Mondi d’acqua

Rachel Louise Carson

La biologa e scrittrice statunitense Rachel Carson (1907-1964) ha fornito un contribuito convincente alla nascita del movimento ecologista con solo quattro opere, ognuna però presentata con intensità e passione tali da indurre nel lettore una diversa considerazione del mondo del vivente e del destino ambientale del pianeta. Le sue prime opere, Il vento e il mare (1941), Il mare intorno a noi (1950) e Sulla riva del mare (1955), costituiscono una trilogia sulla vitalità e la bellezza del mondo marino; di queste, le ultime due uscirono a puntate sulla rivista New Yorker e tutte, quando furono raccolte e stampate, rimasero per mesi nelle classifiche di vendita redatte dal New York Times.

Il suo ultimo volume, Primavera silenziosa (1962) espose il crescente disagio dei biologi e degli attivisti per l’uso dei veleni chimici in agricoltura, del DDT in particolare, riuscendo per la prima volta, grazie all’impatto sull’opinione pubblica, a indurre cambiamenti nelle politiche nazionali sull’uso dei pesticidi.

Il testo qui presentato, Mondi d’acqua, è uno dei primi scritti da Rachel Carson. Pensato originariamente come introduzione per un opuscolo del Dipartimento statunitense della pesca, fu poi ripreso da un editore della rivista Atlantic Monthly, colpito dalla capacità dell’autrice di raccontare la natura “in modo tale da accendere la fantasia”, e pubblicato con il titolo Undersea nel 1937. Fu il suo debutto letterario. I temi presentati – in particolare, l’ancestrale stabilità dell’equilibrio organico che domina la vita dell’oceano e le trasformazioni che portano al recupero dei costituenti minerali di tutti gli organismi marini – rappresentarono la base dei suoi lavori successivi. Da queste prime quattro pagine pubblicate sull’Atlantic Monthly, ammise la stessa Rachel Carson, “sarebbe seguito tutto il resto”.


Mondi d’acqua

Chi può dire di conoscere l’oceano? Non io, né voi. I nostri sensi, così ancorati alla terraferma, non percepiscono la spinta della marea, né la sua schiuma che, invece, spinge il granchio a nascondersi sul fondo del mare in un rifugio di sabbia circondato dalle alghe, o il ritmo lento delle correnti al largo della costa, dove i pesci a branchi predano e a loro volta sono predati, mentre il delfino buca l’onda per inspirare, in superficie, l’ossigeno dell’atmosfera.

E non possiamo conoscere nemmeno il corso della vita sul fondale, dove la luce del sole filtrata da colonne d’acqua profonde trenta metri è solo un debole crepuscolo bluastro. Dove vivono le spugne, i molluschi, le stelle marine e i coralli. Dove in penombra sciami di pesci piccolissimi luccicano come una pioggia di meteore e le anguille si adagiano in attesa, fra le rocce sommerse. Meno ancora è dato agli uomini di scendere le miglia impenetrabili che portano ai recessi dell’abisso, dove regnano il silenzio assoluto, il freddo senza tregua e la notte eterna.

Per cogliere l’essenza di questi mondi d’acqua, familiari alle creature del mare, dovremmo rinnegare i modi umani di intendere il tempo e lo spazio, le nostre sensazioni di durata ed estensione, e adottare invece un immaginario d’infinito fatto d’acqua, pervaso di sensazioni liquide. Per gli abitanti del mare nulla è tanto importante quanto la fluidità del loro mondo. Respirano l’ossigeno dell’acqua; dall’acqua traggono nutrimento; vedono attraverso l’acqua che filtra i raggi della luce assorbendone i colori: il rosso prima, il verde poi e, infine, il porpora; sentono le vibrazioni attraverso l’acqua, come a noi accade con i suoni attraverso l’aria.

E non è niente più né meno che l’acqua di mare, in tutte le sue variabili condizioni di temperatura, salinità e pressione, ciò che forma barriere a noi invisibili che limitano ogni specie marina dentro i confini biologici del proprio habitat – uno appena oltre il litorale, un altro nelle faglie sommerse che con le loro sponde ripide segnano le piattaforme continentali, e un altro ancora, in uno strato che si può dire intermedio, impercettibile, esteso nella zona lontana dalla superficie, sopra le profondità oceaniche.

