Epitaffio per un altro 11 settembre – Ariel Dorfman
Quell’11 settembre, quel martedì mattina letale, mi svegliai con spavento al rumore di aeroplani che giravano sopra casa mia. Quando un’ora dopo vidi colonne di fumo dal centro città, seppi che la vita era cambiata per me e per il mio paese, per sempre.
Era l’11 settembre 1973, e il paese era il Cile; e le forze armate avevano appena bombardato il palazzo presidenziale a Santiago come prima mossa di un colpo di stato contro il governo democraticamente eletto di Salvador Allende. A fine giornata Allende era morto e il paese dove aveva tentato una rivoluzione pacifica era stato stravolto in un mattatoio. Sarebbero passati quasi due decenni, che io passai per lo più in esilio, prima che sconfiggessimo la dittatura e recuperassimo la libertà.
Trentotto anni dopo quel fatale giorno del 1973, un altro 11 settembre, ancora un martedì mattina, fu il turno di un’altra città ugualmente mia a essere attaccata dall’alto, fu un’altra specie di terrore a piovere giù, ma di nuovo il cuore mi si riempì di sgomento, di nuovo confermai che nulla sarebbe più stato lo stesso, non per me, non per il mondo. Non sarebbe stata la storia di una singola patria a esserne influenzata, non un popolo a sopportare le conseguenze della furia e dell’odio, bensì l’intero pianeta.
Nei dieci anni scorsi mi sono lambiccato il cervello su questa giustapposizione di date; non posso scacciare di mente che ci sia qualche significato nascosto dietro o dentro tale coincidenza. È possibile che la mia ossessione sia il risultato di aver risieduto in entrambi i paesi proprio al tempo delle rispettive aggressioni, della circostanza che entrambe le città assaltate costituiscano le pietre angolari gemelle della mia identità ibrida. Sono infatti cresciuto imparando l’inglese a New York e ho passato la mia adolescenza e gioventù a innamorarmi dello spagnolo a Santiago, sono infatti tanto nordamericano quanto latino-americano, non posso fare a meno di prendere sul personale la distruzione parallela di vite innocenti di miei compatrioti, sperando che si possano sollevare da quel dolore e dalla confusione sopita.
Il Cile e gli Stati Uniti offrono, in effetti, modelli contrastanti di come reagire a un trauma collettivo.
Ogni nazione assoggettata a un grande male si confronta con una serie fondamentale di domande che mettono alla prova i suoi valori più profondi. Come perseguire la giustizia per i morti e la riparazione per i vivi? Può l’equilibrio di un mondo frantumato venir ristabilito cedendo alla comprensibile sete di vendetta contro i nostri nemici? Non siamo in pericolo di diventare come loro, di farci risucchiare nella loro ombra perversa — non rischiamo di farci governare dalla nostra collera.
Se si può capire l’11 settembre come prova d’esame, mi sembra purtroppo che gli Stati Uniti l’abbiano fallita. La paura generata da una piccola banda di terroristi ha portato a una serie di azioni devastanti che hanno superato di gran lunga il danno causato dal disastro originale. Due guerre superflue non ancora finite, uno spreco colossale di risorse che avrebbero potuto essere usate per salvare il nostro ambiente e istruire i nostri figli, centinaia di migliaia di morti e di mutilati, milioni di sfollati, una disgraziata erosione dei diritti civili in America e l’uso della tortura e dei sequestri di persona all’estero finiti nel dare carta bianca ad altri regimi per farsi beffe dei diritti umani. E per finire ma non ultima cosa, il rinforzo di uno stato di sicurezza nazionale già sovradimensionato che prospera su una cultura di menzogna, spionaggio e ansia convulsa.
Anche il Cile avrebbe potuto rispondere alla violenza con altra violenza. Se c’è mai stata una giustificazione nel prendere le armi contro uno spadroneggiatore tirannico, la nostra lotta ne aveva tutti i criteri. E tuttavia il popolo cileno e i capi della resistenza — con poche tristi eccezioni —decisero di osteggiare il generale Pinochet con una nonviolenza attiva, riprendendo il paese che ci era stato rubato centimetro a centimetro, organizzazione per organizzazione, finché lo superammo da ultimo in un plebiscito che avrebbe dovuto vincere ma non riuscì. Il risultato non è stato perfetto. La dittatura continua a contaminare la società cilena decenni dopo aver perso il potere. Ma alla fin fine, il Cile è pur sempre un esempio di come creare una pace durevole partendo da una sconfitta e sofferenze indicibili, mostrando una determinazione nello scongiurare comunque in futuro un altro 11 settembre di morte e distruzione.
Lo straordinario in quella decisione di combattere la malevolenza con mezzi pacifici è che i cileni così facendo riecheggiavano inconsapevoli un altro 11 settembre, del lontano 1906 a Johannesburg, allorché Mohandas Gandhi persuase parecchie migliaia di compatrioti indiani al Teatro Impero a far voto di resistenza nonviolenta contro un ingiusto e discriminatorio ordinamento pre-apartheid. Quella strategia del satyagraha avrebbe portato col tempo all’indipendenza dell’India e a molti altri tentativi di conseguire la pace e la giustizia in tutto il mondo, ivi compreso il movimento dei diritti civili negli USA.
Centocinque anni dopo tale memorabile appello del Mahatma a immaginare una via d’uscita dalla trappola della collera, trentott’anni dopo che quegli aerei mi svegliarono quel mattino per dirmi che non sarei mai più riuscito a sfuggire al terrore, dieci anni dopo la New York dei miei sogni d’infanzia fosse mutilata dagli incendi, vorrei sperare che il giusto epitaffio per tutti quegli 11 settembre fosse nelle imperiture parole di Gandhi:
“La violenza prevarrà sulla violenza solo quando qualcuno mi dimostrerà che il buio può essere scacciato dal buio”.
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: Epitaph for Another September 11
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