ARANCE AMARE. Rosarno e la Piana di Gioia Tauro tra lotte sociali, violenza, sfruttamento. 

Maria Perino, William Bonapace

Arrivare di notte a Rosarno è un’esperienza particolare. Come esci dall’autostrada Salerno-Reggio, la prima cosa che ti accoglie è la strada provinciale dissestata con grosse buche che devi evitare accuratamente. Per fortuna, dopo pochi chilometri di gimkana, si raggiunge il centro abitato. La condizione del manto stradale non cambia, ma intorno compaiono alcuni capannoni costruiti disordinatamente e poi case disadorne, scrostate, di forma diverse, alte e basse, spesso con ferri del cemento armato che spuntano sul tetto non finito o sui lati.

Molte in condizioni di degrado. “Un paesaggio post-atomico da non confondere con l’arretratezza. Qui locale e globale si incrociano, insieme alle macerie del mito dello sviluppo”, così Antonello Mangano, scrittore e ricercatore siciliano, ha descritto il paesaggio della piccola cittadina nei suoi libri, e così appare ancora oggi, 16 marzo 2024. La strada è priva di ogni segnaletica orizzontale, e a tratti, su di una sola careggiata, compare un pezzo di marciapiede (a sua volta dissestato) che sparisce poco dopo tra rovi, erba e cartacce. Colpisce inoltre l’assenza di arredo urbano, niente panchine, niente piante o fiori. Lungo la via qualche negozio di abbigliamento, un mega store cinese, un locale per scommesse, prodotti alimentari tipici, molte sale scommesse, e poco altro.

Foto di Enrico Carpegna

Dietro una curva, la strada si allarga e sulla sinistra appare l’albergo: quattro piani, illuminato, con parcheggio e un’entrata dignitosa. Non meno di 50 stanze. Di fronte una macelleria e un enorme negozio per spose, poi di nuovo case scrostate e polvere. La sensazione di desolazione è forte e la luce dei lampioni la sera l’amplifica. Nasce spontanea la domanda su chi mai verrà in quest’albergo, e perché qualcuno dovrebbe venire in questi luoghi. Presto scopri che i principali ospiti sono militari.

Ce ne sono davvero tanti. Hanno parcheggiato i loro mezzi in modo ordinato nel cortile. Sono 6 jeep di cui una con colori mimetici. La mattina, poco dopo le cinque, ai tavolini del bar dell’hotel vi sono solo militari seduti a consumare la colazione con armi d’assalto appoggiate agli zaini. Si preparano a turni di sorveglianza di luoghi sensibili. Infatti, Rosarno e il suo territorio sono considerati una delle zone a più alto tasso di infiltrazione ‘ndranghetista in Calabria e di massima presenza criminale in Italia. Un cancro da sempre presente nel mondo agrario, poi infiltratosi anche nel settore commerciale e delle costruzioni, per divenire quindi fenomeno globale, avvelenando la vita e l’economia.

Attraversando il paese colpisce poi il contrasto con la frequenza di nomi delle strade dedicate a esponenti storici del movimento operaio: via Gramsci, via Togliatti, via Nenni … segno di una storia di lotte e di rivendicazioni che ha lasciato un ricordo visivo, ma un impatto molto debole nei fatti. Quasi nullo sulle condizioni dei braccianti stagionali stranieri presenti a migliaia nelle terre che circondano il centro abitato. A volte, nelle strade che portano quei nomi e rimandano a quelle vicende di lotte per la giustizia, tra una casa fatiscente e un’altra non del tutto finita, compare un ristorante di lusso. Di fronte, parcheggiate, macchine costose. Nei locali gente vestita bene che sorseggia calici di vino.

Un contrasto che si ha difficoltà ad accettare. Poco più in là una vecchia roulotte sgangherata, come le case tutt’intorno, parcheggiata in uno slargo polveroso, con la sigla dell’UE e del Ministero degli Interni sulle fiancate, che dovrebbe servire da ufficio per i migranti, che probabilmente non frequentano mai.  Ma andiamo con ordine.

