Il giorno in cui il mondo disse no alla guerra

Giulia Faraci

 


Il giorno in cui il mondo disse no alla guerra: il racconto del 15 febbraio 2003, la più grande manifestazione per la pace di sempre.

Il giorno in cui il mondo disse no alla guerra


Raffaela Bolini, responsabile relazioni internazionali dell’ARCI, da sempre attivista per la pace, contro il razzismo e per la solidarietà internazionale, ci racconta la propria esperienza di quel 15 febbraio 2003, in cui l’Italia insieme al resto del mondo fece la più grande manifestazione per la pace di sempre. Con lo slogan “Not in my name” si manifestava contro la guerra all’Iraq. In Italia, 3 milioni di persone “invasero” Roma. La più grande manifestazione della storia, in cui l’umanità disse NO alla guerra, tanto che il New York Times scrisse che era nata la seconda potenza mondiale del pianeta. I governi decisero, contro le loro opinioni pubbliche e quello straordinario movimento, di scatenare comunque la guerra all’Iraq, contribuendo per quella via a rendere più insicuro e ingiusto il mondo che viviamo.

La Bolini ci racconta come fu possibile la riuscita di una manifestazione di tale portata. In primis ci dice che l’Italia aveva e ha, uno dei più grandi movimenti pacifisti e questo giovò soprattutto dal punto di vista dell’organizzazione. Il secondo motivo fu proprio la presenza di Un ponte per, che siccome era sul campo da anni aveva l’autorevolezza di fornire esperienza e competenza a tutti e di fare controinformazione credibile. Ma soprattutto quello che permise al 15 febbraio di esistere fu la forza del movimento altermondialista. Quel giorno fu il frutto di una ribellione di massa contro il neoliberismo e la globalizzazione dell’ingiustizia. Senza il movimento no global non si sarebbe riuscito a ottenere lo stesso risultato.

Si attuò una forte convergenza antisistemica, tutte le forze risultarono necessarie e utili per cambiare il mondo. Questo, rese capaci i movimenti di capire quali fossero i momenti in cui la storia stava cambiando per tutti, dando l’occasione di mobilitarsi anche su temi che non erano di stretta competenza per molti. Per la guerra in Iraq, continua la Bolini, si mobilitarono tutti, non solo i pacifisti a tempo pieno. Dopo quel periodo una convergenza così non ci fu più e questo lasciò spazio alla frammentazione. In essa si svilupparono competenze e pratiche fortissime, tuttavia, queste risultarono essere un grande punto debole. Non solo perché movimenti frammentati pesano meno ma anche perché il potere che sopravvive mettendo in competizione i bisogni, approfittò di questa frammentazione diffusa. Basta pensare al continuo conflitto che tutti i giorni ci viene proposto fra diritti dei migranti-diritti degli italiani e fra ambiente-lavoro.

 Il 15 febbraio 2003 riuscì anche perché fu il momento in cui si usò alla perfezione la metodologia del movimento. Infatti, si tende sempre a osservare i contenuti e le forme di lotta, ma molto poco la metodologia, che è proprio ciò che permette ai sogni di diventare realtà o perlomeno di fare passi in avanti. 

Tre aspetti contribuirono a costruire il 15 febbraio, ci spiega la Bolini:

  1. forte ruolo delle alleanze. Significativo ruolo degli Stati Uniti. I due movimenti più attivi eravamo noi italiani e i britannici. Nonostante i pochi aspetti in comune: italiani pacifisti “a tutto tondo” e i britannici antimperialisti da anni. Tuttavia, da posizioni differenti, si riuscì a cooperare in maniera forte e rapida per un obiettivo comune.
  2. Il tempo. Molti contrappongono le manifestazioni di massa con le pratiche sul territorio. Come se le prime fossero effimere e le seconde siano costruttrici di altra cultura e società. Ma non è così. Quelle che rimangono davvero nella storia hanno dietro un grande lavoro di educazione di territorio e di rete.
  3. L’appello. Fatto di pochissime righe perché qualsiasi parola in più avrebbe fatto uscire le diverse opinioni culturali.

Non si riuscì a fermare la guerra ma il movimento no global cambiò diverse cose. In America latina c’è stata l’ondata progressista, in Medio Oriente le rivoluzioni, negli USA il processo che ha portato a Obama. Tutti processi complicati e contradditori. Non ci fu una madre o un padre di questa rivoluzione ma furono tante le donne e gli uomini a ispirare.

Patrizia Mancini, attivista e giornalista del sito nawaat.org, ci offre uno spettro dall’attualità di questi giorni per collegarsi a strutture di movimenti passati. Recentemente si sono riattivati i movimenti di Tunisi, la cui storia comincia nel 2011 con la rivoluzione tunisina. Il momento cruciale in cui questi movimenti si sono sentiti violati e traditi è stato alla fine del febbraio 2011 durante il sit in della Kasbah 1 e 2 con l’occupazione dello spazio pubblico avevano presidiato la piazza sede del governo. Quell’evento fu incredibile, ci fu una messa in comune di punti di vista differenti che per la prima volta, dopo 60 anni di dittatura, potevano incontrarsi in uno spazio comune. Fu dunque un’esperienza di democrazia diretta, che purtroppo il governo ha represso ferocemente nel sangue.

Fu una rivoluzione definita passiva, uccisa dall’arrivo dei partiti. Prima, infatti, si trattava di movimenti spontanei ma con l’intrusione delle fazioni politiche e dei leader, la ricomposizione dell’élite ha fatto in modo che venissero manipolate le rivendicazioni di queste persone, in maniera da “dare soddisfazioni immediate”, per poi riprendere la politica precedente. Questi movimenti però non si sono mai fermati dal 2011 a oggi e si sono continuamente riproposti tramite sit in. Ci sono state diverse esperienze interessanti ci racconta la Mancini, come ad esempio quella dell’autogestione in terre storicamente occupate da coloni francesi riprese poi dallo stato dopo l’indipendenza e mai restituite ai proprietari. Nel 2011 i vecchi contadini si sono riappropriati delle terre e hanno attuato una redistribuzione dei proventi creando diverse iniziative per dimostrare che attraverso questa forma di democrazia rappresentativa e diretta si sarebbero potuti apportare significativi cambiamenti.

In conclusione, l’importanza del 15 febbraio non fu soltanto la presenza di 110 milioni di persone in piazza nel mondo, ma che questa grande massa di persone aveva la solidarietà e il consenso, anche di coloro che non erano fisicamente presenti. Nonostante il sentimento contrario a questa guerra, il governo non ascoltò. Non riuscì a tradurre, o non volle tradurre questo in una posizione politica dell’Italia.

Autrice
Giulia Faraci


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