I contadini dell’India hanno vinto in pieno, nel totale fallimento dei media

Autore
Palagummi Sainath


I contadini dell’India hanno vinto
Illustrazione di Antara Raman

È di pochi giorni fa la notizia che i contadini dell’India hanno vinto in pieno contro le famose tre ‘black laws’. Imposte oltre un anno fa, sono state finalmente abrogate dal Governo Modi. Per questo sito ne ha già scritto Marinella Correggia il giorno stesso dell’annuncio.

Passate al Parlamento indiano nel settembre 2020 senza alcuna consultazione con i Governi locali, quelle tre leggi sono diventate l’oggetto di una straordinaria e mai interrotta protesta, mirabilmente coordinata dalla più ampia coalizione sindacale, che si è poi estesa dalla periferia di Delhi a tutta l’India – nella quasi totale indifferenza dei nostri media (eccezion fatta per il nostro Centro Studi Sereno Regis che sul tema ha promosso un bel convegno oltre a vari articoli usciti prima e dopo), ma con enorme seguito sulla stampa indiana, e narrazioni molto diverse, a seconda degli orientamenti.

Tra le testate che fin dall’inizio hanno seguito con maggiore partecipazione l’affermarsi di questo Movimento in tutte le sua fasi e ben oltre le iniziali rivendicazioni sindacali nel settore agricolo – ovvero, per la sua grande capacità attrattiva, di istanze in grado di opporsi allo strapotere di Narendra Modi e contribuire alla costruzione di un’alternativa anche politica, in termini di diverso modello di sviluppo – dobbiamo senz’altro segnalare il web site PARI (People’s Archive of Rural India) fondato da quella leggenda vivente del giornalismo indiano che è P. Sainath (ex Corrispondente per gli Affari Rurali del quotidiano The Hindu, più volte premiato per le sue accuratissime inchieste) e presente con la sua rete di collaboratori nelle più remote regioni dell’India.

Online si trova l’archivio completo di questa copertura, ricchissima di spunti e angolazioni sempre diverse e mai solo celebrative. A seguire ecco l’ultimo articolo dello stesso P. Sainath a commento di questa vittoria “non solo per i contadini… ma per l’intera India”, come appunto conclude.

E da parte nostra vorremmo aggiungere: “non solo per l’India… ma per tutti noi”; perché la storia di questa vittoria, nonostante i tanti alti e bassi, le sofferenze, la durezza, le centinaia di morti, gli articoli così spesso denigratori etc, è un case study esemplare per tutti i movimenti che in questo momento stanno opponendosi alle logiche di uno sviluppo sempre più dominato dagli interessi corporativi, ma senza alcun futuro per il pianeta e per chi ci vive. Buona lettura! [DB]

L’articolo di P. Sainath

L’abrogazione delle famose tre leggi che il settore agricolo indiano ha fortemente contestato nell’arco dell’ultimo anno, è stata possibile non a causa dell’incapacità di ‘persuasione’ da parte del primo ministro Narendra Modi, ma perché un’enorme maggioranza di lavoratori del settore agricolo ha portato avanti la protesta con straordinaria compattezza e unità, nonostante i media abbiano cercato di denigrare in tutti i modi le ragioni della loro lotta.

Quello che i media non potranno mai ammettere apertamente è che la più grande e pacifica protesta democratica che il mondo abbia visto da anni – certamente la più grande scoppiata nel bel mezzo di una pandemia – ha ottenuto una vittoria straordinaria.

Una vittoria che andrebbe considerata anche per ciò che significa. Contadini di ogni genere, casta, posizione sociale, uomini e donne insieme – compresi quelli delle comunità adivasi e dalit – hanno giocato un ruolo cruciale nella lotta di questo paese per la libertà. E tutto questo è successo nel 75imo anno della nostra indipendenza come nazione. Gli agricoltori che sono rimasti accampati alla periferia di Delhi per mesi e mesi, hanno ribadito precisamente lo spirito di quella lotta cruciale.

Il 19 novembre scorso il primo ministro Modi ha annunciato che nella prossima sessione invernale del Parlamento che avrà inizio il 29 di questo mese, farà marcia indietro e abrogherà le tre leggi oggetto della protesta. Ha giustificato questa decisione per il fatto di non essere riuscito a persuadere “una parte degli agricoltori, nonostante i migliori sforzi”.  Da notare quel “solo una parte”, come se la maggior parte fosse disposta a riconoscere nelle tre contestatissime leggi agricole, un qualche merito o vantaggio.