La cittadina conta circa 14.000 abitanti e si trova nella punta settentrionale della Piana di Gioia Tauro, un’ampia pianura alluvionale che raggiunge il mar Tirreno con un maestoso golfo e ampie spiagge, alle cui spalle si innalzano le montagne dell’Aspromonte. Due sono le principali attività economiche dell’area: sulla costa il porto, il primo per traffico merci in Italia e il nono in Europa, e la raccolta di agrumi e di olive nella Piana, tra le più rilevanti in tutto il paese.

Eppure di vero e proprio sviluppo è difficile parlare. Le ragioni di questa situazione trovano la loro origine in un insieme di fattori di lunga durata che si sono intrecciati tra di loro nel corso degli anni seguiti alla seconda guerra mondiale: la forte e costante presenza mafiosa, una politica di sviluppo calata dall’alto e gestita da interessi di grandi imprese legate agli appalti governativi e colluse con la criminalità organizzata, e infine la sconfitta e l’esaurimento di prospettive di emancipazione sociale in parte affermatesi nel corso degli anni ’80/’90 del secolo scorso e poi venute indebolendosi nel nuovo millennio anche in continuità con le vicende nazionali e internazionali.

Il porto di Gioia Tauro, foto di Enrico Carpegna

IL PORTO DI GIOIA TAURO

A partire da questo quadro interpretativo, la realtà che meglio rappresenta le prime due ragioni è la vicenda del porto di Gioia Tauro. All’origine di questa impressionante infrastruttura che si estende su una superficie di 620 ettari, vi era il così detto “Pacchetto Colombo”, un insieme di investimenti pubblici collegati alla Cassa per il Mezzogiorno che prendevano il nome dall’allora primo ministro. Questi intendeva rispondere alla rivolta di Reggio Calabria del 1970, quando scoppiò la protesta guidata dall’estrema destra contro la decisione di spostare il capoluogo regionale da Reggio a Catanzaro.

L’idea era di avviare il quinto polo siderurgico italiano e un porto ad esso connesso. Si abbaterono oltre 700.000 alberi da frutta ma di fatto non si costruì neanche un pilone di un capannone. Infatti, nonostante le roboanti promesse del governo di garantire migliaia di posti di lavoro, la crisi dell’acciaio, che già si preannunciava al momento del varo del progetto, cancellò ogni ambizione di costruire un’altra “cattedrale nel deserto”, lasciando sul territorio solo un esteso deserto senza cattedrale. Ma fu in compenso un grande affare per la malavita, in gran parte proprietari dei terreni nella Piana, che lo Stato espropriò a valori stratosferici. Nel 1975 cominciò la costruzione del porto, quando si decise di dar vita a una struttura portuale polifunzionale, i cui lavori durarono fino ai primi anni ’90 con il primo attracco di una nave solo nel 1995.

Nel 2023 l’attività portuaria, dopo alterne crisi, ha raggiunto una movimentazione di ben 3 milioni 548 mila container, senza mai garantire però livelli occupazionali di rilievo. Fin da subito le potenti famiglie della ‘ndrangheta si inserirono nei lavori di costruzione controllando gli appalti e le forniture, crescendo in tal modo di potenza e ricchezza. Allo stesso modo, sin dall’inizio delle attività portuali, il sito è stato tenuto costantemente sotto scacco dalle cosche Piromalli e Molè, al punto tale che oggi Gioia Tauro è il principale crocevia del traffico di droga in Europa. Solo nel 2021 sono state sequestrate 13 tonnellate di cocaina e si ritiene che le forze dell’ordine riescano ad intercettare non più del 10% di tutto il traffico di stupefacenti che transitano per quel porto. Tra l’altro, la Piana è diventata luogo in cui operano altre organizzazioni criminali in combutta con quella calabrese. In primo luogo quella albanese.

