Il mondo alla rovescia

Amedeo Cottino

Aveva torto Samuel Butler nel collocare il luogo del suo distopico romanzo a Erewhon (il palindromo di Nowhere) e cioè da nessuna parte. Chissà dunque quanto stupore, o quanto orgoglio, egli proverebbe oggi scoprendo che quel mondo immaginario da lui creato in realtà esiste. Ed è il mondo alla rovescia.

Come è noto, Butler prefigurava un Paese dove regna una giustizia uguale e opposta alla nostra: mentre i ladri vengono curati, i malati sono sottoposti a processo e puniti. Quando un operaio, colpevole del “grave delitto di tubercolosi polmonare”, si rivolge al giudice giustificando la sua impossibilità a lavorare per via della malattia, il giudice gli risponde: «Non si tratta di sapere come o perché siete divenuto criminale, ma solo questo: siete o non siete un criminale? … Mi direte che siete criminale per disgrazia: ed io vi risponderò che la vostra colpa è di essere disgraziato» [1].

Certamente, i “disgraziati” ci sono sempre stati. A cominciare dai palestinesi. In analogia con la condizione dell’operaio colpevole di essersi ammalato, la loro “disgrazia” è di essere palestinesi: di essere ciò che sono. E per questa “disgrazia” hanno dovuto pagare. Finora il prezzo era quello dell’apartheid [2] – e cioè di quell’insieme di politiche che mettono in atto «comportamenti non umani posti in essere allo scopo di stabilire e mantenere il dominio di un gruppo razziale di persone su un altro gruppo razziale opprimendolo sistematicamente» (Israeliani e palestinesi dalla repressione all’apartheid) – e della conseguente, quotidiana violenza nei territori occupati [3]. Ora anche questa «libertà di pagare per ciò che sono» è venuta meno.

Sono diventati stranieri nella loro stessa terra dopo la recentissima decisione a grande maggioranza della Kenesseth, secondo cui il territorio che va dal Mediterraneo al Giordano appartiene unicamente agli ebrei (Israele stato nazione del popolo ebraico).

Ma, più recentemente, questa schiera di “disgraziati” è cresciuta in maniera esponenziale: a loro si sono aggiunti, un po’ ovunque in Europa, i mendicanti, i lavavetri, i clandestini, i rom, i sinti e, naturalmente, i migranti. Nuovi soggetti per modo di dire, ché sono sempre e comunque gli ultimi; coloro cioè che servono a ricompattare una società impaurita e perciò smarrita, disorientata. Che da sempre svolgono il ruolo del buon nemico, vale a dire di chi non ha l’appoggio di gruppi potenti nella società e la cui punizione non desta né riprovazione né sconcerto: semmai plauso.

Accomunati da un’unica colpa che, essendo per definizione ontologica, non richiede un habeas corpus. O meglio, che per stabilire la quale è sufficiente possedere un corpo, un corpo con determinate caratteristiche. Ecco allora un nuovo diritto penale, il cosiddetto diritto penale del nemico, a legittimare una prospettiva razzista e, al limite, genocidiale. Nella migliore delle ipotesi infatti questi “disgraziati” verranno esclusi; nella peggiore eliminati. Si costruisce così uno spazio – materiale e simbolico – per una violenza diffusa, che offre nuovi “poligoni di tiro” [4] dove esercitarsi.

I vari episodi di violenza registrati nel nostro Paese nei confronti dei migranti e dei rom richiedono allora una spiegazione che vada di là dalla pur «terribile dinamica dell’imitazione» suggerita su queste pagine da Luigi Manconi.

Per cominciare, queste violenze vanno viste unitamente ad altre violenze, quelle delle varie ordinanze di sgombero dei campi rom e alle diffuse prassi amministrative dei comuni medi e piccoli che negano la residenza a persone che secondo le leggi italiane avrebbero pieno diritto alla residenza anagrafica sulla base di presunte situazioni emergenziali. Dispositivi dunque che costruiscono “muri amministrativi” marcando «una distinzione di tipo simbolico tra residenti “legittimi” ed “illegittimi”» [5] che apre, a sua volta, la via alla costruzione del “diverso” e, in ultima istanza, della non-persona. Costruzione a cui contribuisce l’attuale, progressiva accettazione da parte del singolo e dell’opinione diffusa dell’abuso sull’altro come pratica corrente, o per lo meno tollerata.