Non una parola su (o in ricordo de) gli oltre 600 agricoltori che sono morti nel corso di questa storica resistenza. Il suo fallimento, ha chiarito, riguarda solo le sue capacità di persuasione, per il fatto di non essere riuscito a convincere anche quella “sezione refrattaria” di agricoltori. Nessun accenno al ben più grave fallimento che riguarda le leggi stesse, né per il modo con cui il suo governo le ha fatte passare proprio nel mezzo di una pandemia.

E così, i cosiddetti Khalistani (1), per non dire dei soliti anti-nationals, degli attivisti che si sono infiltrati travestiti da agricoltori, sono diventati solo “una parte degli agricoltori”, che si sono rifiutati di venir persuasi dall’irresistibile fascino del signor Modi. Rifiutati? di essere persuasi? E quali sono stati i modi e metodi di questa persuasione? L’aver negato loro il diritto di raggiungere il centro di Delhi per manifestare le loro giuste ragioni? Bloccandoli con trincee e filo spinato? Colpendoli in pieno inverno con gli idranti? Trasformando i loro accampamenti in piccoli gulag? Permettendo che ogni giorno i contadini venissero ridicolizzati dai media compiacenti? E magari investendoli con dei potenti SUV  – presumibilmente di proprietà di un ministro dell’Unione o di suo figlio (come in effetti è successo qualche settimana fa? È questa l’idea di persuasione del governo Modi? Se questi erano i suoi “sforzi migliori”, non vorremmo vedere quelli peggiori.

Solo nell’arco di quest’anno il primo ministro Modi ha effettuato almeno sette trasferte all’estero, l’ultima è stata a Glasgow per la CoP26. Ma non ha trovato il tempo di spostarsi a pochi chilometri dalla sua residenza di Delhi, per incontrare le decine di migliaia di agricoltori accampati da mesi alle porte della città, nelle condizioni di sofferenza che pure erano riuscite a toccare il cuore di tanti in tutta l’India. Almeno questo, sarebbe stato un non piccolo sforzo di persuasione.

Fin dal primo mese di questo lungo anno di proteste, sono stato spesso intervistato dai media e altri osservatori. Tutti a un certo punto mi hanno rivolto le stesse domande… Quanto potrà andare avanti? Fino a quando i contadini potranno resistere? Ebbene, gli stessi contadini hanno risposto a questa domanda. Ma sono i primi a sapere che questa vittoria, pur straordinaria, è solo un primo passo. Con questo annuncio di abrogazione delle tre leggi il settore corporativo ha solo tolto il ginocchio dal collo del settore agricolo – ma restano sul tappeto molti altri problemi, dal MSP (Minimum Support Price, meccanismo con cui il governo indiano assicura ai contadini un prezzo di vendita minimo – ndr] e le modalità di attribuzione degli appalti, a questioni molto più grandi di politiche economiche.


Dai vari talk shows televisivi apprendiamo – come se fosse chissà quale rivelazione – che questa improvvisa marcia indietro da parte del governo, deve avere qualcosa a che fare con le elezioni amministrative previste in ben cinque stati il prossimo febbraio. Ma gli stessi media hanno evitato di commentare i risultati elettorali in 29 assemblee e 3 circoscrizioni parlamentari, il 3 novembre scorso. Andate a rileggere gli editoriali di quel periodo – per capire il livello di superficialità dei nostri analisti politici. Passavano in rassegna i partiti al potere e in quanto tali destinati (secondo loro) ad essere rieletti, registravano una certa rabbia a livello locale – e non solo verso il BJP e altri formazioni politiche.  Pochi editoriali avevano qualche parola da spendere sui due fattori che avrebbero davvero influenzato quei risultati elettorali: le proteste del settore agricolo e la pessima gestione del Covid-19.

L’annuncio di venerdì 19 novembre del signor Modi dimostra che almeno, e finalmente, ha saggiamente interpretato l’importanza di questi due fattori. Si è reso conto di alcune significative sconfitte che hanno avuto luogo in quegli stati dove l’agitazione degli agricoltori è stata particolarmente intensa. Stati di notevole importanza, come il Rajasthan e l’Himachal – ma che i media non avevano mai tenuto in considerazione nelle loro analisi, ripetendo a pappagallo che la protesta riguardava solo gli stati del Punjab e dell’Haryana.

Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo visto il BJP, o qualsiasi formazione del Sangh Parivar(letteralmente: ‘famiglia del Rashtrya Swayamsevak Sangh’, l’organizzazione paramilitare di volontari che persegue il progetto di un India integralmente Hindu – ndr) arrivare terzo e quarto in due circoscrizioni del Rajasthan? O incassare la sconfitta che hanno ricevuto in Himachal, in cui hanno perso tutti e tre i seggi dell’Assemblea e un seggio del Parlamento?

In Haryana, come hanno detto i manifestanti, c’era l’intero governo locale a fare campagna per il BJP; e il Congresso aveva stupidamente presentato un candidato debolissimo al posto di Abhay Chautala; che si era dimesso per esprimere il suo sostegno alla protesta dei contadini – e il BJP ha perso anche lì.

Tutti e tre questi stati hanno sofferto l’impatto delle proteste dei contadini – e, a differenza del settore corporativo, il primo ministro Modi l’ha capito. L’impatto di quelle proteste nell’Uttar Pradesh occidentale, a cui si è aggiunto il clamoroso autogol degli omicidi verificatisi a Lakhimpur Kheri, e con le elezioni che si terranno in quello stato tra ca 90 giorni, è stato una doccia di realtà.

Tra tre mesi, il governo del BJP dovrà rispondere alla domanda – ammesso che l’opposizione avrà il coraggio di sollevarla – circa la promessa di raddoppiare il reddito degli agricoltori entro il 2022. La 77° edizione del National Sample Survey (rapporto che dal 1950 analizza vari dati socio- economici in oltre 50 settori in India – ndr) evidenzia in effetti un sensibile calo della quota di reddito per gli agricoltori. Figuriamoci se potrà verificarsi un complessivo raddoppio entro il prossimo anno! Il declino del reddito da ogni genere di coltivazione in tutto il settore agricolo dell’India, è un dato di fatto indiscutibile.

In realtà ciò che l’unità dei coltivatori ha ottenuto va ben oltre l’abrogazione di quelle tre pessime leggi. La loro lotta ha profondamente pesato sugli equilibri politici di questo paese, esattamente come la loro sofferenza riuscì ad influire sui risultati delle elezioni generali del 2004.

Sia chiaro: questa non è la fine della crisi agraria. È piuttosto l’inizio di una nuova fase della battaglia nel merito di questioni ben più ampie di quella crisi. Le proteste degli agricoltori sono in corso da molto tempo ormai. E si sono manifestate con particolare forza nel 2018, quando i contadini in maggioranza adivasi del Maharashtra hanno elettrizzato la nazione con quella straordinaria marcia a piedi di 182 km da Nashik fino a Mumbai. Anche in quel caso, il processo di denigrazione è iniziato con la definizione di “urban naxal” all’intero movimento: come se non si trattasse di veri agricoltori, e via di questo passo. La forza di quella marcia ha però avuto ragione di ogni diffamazione.

Oggi festeggiamo dunque molte vittorie. Non ultima quella che i contadini hanno ottenuto sui media del settore corporativo. Sulla questione agricola (come su tante altre questioni) quei media hanno funzionato come batterie AAA di potenza superiore: Ambani+Adani/Amplificatori+.

Tra dicembre e il prossimo aprile, ricorderemo i 200 anni dal lancio di quelle due importanti pubblicazioni, entrambe iniziative di Raja Rammohan Roy (NOTA 2) che possono considerarsi l’inizio di una stampa indiana degna di questo nome, sia in termini di proprietà che di contenuti. Una di queste pubblicazioni, Mirat-ul-Akhbar (Specchio delle Notizie, fondato il 12 aprile 1822 durò un solo anno – ndr), ebbe il merito di denunciare l’amministrazione angreziana (storpiatura per definire lo strapotere coloniale – ndr) per l’uccisione di Pratap Narayan Das, a causa di una sentenza emessa da un giudice in quella che era allora Comilla (ora a Chittagong, Bangladesh).

Il robusto editoriale di Roy fece sì che il giudice venisse indagato e processato dalla più Alta Corte dell’epoca. Il Governatore Generale reagì a tutto questo terrorizzando la stampa. Promulgando l’ennesima ordinanza draconiana sulla stampa, cercò di mettere tutto a tacere. Tuttavia Raja Rammohan Roy rifiutò il ricatto, e annunciò che avrebbe chiuso il Mirat-ul-Akhbar piuttosto che accettare quelle che definì leggi degradanti, in circostanze umilianti. E continuò a portare avanti la sua battaglia su altre testate o lanciandone di nuove!