Di vero benessere ce n’è stato e ce n’è davvero poco. I paesi di Gioa Tauro e di S. Ferdinando, sulle cui terre si estende il porto, restano desolati, poveri, in molta parte degradati. La ricchezza viaggia velocemente per altre vie, verso il nord e nei tanti paradisi fiscali. In Calabria resta la paura e la desolazione e per molti l’unica prospettiva è l’emigrazione.  Il porto, infatti, è sostanzialmente sganciato dalle dinamiche del territorio regionale, e probabilmente serve al mondo globalizzato e sicuramente alla criminalità organizzata, ma poco alla fragile realtà economica calabrese. Fondamentalmente perché la regione è un deserto industriale che va popolato da luoghi di sviluppo e di legalità per evitare lo spopolamento e promuovere la crescita dello stesso porto di Gioia Tauro, non tanto come luogo di smistamento dei container ma per diventare una finestra logistica per il territorio circostante.

LOTTA E SCONFITTA DEL MOVIMENTO CONTADINO

Veniamo così all’altro aspetto che incide sulla situazione del territorio della Piana e che si intreccia con il precedente: la sconfitta del progetto di riscatto sociale del mondo contadino a partire dalle lotte dei braccianti e per la distribuzione delle terre, e l’affermazione di un’economia clientelare basata su nuove forme di sfruttamento.

In Calabria il movimento contadino bracciantile fu molto attivo sin dalla nascita dell’Italia unita con alcuni momenti particolarmente significativi, sia tra le due guerre che nell’immediato periodo post bellico a partire già dal 1945. L’obiettivo in quest’ultima fase era, nella Piana di Gioia Tauro, l’occupazione delle terre demaniali incolte. I braccianti, che vivevano in condizioni di povertà estrema, nel ’47 decisero di agire occupando le terre del Bosco Grande o Selvaggio (850 ettari del Demanio incolti), che vennero dissodate e trasformate in grandi agrumeti.

Negli stessi anni, in altre aree della regione, altri movimenti sfidavano i grandi proprietari terrieri spesso scontrandosi violentemente con la polizia. La vicenda più significativa e drammatica di quella stagione fu il massacro di Melissa nel 1949, nell’attuale provincia di Crotone, dove i contadini marciarono sulle terre dei latifondisti per richiedere il rispetto dei provvedimenti emanati nel dopoguerra dal ministro dell’Agricoltura Gullo. La polizia inviata da Roma dal ministro Scelba aprì il fuoco sui dimostranti uccidendone tre e ferendone quindici colpiti alle spalle durante la loro fuga. Nella stessa occasione, sempre da parte delle forze dell’ordine, per rappresaglia, vennero anche abbattuti molti animali dei contadini. L’eccidio comunque spinse il governo a varare la cosiddetta Legge Sila che anticipò la riforma fondiaria nazionale sancita dalla legge n. 841 del 21 ottobre 1950.

Nella Piana, grazie al sostegno delle forze di sinistra e in particolare del Partito comunista, in quel decennio, al fine di sottrarre i contadini all’egemonia degli agrari e al controllo della ‘‘ndrangheta che si annidava nel mondo dei piccoli imprenditori agricoli, si sostenne un’azione di promozione di attività cooperative, ma non sempre con grande successo. Molti braccianti infatti tendevano a possedere un loro pezzetto di terra convinti che ciò li avrebbe favoriti maggiormente. Allo stesso tempo il fenomeno migratorio aveva preso avvio, spingendo tanti a lasciare le proprie terre e a cercare fortuna altrove.

Gli anni settanta furono, per la storia del territorio e per tutta la Calabria, un vero e proprio spartiacque: come abbiamo già raccontato, si diede avvio al centro siderurgico e poi al porto di Gioia Tauro, una grande occasione di sviluppo industriale condivisa anche dal partito comunista,  che permise invece alla mafia calabrese di fare un vero e proprio salto di qualità, passando da una ‘‘ndrangheta rurale a una globale basata sul traffico della droga e all’infiltrazione nel mondo politico, accrescendo enormemente il proprio potere sulla società.