Sono relativamente pochi gli esseri viventi che nel corso della propria esistenza possono spingersi oltre il confine instabile che unisce la terra e il mare. Sono così le creature che abitano nelle pozze lasciate dalla marea fra gli scogli, o nel limo scivolato dalle dune e dalle spiagge d’erba cespugliosa sul bordo del mare. Nell’acqua stagnante, fra i relitti arenati che si sollevano quando la marea sale, terra e mare sono impegnati senza sosta nella lotta per il predominio.

Come sulla terra lo scendere della notte comporta una trasformazione risoluta nell’aspetto di un prato o di una foresta – spingendo alcune creature selvatiche a raggiungere il riparo sicuro delle loro tane e invitandone altre all’aperto, per predare e foraggiarsi – così al riflusso della marea le creature d’acqua scompaiono quasi del tutto dalla vista e al loro posto avanzano i predatori giunti dalla terra, che si cibano nelle pozze lasciate della marea e setacciano la sabbia alla ricerca della fauna immobile e indifesa del litorale marino.

Per due volte nel tempo che va da un’alba all’altra, quando le acque si affrancano dal richiamo della luna e cadono indietreggiando onda dopo onda, la chiocciola di mare, la stella marina e il granchio si ritrovano scoperti, in balia della sabbia. Ogni groviglio d’alghe imbevute d’acqua salmastra, ogni pozza abbandonata dal ripiegamento del mare nei recessi di sabbia e scogli, offre rifugio dal sole e dalla sabbia che rapidamente si arroventa.

Nelle pozze della marea – mari in miniatura – spugne delle specie più semplici rivestono le rocce, ognuna intenta avidamente a sorbire con miriadi di bocche l’acqua carica di nutrimento. Le stelle marine e gli anemoni di mare sono gli abitanti più comuni in queste gore scavate nella roccia. Le cugine senza conchiglia delle chiocciole, le lumache di mare, nude, che aprono le loro branchie arborescenti verso l’acqua, paiono macchie brillanti di rosa e bronzo, mentre le tubicole, architetti delle pozze di marea, costruiscono le proprie dimore coniche con granelli di sabbia cementati l’uno contro l’altro, come mosaici lucenti.

Sulla sabbia, mentre gli altri molluschi trovano rifugio scavando in cerca di fresco e umidità, le ostriche chiudono le valve sigillando fuori il resto del mondo e aspettando il ritorno dell’acqua. I granchi si raccolgono nelle caverne umide fra gli scogli, dove le pervinche sono appese lungo le pareti. Colonie di gamberetti, simili a gnomi, trovano rifugio sotto intrichi di alghe gocciolanti e scure, dure come il cuoio, accatastate sulla spiaggia.

Immediatamente, appena il mare si ritira, dalla terra calano i predoni. Gli uccelli di costa picchiettano lungo la spiaggia tutto il giorno, e legioni di carcasse di granchio si mischiano alla sabbia umida prima che sia notte. Il principale fra i predatori, tuttavia, è l’uomo che setaccia per intero la distesa di limo e immerge le sue reti nelle acque meno fonde.

Si osserva poi un’increspatura incerta, un’altra ancora, e si solleva infine l’onda di piena della marea. La popolazione delle pozze d’acqua si risveglia – le valve dei molluschi si agitano nella fanghiglia. I cirripedi aprono la conchiglia e cominciano ritmicamente a setacciare l’acqua. Uno dopo l’altro, fiori dalle tinte brillanti si schiudono nell’acqua, mentre le tubicole estendono con cautela i lunghi tentacoli.

L’oceano è un luogo di paradossi. È la casa del grande squalo bianco – il killer del mare dal peso di una tonnellata – e della balenottera azzurra lunga trenta metri, il più grande animale mai esistito. È anche la casa di esseri viventi così minuti che con il cavo delle vostre mani potreste raccoglierne tanti quante le stelle della Via Lattea. Ed è proprio a causa della fioritura di quantità astronomiche di queste piante appena percettibili, chiamate diatomee, che l’acqua di superficie dell’oceano costituisce, in realtà, un pascolo infinito. Ogni animale marino, dal più piccolo fino agli squali e alle balene, infine, per il proprio cibo dipende da queste microscopiche entità di vita vegetale dell’oceano.