In secondo luogo, per non rischiare di vedere soltanto le singole piante e non il bosco, è forse utile guardare a loro, ai “disgraziati” appunto, come momento terminale di un processo che il capitalismo neoliberista sta portando avanti nel mondo, in una logica che ha molto in comune con la logica del colonialismo di insediamento. Un colonialismo che – come sappiamo –, a differenza del colonialismo classico dove la potenza occupante assume il controllo dei mercati, delle risorse e sfrutta la popolazione colonizzata, si propone invece di sostituirsi agli autoctoni per costruire una società nuova, fondata appunto sulla loro esclusione [6]. Osservo incidentalmente che la recentissima delibera del Parlamento israeliano a cui ho fatto riferimento in precedenza esprime esattamente questa logica.

Ora il punto è che questo capitale, fondandosi su un’accumulazione di spoliazione [7], vale a dire sull’accaparramento delle risorse a spese della popolazione autoctona, può fare a meno di quest’ultima come forza lavoro. Una forza lavoro dunque che non possiede più alcun valore. Il problema è che la sua inutilità crea inevitabilmente disordine. Essa va pertanto controllata, recintata, e in mancanza di altre soluzioni, eliminata. In verità, non è difficile riconoscere qui il vecchio copione, quello di cui hanno fatto appunto le spese, da secoli e fino ad oggi, gli abitanti delle Americhe, dell’Australia, della Nuova Zelanda, insomma ovunque noi europei abbiamo “scoperto” delle terre – nota bene, terrae nullius – e portatovi la nostra “civiltà”.

Concluderei queste righe con due inviti: un primo, a riflettere sui rilievi di Saskia Sassen quando, denunciando la tendenza globale all’espulsione come tratto dominante del presente, scrive: «uso il termine “espulsi” per descrivere condizioni diverse: […] il numero crescente di povertà estreme, di rifugiati in Paesi poveri, ammassati in campi profughi regolari o non regolari, di appartenenti a gruppi minoritari discriminati e perseguitati nei Paesi ricchi, ammassati nelle prigioni, di lavoratori distrutti dal lavoro usurante e resi inutili in età ancora troppo giovane […], un’enorme quantità di espulsioni [che] segnala una trasformazione sistemica più profonda, documentata, […] che ci porta ad una nuova fase del capitalismo globale» [8].

C’è poi un secondo invito, che tira in ballo la nostra responsabilità come lavoratori della cultura. Ed è l’invito a meditare le parole sempre attuali di Camus quando scrive: «noi non possiamo fare un gesto in questo mondo senza correre il rischio di far morire» [9].


Note

[1] S. Butler, Erewhon, Adelphi, 2004, p. 87.

[2] Vedi R. Falk e V. Tilly , Israeli Practices towards the Palestinian People and the question of Apartheid, ESCWA (the Economic and Social Commission for Western Asia), 2017/1.

[3] Breaking the silence (a cura di), La nostra cruda logica. Testimonianze di soldati israeliani dai Territori occupati, Roma, Donzelli, 2016.

[4] L’espressione è di G. Levy ed è riferita alle uccisioni mirate dei palestinesi da parte dei cecchini israeliani al confine di Gaza. (Il problema di Israele non è Netaniahu, sono gli israeliani, Internazionale, n. 1251, 2018, p. 38).

[5] E. Gargiulo, «Ben ordinata, sicura, possibilmente omogenea»: visioni della comunità locale in alcuni piccoli e medi comuni italiani, Mondi Migranti, 1/2017.

[6] E. Bartolomei, D. Carminati, A. Tradardi (a cura di), Esclusi, DeriveApprodi, 2017.

[7] Ibid., p. 24.

[8] S. Saken, Expelling humans in Capitalism’s Deepining Crisis, Journal of World Systems Research, vol. 19, no 2, 2013, in L. Veracini, Affrontare il colonialismo di insediamento dei nostri giorni, in Esclusi, cit., pp. 86-87.

[9] A. Camus, La peste, Bompiani, 2002, p. 195.


Originale in Volere la luna

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