Emblematico fu l’incontro tra Giulio Andreotti con il boss della famiglia Piromalli a Gioia Tauro che garantì un fiume di denaro alle ‘ndrine (ventitré miliardi di lire solo per la costruzione del porto). “Quel giorno lo Stato consegnò il territorio alla ‘‘ndrangheta” ha scritto a questo proposito Antonello Mangano. Allo stesso tempo le forze sane del territorio continuarono le loro battaglie a favore di un’ altra economia nel tentativo di dar vita a una società civile e democratica, sia opponendosi nel corso degli anni ’80 ai progetti di insediare nella Piana una megacentrale a carbone di 2.640 megawatt e impiegare il porto come grande terminal carbonifero, il cui impatto ecologico sarebbe stato devastante, sia tentando di dar vita a consorzi agricoli tra le cooperative sane e combattere il dominio del malaffare mafioso.

Infatti, come afferma Cinzia Costa nell’articolo “Rosarno e la centralità della periferia”, “è in concomitanza con la crescita delle cooperative che cominciarono a registrarsi i primi casi di truffe alla Comunità Europea, diventate, nel corso degli anni, una prassi molto diffusa tra i cittadini della Piana”. “Vengono infatti registrati –  continua Costa –  dei contratti di lavoro a nome di alcuni cittadini italiani, mentre a lavorare sono i migranti (in quegli anni sono provenienti dall’Europa orientale); dopo il minimo di attività lavorativa prevista per legge (52 giornate, nel settore agricolo) gli intestatari dei contratti potranno ricevere un’indennità di disoccupazione per i sei mesi successivi alla scadenza del contratto, ai quali dovranno sottrarre la quota relativa ai contributi che versano al datore di lavoro.

I braccianti, veri lavoratori, ricevono, nel frattempo, un salario giornaliero di gran lunga inferiore al minimo sindacale.  Questo meccanismo di finanziamenti e sussidi a pioggia, protrattosi per molti anni e trasformatosi in un vero business, ha disincentivato la raccolta, tanto da abbassare anche la qualità del prodotto e da lacerare il settore alle sue fondamenta nel momento in cui le truffe sono venute a galla. Negli ultimi anni i pilastri del sistema hanno ceduto. (…) Oltre alle “arance di carta”, sono sparite cooperative, associazioni di produttori, magazzini e aziende di trasformazione”. Contemporaneamente, come denunciava il giornale Paese Sera nel 1980, dei due miliardi di lire di sostegno all’agricoltura della Piana concessi dallo Stato ogni due anni finivano per beneficiare solo trecento persone, buona parte appartenenti alle famiglie mafiose.

La battaglia politica della sinistra e del PCI contro questo stato di cose tra gli anni ’70 e ’80 portò a una reazione delle ‘ndrine di particolare violenza e ferocia. Vennero vandalizzate le sedi del Partito Comunista, bruciate le auto dei suoi dirigenti e assassinato il candidato sindaco di Rosarno, Peppino Valarioti, appena eletto. Nel 1994, con l’elezione di Peppino Lavorato, storico dirigente comunista di Rosarno a primo cittadino, la violenza riesplose: in una notte di dicembre gruppi di delinquenti entrano in alcune scuole devastandole, lasciando scritte minacciose contro la nuova amministrazione comunale. La notte di capodanno bande armate con fucili e pistole devastarono il paese. Diedero fuoco ad automobili, distrussero vetrine di negozi e saccheggiarono il municipio e le scuole.

