18 Marzo, Washington DC: nel No alla Guerra ci sarà anche Medea Benjamin, insieme a Noam Chomsky e all’America migliore

Daniela Bezzi

Il nome di Medea Benjamin dovrebbe essere ormai familiare ai lettori di questo sito che fin dal 2015 ha cominciato a pubblicare alcuni importanti articoli che affrontano il tema della pace in senso mai astratto né teorico, ma nel vissuto di un attivismo, analisi della cause che determinano i conflitti, ricerca di conciliazione, che è da sempre la sua vita.

In quel primo articolo sul nostro sito raccontava per esempio della straordinaria esperienza di cui era stata protagonista, insieme a una trentina di altre donne, tra cui scrittrici, giornaliste, avvocatesse, rappresenti dell’ONU, nell’attraversare la zona cosiddetta demilitarizzata che da quasi 80 anni separa la Corea del Nord da quella del Sud.

“Demilitarizzata per modo di dire – osservava la Benjamin – perché la DMZ è protetta da bombe a grappolo, mine terrestri, soldati armati fino ai denti, filo spinato e attrezzature di sorveglianza che la rendono il confine più militarizzato del mondo.”

Situazione che permane ancora oggi, nonostante quella marcia in occasione della Giornata delle Donne per la Pace e il Disarmo, 24 maggio 2015; e nonostante altre successive occasioni di riconciliazione, tutte regolarmente fallite perché come sappiamo conviene di più mantenere in vita i conflitti, piuttosto che pacificarli…

Prima di quell’istruttiva incursione, le era capitato (4 dicembre 2007) di venir arrestata e immediatamente deportata da un drappello di agenti in borghese a Lahore, in Pakistan, per aver manifestato in favore di Aitzaz Ahsan, di professione avvocato e detenuto in quanto leader dell’opposizione.

Disavventura più o meno simile le capitò nel febbraio 2012 in Bahrain, ma nell’ottobre dello stesso anno eccola di nuovo in Pakistan, alla guida di una delegazione di 34 persone, per denunciare il sempre più frequente uso di droni nell’armamentario americano. La missione riuscì a sfondare il muro d’indifferenza grazie all’arrivo del leader dell’opposizione Imran Khan, che allora godeva ancora di una qualche notorietà come formidabile campione di cricket – ora non più.

Una simile situazione le era già successa nel 2006, quando era stata tra i principali organizzatori della Gaza Freedom March, con 1350 attivisti provenienti da ogni parte del mondo che si erano dati convegno al Cairo pensando di raggiungere a piedi la Palestina – peccato che tra loro non ci fosse nessuno con l’appeal mediatico di un Imran Khan. E di nuovo sperando di poter raggiungere Gaza dall’Egitto, per una conferenza di donne che si sarebbe tenuta in Palestina i primi di marzo del 2013, la Benjamin fece appena a tempo a sbarcare dall’aereo che si trovò arrestata. Durante la notte che passò in prigione venne malmenata al punto da uscirne con un braccio rotto e una lussazione alla spalla – che le toccò ‘sistemare’ in Turchia dove venne (tanto per cambiare) deportata.

Sto riportando solo una minima parte dell’avventurosa biografia di Medea Benjamin, mentre scrollo su e giù il suo lungo Wikipedia, che vi consiglio di leggere per intero perché oltre a questi episodi di particolare difficoltà, ne troverete altri non meno gustosi: come quella volta, 23 maggio 2013, in cui venne letteralmente trascinata fuori dalla National Defence University di Washington, per aver ripetutamente interrotto un discorso di Barack Obama che magnificava il ruolo degli Stati Uniti nella Guerra al Terrorismo. “Ovviamente non posso essere d’accordo con ciò che quella donna diceva… Ma sarebbe sbagliato liquidare come irrilevante ciò che diceva …” fu il diplomatico commento di Obama. Quando però Medea Benjamin era già stata deportata fuori dall’aula.

Autrice di una quantità di saggi, spesso in collaborazione con altri (il più recente dei quali intitolato War in Ukraine: Making Sense of a Senseless Conflict insieme a Nicolas J.S. Davies,

promotrice del fair trade insieme al marito fin dalla metà degli anni ’90 con una cosa che si chiama Global Exchange  e ovviamente in prima fila nelle proteste che culminarono con il grande rally del 1999 a Seattle contro il WTO, Medea Benjamin è soprattutto famosa nell’ambito del pacifismo americano come co-fondatrice di una formidabile organizzazione di donne ecopacifiste che sfidando i cosiddetti stereotipi di genere ha deciso di chiamarsi Code Pink, ovvero Codice Rosa.

Il riferimento è più che altro con il sistema di attribuzione di allarme/sicurezza in vigore non solo negli Stati Uniti che, ricorre ai colori per dire pericolo (zona rossa) oppure via libera (luce verde) ecc. Ma sta di fatto che il colore rosa è diventato il tratto distintivo di tutte le loro azioni, dai semplici flash mob alle grandi manifestazioni: dove il golfino rosa di Medea Benjamin, il cappello a larghe tese di Jodie Evans, gli ombrelli rosa anche in caso di sole pieno, o insomma qualcosa di rosa in qualsiasi forma o aspetto, aggiunge una nota di ironia e perché no gentilezza, alla durezza dell’impegno. Che è impegno proprio instancabile, come è facile capire dal loro sito https://www.codepink.org/ in continuo aggiornamento e zeppo di segnalazioni, webinars, appuntamenti.