Entro i propri fragili confini il mare attua un’alchimia vitale: usa gli elementi chimici, sterili, disciolti nell’acqua e li plasma con la fiaccola del sole trasformandoli nel tessuto della vita. Solo attraverso questa sintesi, ancora mal compresa, di proteine, acidi grassi e carboidrati, realizzata da miriadi di piante produttrici, la ricchezza minerale del mare è resa disponibile a minuscoli animali consumatori che pascolano cullati dalle correnti. In una deriva infinita, a metà fra un mondo d’aria sopra e le profondità dell’abisso sotto, questi strani esseri assieme alle infiorescenze marine che li nutrono sono chiamati plankton – creature erranti.

Molti dei pesci, così come dei molluschi, degli invertebrati e delle stelle marine che abitano sul fondale, iniziano la propria vita come membri temporanei di questa biomassa galleggiante, perché l’oceano cresce i propri piccoli nelle acque di superficie. Il mare non si comporta però come una nutrice premurosa. Le uova delicate e le fragili larve degli abitanti del mare sono facilmente distrutte dalle tempeste che infuriano nell’oceano aperto e sono depredate da belve microscopiche: le larve trasparenti e affamate degli insetti e le meduse-pettine gelatinose, anch’esse parte del plankton.

Queste oceaniche praterie viventi sono allo stesso tempo il territorio di pascolo dei grandi branchi di pesci adulti: le aringhe, le alici, le alose e gli sgombri si nutrono di zoo-plankton e a loro volta sono prede d’altre specie; perché il pescecane, che a quest’altura caccia in branco, e il merluzzo famelico, sempre a caccia come i pirati, agguantano il bottino ovunque lo trovino.

Mondi d’acqua

Scendendo a una profondità di poche decine di metri, fino alla sabbia bianca del fondale, un viaggiatore subacqueo scoprirebbe una terra dove la luce del sole di mezzogiorno è avvolta da una penombra blu e porpora, e dove l’oscurità della mezzanotte è rotta solo dalle agghiaccianti fosforescenze fredde emesse dagli esseri del mare. Sul fondo dell’oceano hanno dimora creature le cui controparti terrestri sono incolori e ordinarie, ma qui, fra le ombre del crepuscolo, sono invece rivestite della delicata bellezza conferita dal mare. Coni di cristallo formano la conchiglia della farfalla di mare, la chiocciola alata che di giorno dalla superficie si sposta in profondità, navigando verso le regioni buie, e le spire traslucide della bellissima iantina sono impregnate della porpora di Tiro.

Altre creature del fondo del mare appaiono più fantastiche che affascinanti. Ricci ricoperti di aculei, come tondi porcospini marini, rotolano sulla sabbia dove giacciono i molluschi che, con le valve appena aperte, sono affaccendati a filtrare l’acqua alla ricerca dei detriti. La vita scorre monotona per questi esseri che, passivamente, setacciano le correnti e si spostano pochissimo o per niente da un anno all’altro. Fra le sporgenze degli scogli inabissati, le anguille e i tordi banchettano voracemente, mentre l’aragosta si muove a tentoni, con agile cautela, nella perpetua semioscurità.

Ben più in là, oltre la piattaforma continentale, il fondo dell’oceano è scavato da gole profonde – forse vallate di fiumi sommersi – e costellato di altopiani sottomarini.

Moltitudini di pesci pascolano su queste isole sotto il mare, riccamente ricoperte di forme di vita inerti, ancorate al suolo. Fra le principali specie di questi fondali ci sono l’asinello di mare, il nasello, la platessa e il loro parente più possente, l’halibut – un rombo gigante. Da queste acque e da quelle meno profonde l’uomo, il principale predatore, ottiene un tributo annuale pari quasi a quindicimila tonnellate di pesce[1].