Nel 2001, quando Lavorato venne rieletto, e a seguito della confisca di beni per 6 miliardi di lire ai danni del clan Pesce, la violenza riesplose. Il municipio venne crivellato di colpi sparati da un kalashnikov puntando proprio alle finestre degli uffici del sindaco. Questi episodi non intimidirono il primo cittadino che, nel corso degli anni della sua amministrazione, ha realizzato opere importanti nel campo della edilizia popolare, dei servizi sociali, della cultura, recuperando aree degradate, facendo di Rosarno il primo Comune italiano costituitosi parte civile in un processo antimafia, così come uno dei primi ad utilizzare per la collettività i beni confiscati alla ‘‘ndrangheta.

Negli stessi decenni a cavallo tra i due secoli il mercato globale delle arance marginalizzò sempre più la produzione della Piana. Secondo il sociologo Fabio Mostaccio due sono gli elementi che hanno concorso a creare questa situazione: l’affacciarsi sul mercato di piccoli e piccolissimi produttori privi di un buon livello tecnico di produzione (ciò che ha favorito una importante frantumazione del settore agrumicolo calabrese) e la totale dipendenza dall’esterno dell’apparato economico locale. Gli agrumi prodotti sul territorio, sono infatti, oltre alle clementine, principalmente arance da succo che, dopo la raccolta, vengono rivendute a grandi aziende, anche multinazionali, le quali acquisiscono il prodotto imponendo prezzi di acquisto molto bassi (Mostaccio, 2012).

È in questo problematico quadro storico e sociale d’insieme, impastato di violenza e di lotte sociali e politiche di emancipazione e di civismo, che si inserisce la vicenda, a sua volta tragica, dei migranti stagionali. Una realtà di degrado nel degrado fatta di sfruttamento sul lavoro e di vita in baraccopoli lontane dai centri abitati. Fenomeni questi non specificamente calabresi, come è evidenziato dalla mappatura condotta nel 2022 dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in collaborazione con l’Anci su tutto il territorio nazionale delle situazioni di “disagio e precarietà” abitativa dei lavoratori stranieri, regolari e non impiegati, nel settore agroalimentare. Situazioni che nella Piana di Gioia Tauro raggiungono condizioni particolarmente drammatiche.

DEGRADO E ABITAZIONI VUOTE. I “PROGETTI” BASTANO?

Stare a Rosarno oggi significa quindi ricevere addosso la complessità di un contesto che richiede di andare oltre alla prospettiva dell’emergenza, dell’allarme.

Il paesaggio sociale dei paesi della Piana di Gioia Tauro evidenzia, come abbiamo detto, l’intreccio tra politiche migratorie disfunzionali e meccanismi economici e sociali caratterizzati dalla illegalità. Gli insediamenti dei braccianti – per i quali è difficile trovare le parole che ne descrivano il degrado – si collocano ai margini di contesti urbanistici caratterizzati da alta disoccupazione, massiccia emigrazione interna lavorativa e sanitaria (che nel decennio 2010-2019 ha comportato un debito per la Regione Calabria verso le altre regioni di 2,71 miliardi), scarsità di servizi pubblici, abusivismo e diffusione del lavoro nero, presenza capillare delle organizzazioni criminali, nel quadro dei processi di “globalizzazione delle campagne” (Colloca, Corrado, Perrotta: 2013).

Negli ultimi anni si è registrato un calo della vendita di agrumi alla grande distribuzione che impone prezzi e quantità, con la rinuncia della raccolta che ha indotto molti braccianti a lasciare la Piana. Coloro che sono rimasti hanno ottenuto un miglioramento delle condizioni retributive ma non alloggiative, pur trattandosi in tanti casi di una presenza consolidata e stabile. Infatti secondo il rapporto Medu del luglio 2023 la popolazione alla quale è stata fornita assistenza medica e/o consulenza legale (94 persone) era costituita da giovani uomini con un’età media di 35 anni, provenienti dai Paesi dell’Africa subsahariana occidentale presenti in Italia da più di 3 anni (88%).