CodePink venne fondato il 17 novembre del 2002 da Medea Benjamin, Jodie Evans, Diana Wilson, la mitica Starhawk e un centinaio di altre attiviste, con l’obiettivo di alternarsi in presidio 24h24 durante ben quattro mesi di fronte alla Casa Bianca, per cercare di impedire l’imminente invasione dell’Iraq.

Molto presto si unirono altre organizzazioni, da Greenpeace a Women for Women International, a Neighbors for Peace and Justice e altre, e il tutto culminò l’8 marzo, Giornata Internazionale della Donna, che inaugurò un’ennesima settimana di ripetuti accerchiamenti in rosa intorno alla Casa Bianca.

La cosa non fu indolore, parecchie vennero arrestate, e soprattutto niente poté opporsi alla logica guerrafondaia che il 18 marzo del 2003 segnò l’inizio dell’invasione in Irak, l’ennesima follia all’interno di quell’Operazione Enduring Freedom che nell’ottobre del 2001 era già cominciata in Afghanistan, e che sarebbe proseguita per i vent’anni successivi solo per riconsegnare un paese totalmente disastrato nelle mani dei Talebani. Dopo una spesa di 8 mila miliardi di dollari e oltre 170.000 mila morti di cui 47.000 solo tra i civili.

Ed è proprio per ricordare quella data, quello sfregio che la società civile americana non può dimenticare perché da allora la guerra è continuata pressoché infinita e ha già individuato un molto prossimo obiettivo nella Cina, che il 18 marzo vedrà convergere a Washinton DC una grande manifestazione pacifista chiarissimamente intitolata “Basta inviare armi / I soldi ai bisogni della gente / NO alla macchina della Guerra”.

Centinaia le organizzazioni, associazioni, semplici sigle che hanno aderito all’appello – e poiché in quest’ultima settimana l’appello è cominciato a circolare anche fuori US, ecco pervenire le adesioni anche dall’Europa, Uk in testa, e poi Germania, anche dall’Italia con il Comitato NoMuos/NoSigonella, quello delle Madri contro la Repressione di Cagliari e speriamo altre: ottime premesse per quella prospettiva d’internazionalizzazione in opposizione alla guerra, che sarebbe quanto mai necessaria in questo momento.

Ecco qui sotto il link, per aderire come organizzazione o anche individualmente:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSf-F9E-jwUOV5BlQu-dP6YwHPTLG5GKiRwv_Yhpolt4nsvG9g/viewform

Inutile dire che per raggiungere Washington il 18 marzo in tempo per l’inizio del rally alle ore 13 (che per noi in Italia saranno le 18) si stanno organizzando da giorni vari autobus da ogni parte degli States, oltre alle mobilitazioni ‘sorelle’ che si svolgeranno in contemporanea a Los Angeles, Fresno, San Francisco, San Diego, Chicago, Springfield, Milwaukee, Detroit, Racine, persino New Mexico ad Albuquerque.

E proprio mentre chiudiamo queste note ecco che arriva un primo elenco degli speakers che parleranno dal palco: Noam Chomsky che non ha bisogno di presentazioni, Jaqueline Lukman (Black Alliance for Peace), il nativo Mie Inouye (Oahu Water Protectors), Gabriel Shipton (fratello di Julian Assange), ovviamente Medea Benjamin (Code Pink), e molti altri, rappresentanti delle tante situazione dal basso, comunità di artisti, media indipendenti, situazioni di fair trade ecc che anche in America si impegnano per il cambiamento: sinceri applausi agli organizzatori!

Organizzatori che insieme alla già citata Code Pink, sono Answer Coalition, fondata subito dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, di orientamento più esplicitamente socialista, con sede a Washington e affiliazioni in numerose altre città; e The People’s Forum, con sede a New York in forma di libreria, caffè, spazio eventi, qualcosa tra il Centro Culturale e quello che in Italia sarebbe un Centro Sociale, con un fitto calendario di eventi anche online e un raggio di aggregazione ben oltre NY City.

E insomma veniamo a scoprire una realtà talmente sfaccettata e straordinaria in questo attivissimo movimento pacifista in US, che senz’altro ci proponiamo di seguire d’ora in poi con la massima attenzione. Realtà tra l’altro organizzatissime sul fronte della comunicazione e del fare rete, che non hanno mai smesso di attivarsi su tutti i possibile fronti della guerra, dei diritti fondamentali, dei soprusi contro le minoranze, delle crescenti diseguaglianze, della pace continuamente compromessa dagli interessi economici, dentro e fuori i confini degli Stati Uniti.

E che anche prima del conflitto russo-ucraino, non hanno perso occasione di denunciare quella guerra che si combatte anche a colpi di sanzioni, che gli Stati Uniti infliggono a ben 40 Paesi. “Anche in seguito ai peggiori disastri, come il recente e mortale terremoto” recita il comunicato di Answer Coalition “Washington mantiene le sue crudeli sanzioni in Siria”.

Nell’attesa di proseguire in questa esplorazione, ecco spuntare dagli archivi della nostra testata ‘sorella’ Pressenza questa bella intervista, che Anna Polo e Dario Lo Scalzo fecero proprio a Medea Benjamin durante il Congresso mondiale dell’International Peace Bureau tenutosi a Berlino dal 30 settembre al 2 ottobre 2016. Senz’altro da rivedere, attualissima anche oggi.


 

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.