Strategia rivoluzionaria e prudente: Nelson Mandela
Non so se riesco a intendere e a svolgere l’articolo che mi è richiesto. Mi sembra che sia richiesto di descrivere il significato di un cammino e un passaggio, nella vita e nell’azione di Nelson Mandela in Sudafrica, dalla strategia rivoluzionaria, anche con l’uso della violenza, alla trattativa politica, diplomatica, realistica, moderata, tenace, infine efficace. Cioè, una strategia prudente invece che rivoluzionaria-violenta, secondo la virtù della saggezza pratica, nel perseguire il grande fine della liberazione dall’apartheid e della uguaglianza democratica tra neri e bianchi. Ma è stato questo il percorso di Mandela?
In un momento già avanzato della trattativa che Mandela, ancora in carcere (dove rimase per 27 anni), conduceva col governo, come capo morale dell’African National Congress, egli fu condotto ad un incontro col presidente De Klerk (13 dicembre 1989). Fu un passo sostanzialmente positivo, ma Mandela racconta: «Quindi sollevai la questione della mia scarcerazione (..) e ribadii che se all’esterno avessi trovato le stesse condizioni di quando ero stato arrestato avrei ricominciato a fare le stesse cose che mi avevano valso la prigionia» (Mandela, p. 514).
E quali erano le stesse cose? Nel 1952, l’ Anc scriveva al governo di avere «esaurito tutti i metodi costituzionali conosciuti per far valere i diritti della sua gente, e che se entro il 29 febbraio non fossero state abrogate le sei “leggi ingiuste”, sarebbe stato costretto a intraprendere azioni extracostituzionali». La risposta del governo fu una “dichiarazione di guerra”. Cominciarono i preparativi per un’azione di massa di disobbedienza civile. Ci furono le prime manifestazioni. Mandela fu incaricato di organizzare la campagna. Si doveva decidere se seguire i princìpi gandhiani della nonviolenza, sostenuti con forza da Manilal Gandhi, figlio del Mahatma. Fu deciso che «la nonviolenza era una necessità pratica piuttosto che una scelta. Io – scrive Mandela – ero schierato su questa posizione (…). A mio avviso il metodo della nonviolenza doveva essere applicato nella misura in cui si dimostrava efficace» (Mandela, p. 128-129). È la classica posizione della nonviolenza pragmatica, funzionale, non di principio.
In una intervista rilasciata a Charlie Rose, il 30 settembre 1993, dopo la liberazione (Falk 2013), viene chiesto a Mandela: «Lei, in questo momento non ha alcuna riserva o indecisione a riconoscere che le decisioni prese da lei e dai suoi colleghi sono giuste per il Sudafrica, a riconoscere che i sacrifici, il tributo, il prezzo che ha pagato, il sangue che è stato versato, era necessario, doloroso, ma necessario?».
Mandela risponde: «Assolutamente. Siamo un’organizzazione che, fin dalla sua fondazione, si è impegnata a costruire una nazione per mezzo di una lotta pacifica, nonviolenta, e disciplinata. Siamo stati costretti dal regime a ricorrere alle armi, e la lezione della storia è che per le masse popolari, i metodi delle lotta politica che usano, sono determinati dall’oppressore stesso. Se l’oppressore usa mezzi pacifici, gli oppressi non ricorrerebbero mai alla violenza. E’ quando l’oppressore – oltre alle sue politiche repressive – usa la violenza, che gli oppressi non hanno alternative, se non di vendicarsi con analoghe forme di azione. E perciò i dolori, il sangue che è stato versato, e le responsabilità di questo, poggiano direttamente sulle spalle del regime».
Quindi Mandela, pur avendo agito personalmente in modo decisivo con mezzi diversi dalla violenza, non rinnega l’uso della violenza per fini giusti. E dice che alla violenza i giusti sono obbligati dagli ingiusti.
Del resto, c’è un noto passo di Gandhi: «Credo che nel caso in cui l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza. Per questo stesso principio mi sono dichiarato favorevole all’addestramento militare di coloro che credono nel metodo della violenza». Di solito la citazione si ferma qui, ed è usata per portare Gandhi a giustificare la difesa armata. Ma il Mahatma continua: «Tuttavia, sono convinto che la nonviolenza è infinitamente superiore alla violenza (…). Non ho mai considerato la violenza come una cosa permessa. Ho semplicemente distinto tra il coraggio e la codardia. L’unica cosa lecita è la nonviolenza. (…) Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio, di gran lunga migliore della codarda sottomissione» (Gandhi, pp. 18, 19, 22).