Sono lavoratori che “si spostano sul territorio nazionale per seguire le stagioni di raccolta di frutta e vegetali nelle diverse regioni italiane, sia al sud che al nord. Quanto alla permanenza sul territorio della Piana, delle 88 persone che hanno risposto alla domanda, 53 hanno dichiarato una presenza stabile (pari al 60%) e 35 una presenza stagionale”. “Delle 85 persone che hanno fornito informazioni sulla propria condizione giuridica, il 92% era regolarmente soggiornante (78 persone) a fronte dell’8% di irregolari. Nella maggior parte dei casi, l’irregolarità del soggiorno è la conseguenza del susseguirsi di politiche inadeguate, condizioni di vulnerabilità ignorate per lungo tempo e ostacoli burocratici e amministrativi. Il 15% delle persone assistite aveva un permesso di soggiorno per lavoro subordinato o stagionale, gran parte dei lavoratori disponeva invece di un permesso di soggiorno per richiesta asilo (39%), protezione sussidiaria (22%), protezione speciale (22%).

L’1% era titolare dello status di rifugiato e un ulteriore 1% di un permesso di soggiorno per attesa occupazione”. Le persone assistite da Medu non necessariamente sono rappresentative del totale delle presenze (una stima di 1500 nella Piana di Gioia Tauro nel 2021), ma la loro situazione è indicativa di una violenza strutturale radicata e presente in tutta Italia (Omizzolo, 2024). Violenza nella quale il lavoro di Medu di “aggiustare i corpi” è tollerato e funzionale.

A Rosarno nel 2010 alcuni colpi da armi da fuoco ferirono tre braccianti. Le manifestazioni di protesta che ne seguirono furono attaccate sia dalle forze dell’ordine sia da una parte della popolazione locale fino a quando la maggior parte degli immigrati fu allontanata dalla Calabria o richiusa nei Cie. Queste vicende, tuttavia, contribuirono ad aumentare l’attenzione verso il mondo delle campagne sia nella comunità scientifica sia nei circuiti dell’attivismo politico e a “non appiattire solo sul versante sicuritario il confronto politico sull’immigrazione (si approvò il “pacchetto sicurezza” nel 2009). Ma nonostante il clamore suscitato dall’evento, le condizioni sociali del territorio sono rimaste pressoché immutate (Colucci, 2018) e i luoghi abitati sono ulteriormente peggiorati.

 

Il casolare Contrada Russo a Taurianova, foto di Enrico Carpegna

Oggi la Tendopoli di San Ferdinando, il Campo Container di Testa dell’Acqua a Rosarno, il Casolare di Contrada Russo a Taurianova rappresentano situazioni estreme di degrado. Situazioni che appaiono paradossali se si accostano le immagini disumane della vita negli insediamenti informali a quelle del campo container ultimato con tanto di campetto da calcio nell’ambito del progetto Su.Pri.Me (dissonante la pagina web del progetto) e mai aperto, o dei sei edifici per un totale di 42 appartamenti alla periferia di Rosarno costruiti con fondi dell’ Unione Europea. Nel primo caso le istituzioni locali denunciano la mancanza di risorse per manutenere la struttura qualora fosse messa in uso, nel secondo caso l’insediamento dei lavoratori stranieri è stato bloccato nel 2019 quando l’allora sindaco chiese alla Regione di eliminare il vincolo di destinazione, per assegnare gli appartamenti ai rosarnesi.

Il nuovo campo container costruito nell’ambito del progetto Su.Pri.Me, foto di Enrico Carpegna

Gli edifici vuoti alla periferia di Rosarno costruiti con fondi dell’Unione Europea, foto di Enrico Carpegna

Gli insediamenti in cui i braccianti sono costretti a vivere favoriscono la diffusione dell’alcolismo, delle dipendenze per evadere da fatica, delusione, ansia e del doping per reggere al lavoro (un fenomeno emerso già molti anni fa con le inchieste tra i braccianti sikh dell’agro pontino). E in questi ambienti le prostitute rom sedute tra la spazzatura rappresentano l’ultimo desolato anello della catena del degrado.

