Fine lavoro mai

Fine lavoro mai

Cinzia Picchioni

Ivan Carozzi, Fine lavoro mai, eris, Torino 2022, pp. 64, € 6,00, stampato su carta FSC misto: carta da fonti gestite in maniera responsabile; rilasciato con la licenza Creative Commons: “Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate, 3.0” consultabile in rete sul sito www.creativecommons.org

Lavoro come pena

recensione di Cinzia Picchioni

Il riferimento del titolo è chiaro. «Fine pena mai»[1] è il modo per dire «ergastolo». E questo fulminante scritto cerca – e ci riesce – di trasmettere l’idea che il lavoro «smart», digitale, da casa o nel rifugio in montagna sia in realtà «senza fine», «fine lavoro mai» appunto.

E ci riesce, eccome, in modo bello (la scrittura scorrevole e ben strutturata, in alcuni casi somigliante a una sceneggiatura) e doloroso.

La bellezza la noti subito, anche perché leggi il libro «tutto-d’un-fiato» senza stancarti perché e ben scritto. Anche la formula scelta – brevi racconti singoli – aiuta la lettura.

Il dolore invece viene fuori dopo un po’… per quanto mi riguarda è arrivato a pagina 44, con il racconto La vite (che non riguarda il vino né la vendemmia). Lo so che scrivendo non si dovrebbero usare i superlativi, ma è bellissimo e doloroso. Almeno per me, che da anni cerco di stare lontana dal mondo digitale quanto più posso. E scrivo articoli e recensioni «contro» la digitalizzazione a tutti i costi, e non ho – né voglio – neppure un cellulare, così posso stare fuori dai cosiddetti «social» che hanno poco di «sociale»; e non scarico alcunché da internet, e i film vado a vederli al cinema (o in tv), e mi è piaciuto trovare più di un riferimento cinematografico tra le pagine di questo libro. Uno in particolare mi ha fatto pensare: a p. 42 l’autore, per descrivere un vecchio amico, ne cita la somiglianza con attori come Ethan Hawk o Kevin Bacon; ed è stato bello, per me, ricordarli e visualizzarli subito nella mente (e senza Google). Il primo nell’indimenticabile L’attimo fuggente e l’altro nel sottovalutato Sleepers. Entrambe le pellicole narrano storie di adolescenti «reclusi»; un po’ come finiscono per sentirsi i protagonisti del nostro libro di questa settimana. E secondo me non è un caso.

Figli e figlie schiavi e schiave

Il dolore in realtà permea tutti racconti, dall’inizio alla fine, soprattutto se – come me – hai un figlio, una figlia, un/una nipote intorno ai 30 anni, che «lavorano». Allora quei racconti li hai già ascoltati, raccontati in diretta, lamentele comprese. E così ti viene un po’ di tristezza, pensando che il «lavoro» non c’è più. Che il valore/lavoro non c’è più. E che i 30enni di oggi non vogliono più sentire che «il lavoro nobilita l’uomo».

Dolore e nostalgia

I due sentimenti qui sopra si sono mescolati, per me, nelle prime pagine, quando ho scoperto che un po’ tutte le storie sono ambientate a Milano (mia città natale), ma addirittura in Viale Monza, dove ho abitato per anni, giovanissima, in una soffitta. Milano mi manca sempre e quindi grazieper avermi fatto camminare un po’ sulle sue strade. Infine anche un’altra passione, lo yoga (che insegno dal 1987), ha trovato posto in queste pagine. L’autore racconta di aver letto per la prima volta la parola vritti, di cui la città dove abita (Milano?) è piena. Vritti indica ciò che disturba la mente e che lo yoga tenta di placare.   Tutto questo – riflessioni sullo yoga e la scrittura comprese – e altro l’ho trovato fin dal primo capitolo, Benino. Che non è un avverbio, come si può pensare (un po’ tutti i titoli dei racconti non sono ciò che sembrano. Altro pregio della scrittura di questo libro); Benino è il nome del pastorello che dorme nel presepe. Che non va assolutamente svegliato perché sta sognando il presepe. Ed è per questo che il presepe esiste. Meraviglioso, no?

Fine libro ora

Preferisco usare le parole della quarta di copertina del libro per concludere. E per invitare a comprarlo (in una libreria di quartiere, non con Amazon) e/o leggerlo prendendolo in prestito alla Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis di Torino (per poi magari acquistarlo ugualmente e regalarlo a qualche rider che conoscete):

«Dalle esperienze raccontate in questo saggio traspare l’urgenza di mettere al centro del dibattito collettivo le reali condizioni lavorative e psicologiche generate e causate dal lavoro digitale […] Essendo costantemente contattabili […] il lavoro arriva a contaminare ogni aspetto dela nostra vita personale, rendendoci infelici, gettandoci in uno stato di solitudine e frustrazione. […] Dietro l’illusione di un lavoro […] digitale, che fai dove vuoi, spesso si cela la condizione di persone che lavorano senza sosta, sentendosi in colpa quando non lo fanno, al punto che il lavoro diventa una prigione soffocante»: fine lavoro mai? C’è un altro modo?.


[1]Oltre che un libro di Flaminia Lovecchio, Fine pena mai, e un film di Davide Barletti e Lorenzo Conte, Fine pena mai: Paradiso perduto, 2008, 90 min., protagonista Claudio Santamaria

 

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