Cioè, per Gandhi la prima alternativa non è tra violenza e nonviolenza, ma tra agire e non agire contro l’ingiustizia, tra lotta e non lotta. Chi non lotta avalla passivamente l’ingiustizia, ovvero la violenza strutturale. Chi lotta ha la seconda alternativa nella scelta dei mezzi: violenti o nonviolenti. La scelta è fra tre poli: viltà – lotta violenta – lotta nonviolenta. Entrambe le forme di lotta sono coraggio e non viltà. Ma solo la lotta nonviolenta ha possibilità di reale e profonda efficacia perché è un mezzo coerente col fine cercato: la giustizia.
Mandela dice dunque che «la lezione della storia è che, per le masse popolari, i metodi delle lotta politica sono determinati dall’oppressore stesso». Quando l’oppressore usa la violenza, «gli oppressi non hanno alternative, se non di vendicarsi con analoghe forme di azione».
Davvero non hanno alternative? Ma la nonviolenza è tale non quando è concessa dall’oppressore, ma quando è inventata e valorizzata dagli oppressi, per essere differenti dall’oppressore, e così porre un inizio vero della loro liberazione. Vittoria liberante non è diventare più violenti dell’oppressore, ma non essere violenti come è lui. Persino alcuni dei congiurati contro Hitler non erano disposti ad ucciderlo personalmente «per non essere come lui».
La violenza giustificata dal fine giusto è anch’essa violenza. Cambia l’attore non la commedia. Chi garantisce che il puro, usando il mezzo impuro, non si faccia impuro? L’arma molto facilmente usa l’uomo e lo disumanizza.
Eppure, qualcosa di vero c’è in quel che dice Mandela. Ho cercato di indicare, nella Introduzione richiestami ad un libro di Roberto Filippini, che realmente esiste il conflitto tra doveri, quello di non uccidere e quello di impedire di uccidere. Ma tale conflitto non è da lasciare statico, con la prevalenza del primo solo quando è facilmente possibile. Esso va elaborato in un cammino progressivo, con la conoscenza, l’invenzione e lo sviluppo dei molti mezzi di difesa nonviolenta, che sono reali esperienze storiche, anche se la politica e la stessa storiografia non si impegnano a conoscerli e dotarli di mezzi. La cultura della nonviolenza attiva (si cerchi nella non piccola bibliografia) non è un libro dei sogni, ma un cantiere avviato nel pensiero, nell’etica, nella sperimentazione, nei risultati, mentre la politica facilmente e sbrigativamente arresa all’uso della violenza è un ritardo nell’evoluzione umana.
Mandela è una grande figura in una lotta giusta, ma il vero esempio di prudenza, di saggezza pratica innovativa, di qualità nuova, in Sudafrica, non è tanto il risultato di una democrazia con parità di diritti tra bianchi e neri (pur in una ancora grave diseguaglianza economica), quanto la Commissione Verità e Riconciliazione. Questa è stata davvero l’opera di una saggia e coraggiosa virtù, vissuta da molti e rappresentata principalmente dall’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, uomo di grande personalità e spiritualità, presidente di quella Commissione. La trasformazione della giustizia penale – dopo le molte gravi violenze da entrambe le parti sudafricane – in giustizia riparativa e riconciliatrice, con l’amnistia personale per i colpevoli che riconoscono la colpa e accettano di incontrare in un rapporto umano le vittime, è una novità assoluta negli stati moderni, basati sulla forza, e rintracciabile solo in alcune società e culture “primitive”. È la via d’uscita da una giustizia concepita come male opposto a male, pena-sofferenza come replica alla sofferenza inflitta col crimine E questa storia di una migliore giustizia supera l’opera pur meritoria, sofferta, intelligente, di Nelson Mandela, perché propone una maturazione di virtù e saggezza, e una diminuzione di sofferenza, di cui tutte le nostre società hanno estremo bisogno.
Testi citati
Nelson Mandela, Lungo cammino verso la libertà. Autobiografia, Feltrinelli 1996.
Richard Falk riferisce l’intervista a Charlie Rose il 14 dicembre 2013, in http://znetitaly.altervista.org/art/13502.
Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Saggio introduttivo di Giuliano Pontara, pp. IX-CLXXV, Einaudi 1996.
Roberto Filippini, Il vangelo della pace. Caso serio di credibilità, Pazzini 2015.
Fonte: Servitium, dedicato al tema “La prudenza”, n. 223, gennaio-febbraio 2016.
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