Non sorprendono quindi la stanchezza e la diffidenza dei braccianti.  Anche perché l’esercizio di diritti basilari quali l’iscrizione anagrafica, il rinnovo dei documenti di soggiorno, l’accesso alla disoccupazione agricola o all’indennità di malattia restano ancora oggi preclusi a molti, a causa delle irregolarità contrattuali, salariali e contributive.

La tendopoli di San Ferdinando, foto di Enrico Carpegna

Nell’isolamento sociale si sono sviluppate microeconomie e forme di “autogestione” spesso insofferenti alla presenza di osservatori e operatori. Una presenza che si sussegue senza continuità sul territorio, frammentata (“oggi toccava a noi andare alla tendopoli!”), spesso con esigenze “di estrazione” di informazioni e immagini o impegnata nella realizzazione di “progetti” a breve termine che non diventano servizi e che sottovalutano o addirittura ignorano le esigenze della popolazione locale e le caratteristiche del contesto.

La tendopoli di San Ferdinando, foto di Enrico Carpegna

Ma esistono anche esperienze di lavoro sociale diverse.

Il progetto Spartacus dell’Associazione Chico Mendes e NO CAP verso i lavoratori della Piana di Gioia Tauro ha come finalità la costruzione dell’incontro di domanda-offerta di lavoro in forma legale con imprese selezionate, fornendo inoltre l’assistenza per la ricerca di soluzioni abitative dignitose, e corsi di formazione professionale.

A San Ferdinando dal 2022 l’ostello per i braccianti “Dambe so” – “casa della dignità” – nell’ambito del programma di Mediterranean Hope della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) è un barlume di dignità che offre una soluzione abitativa “leggera” e “basata sul principio della sostenibilità e dell’economia circolare”. I lavoratori braccianti contribuiscono con una quota alle spese della struttura, la quale si inserisce in un ampio lavoro di costruzione di reti di acquisto e filiere corte – in collaborazione con SOS Rosarno – che garantiscono un prezzo equo per chi lavora”.

L’ispirazione – ha spiegato il responsabile di Mediterranean Hope Rosarno – viene “dalle prime forme delle società di mutuo soccorso: dimensione mutualistica, diritti del lavoro e forme basilari di welfare, insieme. In questi anni abbiamo lavorato per costruire un esempio concreto e dare alla politica un segnale: è possibile “smontare” i ghetti e uscire dalla logica dell’emergenza. L’ostello è un esempio in questa direzione. La responsabilità sociale delle imprese permette inoltre una sostenibilità economica: il progetto non pesa sulla fiscalità generale dello Stato ma redistribuisce i profitti all’interno della filiera. Ma quello che più conta è ridare la dignità ai lavoratori”.

Le alleanze sociali attivate da queste azioni potrebbero sfidare la filiera alimentare dominante?  Certamente le riflessioni e le pratiche sul terreno dell’autogestione della filiera e della rilocalizzazione dell’economia sono di estremo interesse “per tutti coloro che contrastano le cause strutturali dello sfruttamento dei braccianti immigrati, l’impoverimento dei piccoli contadini, la spoliazione dei territori e, più in generale, sono impegnati a costruire vie d’uscita alla crisi di sistema del capitalismo neoliberista” (Oliveri 2016).

Grazie a Vittorio Battistin, Lorenzo Leonardi, Martina Marcellino (Medu); Francesco Piobbichi (Mediterranean Hope); Giuseppe Pugliese (SOS Rosarno); Gianantonio Ricci (Chico Mendes ETS); Alessandro Sette (Adl a Zavidovići) che ci hanno accompagnato nella Piana di Gioia Tauro.


Fonte: On Borders, 10 aprile 2024

 

 

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