Se il visitatore sottomarino potesse continuare a esplorare il fondo dell’oceano, attraverserebbe distese chilometriche di praterie pianeggianti, salirebbe ripide rive di colline e fiancheggerebbe crepacci profondi e frastagliati che si spalancano all’improvviso sotto i suoi piedi. Attraverso l’oscurità che occulta ogni cosa, arriverebbe infine alle soglie della piattaforma continentale. Il tetto dell’oceano si troverebbe duecento metri sopra la sua testa, e i suoi piedi poserebbero su una sponda che subito sprofonda di un altro miglio e poi più gentilmente discende in quel vuoto nero come l’inchiostro che è l’abisso.

La mente umana non è in grado neppure di immaginare le condizioni esistenti nelle profondità più remote dell’oceano. Le pressioni, enormi, che aumentano a ogni bracciata verso il fondo, a seimila metri sotto il mare raggiungono la forza inconcepibile di mezza tonnellata per centimetro quadrato. In queste profondità silenti domina un freddo glaciale, un gelo tetro che non cambia mai, estate e inverno, con gli anni che si fondono nei secoli e i secoli nelle ere geologiche. Anche lì regna l’oscurità – la stessa oscurità della notte primordiale, prima che l’oceano potesse definitivamente diventare vivo, per eoni di epoche consecutive, grazie alla tenue luce dell’alba.

Si può comprendere facilmente perché i primi studiosi dell’oceano credessero quelle regioni prive di vita, poi però strane creature sono state raccolte anche a grande profondità portandoci la muta e frammentaria testimonianza della vita nell’abisso.

I mostri dei baratri marini sono pesci piccoli e voraci, con le mascelle spalancate, costellate di denti. Alcuni sono dotati di organi sensitivi, antenne o tentacoli che svolgono la funzione degli occhi, altri portano protuberanze luminose, o esche, per scovare e attrarre le proprie prede. I chiarori lampeggianti di questi predatori che si muovono avanti e indietro, attraversano la notte dell’abisso. Molti abitanti di queste profondità, ancorati sui fondali, splendono di un fulgore enigmatico che si estende al corpo intero; altre creature che si spostano nuotando possono avere organi luminosi sottili e scintillanti sistemati in fila o in forme geometriche. Il gamberetto d’altura e la seppia degli abissi possono emettere nuvole di liquido fosforescente e usano l’abbaglio di queste vampate improvvise per sfuggire ai loro nemici.

Un’uniformità di rosso e bruno e un nero privo di ogni lucentezza sono le tonalità dominanti nel mare profondo, chi adotta queste colorazioni può permettersi di riflettere solo il minimo dei bagliori luminescenti e può così mettersi in salvo grazie al buio, confondendosi con l’oscurità circostante.

Sul fondo fangoso dell’abisso, pericolose sabbie mobili minacciano di inghiottire i minuscoli spazzini indaffarati a filtrare i detriti in cerca di cibo. I granchi e i gamberetti avanzano con prudenza su questa fanghiglia instabile usando gambe lunghe come trampoli; i ragni di mare, invece, volteggiano sopra le spugne che a loro volta si sollevano dal limo usando peduncoli delicati.

Le ultime vestigia di vita vegetale sono rimaste indietro, più in alto, dove ancora arrivano i raggi del sole. Per questo, la vita degli abitanti di queste profondità sembrerebbe contrastare l’equilibrio autosufficiente che si sostiene nel mare in superficie. In realtà, pur predandosi l’una con l’altra, le creature abissali sono dipendenti dalla lenta pioggia di piante e animali inerti che cadono da sopra. Ogni essere vivente dell’oceano, che sia pianta o animale, restituisce all’acqua al termine del proprio ciclo vitale i materiali che temporaneamente avevano formato le parti del suo corpo. Così laggiù, verso la profondità, discende una sottile, infinita pioggia di particelle in disintegrazione, resti di ciò che un tempo erano state creature viventi nelle acque di superficie ben esposte alla luce del sole, o in quelle delle regioni semibuie sottostanti.