Quello sì che era giornalismo di coraggio! Non il giornalismo di sottomissione clientelare, o vera e propria resa, che abbiamo visto sulla questione delle proteste agricole. Che si è occasionalmente espresso con una patina di “preoccupazione” per gli agricoltori, mentre uscivano editoriali che li descrivevano come benestanti possidenti “che però vaneggiano di socialismo dei ricchi”.

Sulle pagine dell’Indian Express, del Times of India, l’intera gamma dei giornali, i protagonisti di questa protesta sono stati rappresentati come bifolchi rurali che hanno solo bisogno di essere persuasi, con chissà quale pazienza. Articoli che però finivano invariabilmente con la raccomandazione di non abrogare le famose tre leggi, essendo buone e giuste!

E quando mai è successo che qualcuna di queste testate – così accurate sulla situazione di stallo tra agricoltori e settore corporativo – informasse i suoi lettori circa la ricchezza personale di Mukesh Ambani, che ormai ammonta a 84,5 miliardi di dollari (fonte: Forbes 2021) e si sta quindi avvicinando al PIL dell’intero stato del Punjab (circa 85,5 miliardi)? O che la somma delle ricchezze di Ambani e Adani (che ha raggiunto i 50,5 miliardi di dollari) supera il PIL degli stati del Punjab e dell’Haryana messi insieme?

Quali sono le conseguenze è presto detto: Ambani è il più grande media tycoon in India. E il più grande inserzionista in quei media che ancora non possiede. La ricchezza di questi due baroni del settore corporativo viene regolarmente descritta con toni celebrativi: giornalismo della sudditanza.

E infatti, già cominciano a circolare le speculazioni su come e perché la marcia indietro del governo Modi rispetto alle tre leggi, sarebbe in realtà una “astuta strategia” – e quanto potrà “influenzare” il voto delle imminenti elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Legislativa del Punjab. Circa il fatto che Amarinder Singh (Ministro del Punjab fino alle dimissioni del 18 settembre scorso – ndr) ha già in tasca la vittoria dopo che si è dimesso, e proprio in previsione di questa “mossa” di Narendra Modi. E come tutto questo potrà modificare il quadro dei sondaggi.


Ma le centinaia di migliaia di persone che in quello stato hanno partecipato a questa lotta, sanno bene di chi è la vittoria. Il cuore della gente del Punjab è con i tanti siti della protesta, che hanno sopportato uno dei peggiori inverni di Delhi da decenni, un’estate torrida, lo scroscio delle piogge subito dopo – e che hanno ricevuto il più miserabile dei trattamenti da Mister Modi e dai suoi media vassalli.  

La cosa più importante che i manifestanti hanno ottenuto è proprio questa: essere riusciti a ispirare ben oltre il loro settore, lo spirito di resistenza nei confronti di un governo che non sa fare altro che gettare in prigione i suoi detrattori, quando non li perseguita e li tormenta fino allo sfinimento. Che arresta tranquillamente i suoi cittadini, compresi molti giornalisti, in base a quell’ordinamento draconiano che si chiama UAPA (acronimo che sta per Legge per la Prevenzione dei Comportamenti Illegali – ndr), e che reprime i media indipendenti per cosiddetti “reati economici” (il riferimento è a Siddharth Varadarajan, co-fondatore e direttore del website The Wire – ndr).

Questa ritirata del Governo quindi non è solo una vittoria per i contadini. È una vittoria per tutte le battaglie per le libertà civili e i diritti umani in corso in India. Una grande vittoria per l’India intera.


Note

  1. il riferimento è al Khalistan (Terra della Khalsa) che il movimento separatista Sikh ha invocato in passato come progetto di sovranità e riunificazione per la regione del Punjab indiano e pakistano.
  2. Raja Ram Mohan Roy (1772 – 1833) filosofo, considerato il fondatore del modernismo riformatore indiano. Nel 1829 ottenne l’abolizione della pratica del rogo delle vedove (sati) grazie a un’azione di sensibilizzazione e diffusione del concetto di fratellanza.

Palagummi Sainath

P. Sainath è editore fondatore dell’Archivio popolare dell’India rurale. È stato un reporter rurale per decenni ed è l’autore di “Everybody Loves a Good Drought”.

Foto: Mullookkaaran, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons


Fonte: People’s Archive of Rural India, 20 novembre 2021       

http://ruralindiaonline.org/en/articles/farmers-win-on-many-fronts-media-fails-on-all/

Traduzione di Daniela Bezzi per il Centro Studi Sereno Regis


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