con la viltà, ma il senso più pieno è la nonviolenza, è promuovere la giustizia con la forza di resistenza e di convincimento che promana dall’offerta di amicizia, di perdono, di pace. Quella di Gandhi è la più straordinaria attualizzazione del Discorso della montagna. La storia passata non va interpretata come abbandonata alla violenza, ma come una faticosa e contorta ricerca di orientare la storia in una direzione più giusta (p. 199).

Da quando, molto presto, il cristianesimo è stato assunto dall’impero di Costantino, i cristiani hanno avuto da vivere il Vangelo non solo nella vita personale, ma anche con responsabilità nelle istituzioni sociali. Da un lato, nella storia, alcune idealità cristiane sono entrate nei princìpi sociali, per esempio nelle costituzioni democratiche basate sui diritti umani e sulla dignità della persona. Dall’altro lato, dal dettato evangelico non è deducibile un modello operativo pubblico, ma neppure si può eludere l’esigenza evangelica di non rispondere al male con il male: questo è duplicare la violenza nella «legittima difesa» privata o pubblica, giustificando la soluzione violenta dei conflitti, che perpetua male e dolore (pp. 200-201). L’Autore scrive questo nel 2007, e senza saperlo illumina le vicende legislative dei nostri giorni sulla difesa armata «sempre» legittima.

È chiaro che la giustizia che arriva al perdono non può diventare legge positiva, ma resta una libera «aggiunta» di bene. D’altra parte, nei fatti, essa è «decisiva per costruire un tessuto di relazioni umane sempre meno bisognoso di giustizia repressiva e punitiva e sempre più ricco di bellezza e di serenità effettive» (p. 204).

Il realismo riconosce come un dato di fatto i mali di questo mondo, eppure il tipo di amore evangelico racchiude una profonda fede nell’essere umano, che è in grado di migliorare se stesso e il mondo. L’amore del Dio di Gesù punta all’umanizzazione sia di chi odia sia di chi è odiato. Chi odia non è soltanto un diavolo: è un essere umano distorto, che va riconosciuto come tale perché possa ritornare umano.

L’amore disarmante non rifugge affatto dalla lotta, anzi è aggressivo, affronta i conflitti, e solleva quelli occultati. Ma getta un ponte tra l’egoismo legittimo e l’amore praticabile, combina l’egoismo illuminato con l’altruismo possibile. Fa guerra all’indifferenza, al cinismo e all’oblio, rifiuta menzogna e conformismo. Non si accontenta, non si rassegna. Ma sa usare la tattica dei piccoli passi, capace di instillare fiducia e di fare guardare avanti. Ciò vale per tutti i credenti, nel senso non ecclesiastico e non settario (pp. 213-215). Non sembrano pagine scritte per oggi?

«Chi vede in sogno una pentola si alzi al mattino e dica: “Il Signore ci dia pace in abbondanza”», si legge nel Talmud. Che c’entra la pentola? Essa fa il miracolo di separare il fuoco e l’acqua, nemici fra loro, e di farli collaborare sul proprio fondo. I due elementi contrapposti danno frutto proprio in quanto conservano i loro caratteri antitetici. La pentola fa «interposizione nonviolenta» e paga il prezzo di questa sua collocazione. Ma è grazie a lei che abbiamo la buona minestra calda, di acqua e di fuoco (cfr. pp. 47-48).

Ernesto Borghi dedica il libro a Giuseppe Barbaglio, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Indicato (spero) a grandi linee il senso di questo libro bello e intenso, oso annotare una mia riflessione, tutta provvisoria, esplorativa.

Il Dio di Gesù (che non per nulla egli chiama sempre Padre) non è giusto. Non è giusto sulla misura che noi conosciamo. Ama i cattivi come i buoni. Paga gli operai dell’ultima ora come quelli che faticano dal mattino: e i nostri sindacati e le nostre leggi giustamente protestano. Tra noi non potrebbe funzionare tutto così. Ma Gesù proclama: «Un altro mondo è possibile», come i noglobal di Seattle e di Genova.

Nel suo linguaggio egli dice: «Il regno di Dio viene, è in mezzo a voi». C’è un amore misurato su ciò che è giusto, e un amore che regala la giustizia a chi non ce l’ha. Non è un obbligo, un tale amore. Gli obblighi sono indicati nei comandamenti di Mosè, che sono il guardrail, prima di cadere nel burrone del male, della vita negata. Ci avvertono: non uccidere, non offendere, non ingannare, perché poi la vita peggiora. Ma, evitato il burrone, si tratta di camminare su una strada infinita, perché infinito è il desiderio seminato nel cuore umano (e anche nel cuore del mondo, direi).

Allora, non basta non fare il male: si tratta di mettere bene dove c’è male, di rendere bene per male, di sostituire il male con il bene, di amare i nemici che ti vogliono uccidere, e aiutarli a vivere. Questa giustizia è creativa, innovativa, è fare regali, non contratti. È la libertà dalla legge, resa inutile, come non c’è più fame dopo aver mangiato. Questa giustizia costa. È rara. Anche chi la ammira e desidera viverla, ci riesce poco, solo qualche volta.

Gesù non solo l’ha insegnata, ma l’ha vissuta. Perseguitato perché superava «l’ordine delle cose», verso una pace e felicità più grande, e sconfessava i gestori del potere della piccola legge, della piccola religione, e del grande dominio sugli esseri umani, sapeva di essere condannato dal clero e dall’impero. Ha continuato ad annunciare e vivere un amore più grande del potere, ha accettato di essere ucciso per non smentire l’amore, ha amato i suoi «fino in fondo» (Giovanni 13,1). I cristiani credono che sia risorto perché hanno capito che morire per amore è vivere pienamente, è riempire di vita il nulla della morte, è perdere poco vivendo tutto. È difficile seguirlo, è più difficile dimenticarlo.

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