Quaggiù, nel mare, si mescolano gli elementi che nella loro lunga e affascinante storia hanno prestato la vita, il vigore e la bellezza a una sorprendente varietà di creature viventi. Gli ioni di calcio, ora liberi nell’acqua salata, furono presi in pegno anni fa dal mare per formare la corazza protettiva di un mollusco, sono poi tornati al loro serbatoio naturale quando il vecchio proprietario ha cessato di averne bisogno, e prima ancora erano stati incorporati nel delicato statuario di una barriera corallina. Qui sono disponibili atomi di silicio un tempo imprigionati in un cristallo di quarzo nel buio del sottosuolo, poi, nella fragile conchiglia di una diatomea, sballottati dalle onde e scaldati dal sole, e di nuovo incorporati nella raffinata intelaiatura del radiolario, quel miracolo di bellezza effimera che pare opera di una fata capace di soffiare il vetro usando un fiocco di neve come modello.

A eccezione delle chine a precipizio e delle regioni spoglie spazzate dalle correnti sottomarine, il fondo dell’oceano è ricoperto di sedimenti primordiali dove si sono accumulati per intere ere depositi di varia origine: materiali di terraferma liberati in mare dai fiumi o consumati sulle coste dei continenti dall’incessante mulinare delle onde; polvere vulcanica trasportata per lunghissime distanze dal vento, ondeggiante mollemente sulla superficie e infine inabissatasi in profondità per mischiarsi con i prodotti delle eruzioni non meno potenti dei vulcani sottomarini; sferule di ferro e nichel provenienti direttamente dallo spazio interstellare, e sostanze di origine organica – le carcasse silicee dei radiolari e i frustuli delle diatomee, i resti calcificati di alghe e coralli assieme ai gusci delle minuscole foraminifere e delle delicate chiocciole di mare.

Mentre i fondali vicino alle spiagge sono ricoperti dei detriti di terra, i resti delle creature marine che vivono nuotando o galleggiando prevalgono nelle acque fonde dell’oceano aperto. Sotto i mari tropicali, a profondità da duemila a tremila metri, le incrostazioni calcaree coprono quasi un terzo del fondo dell’oceano; mentre le acque più fredde delle regioni polari e temperate rilasciano sul fondale sottostante i resti silicei delle diatomee e dei radiolari. Nell’argilla rossa che ricopre le grandi profondità oltre i cinquemila metri e più, questi scheletri delicati sono estremamente rari. Fra i pochi residui organici che non sono già disciolti prima di raggiungere queste profondità fredde e mute, restano gli ossi d’orecchio delle balene e i denti degli squali.

Così vediamo le parti del tutto che tornano ognuna al proprio posto: l’acqua riceve dalla terra e dall’aria le sostanze base e le conserva finché l’energia ecumenica del sole di primavera non scuote le piante addormentate invitandole a un’esplosione di attività dinamiche; le larve affamate del plankton crescono e si moltiplicano grazie all’abbondanza vegetale, poi a loro volta cadono preda dei branchi di pesce; tutto, alla fine, torna a dissolversi nei costituenti basilari quando le leggi inesorabili del mare lo reclamano.

I singoli elementi si sottraggono alla nostra vista, ma solo per riapparire a ogni passaggio con incarnazioni differenti, in una sorta di immortalità inorganica. Forze affini a quelle che in un periodo incredibilmente remoto diedero vita a quel protoplasma originario che cominciò ad agitarsi nel mare primordiale, continuano la loro opera maestosa e imperscrutabile. Contro questo sfondo cosmico si staglia il volgere della vita di ogni particolare pianta o animale, non come un dramma che si conclude in sé ma come un breve interludio, nella prospettiva di un cambiamento senza fine.

Traduzione di Enzo Ferrara per la rivista Lo Straniero (2013)

Nota

[1] Attualmente, sono consumate globalmente più di cento milioni di tonnellate di pesce l’anno, compreso quello d’allevamento, Ndt.


Presso la biblioteca del Centro Studi Sereno Regis, oltre a diverse copie del libro più noto di Rachel Carson, “Primavera silenziosa”, sono reperibili due volumi pubblicati in anni recenti dall’editore Aboca, che per la prima volta li ha proposti al pubblico italiano: “La vita che brilla sulla riva del mare” e “Brevi lezioni di meraviglia”. Pagine di grande fascino, che testimoniano l’attività di biologa marina della Carson e il suo grande talento nell’evocare la straordinaria diversità delle forme di vita sul Pianeta come una ricchezza da preservare.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.