In morte di Johan Galtung (Parte Prima)

Enrico Peyretti

In onore di Johan Galtung, propongo una sintesi della recensione del suo volume, Pace con mezzi pacifici (Esperia, Milano 2000 (1996), pp. 499. L. 60.000 Euro 30,98.

Questo volume è il manuale universitario di Johan Galtung, lo studioso norvegese (vikingo, dice lui), matematico e sociologo, iniziatore degli Studi per la Pace contemporanei, decano dei peace researchers, docente in molte università ai quattro angoli del pianeta, direttore di Transcend (www.transcend.org; [email protected]), rete di studiosi e attivisti per la trasformazione nonviolenta dei conflitti.

«Ci sono alternative!» potrebbe essere lo slogan di Galtung (titolo di un suo volume comparso in italiano nel 1986 per le edizioni Gruppo Abele) superiore allo stretto realismo, ed è esemplificata vivamente con casi storici contemporanei. Il lavoro di Galtung è tra la sociologia e l’etica della pace, animata dalla compassione umana: studia le dinamiche sociali per muoverle creativamente verso la riduzione della violenza, perché è sofferenza.

La teoria è sempre appoggiata alla realtà, con intelligenza immaginativa. «Per quanto immaginative siano le nostre ipotesi su una realtà potenziale e sul modo di ottenerla, in nessuna circostanza dovremmo cadere nella trappola di proteggerle, come hanno fatto i tre produttori [giurisprudenza, diplomazia, economia; cfr p. 484] di conoscenza apodittica. La falsificabilità resta una guida importante», scrive l’Autore in un paragrafo intitolato “Realismo del cervello, idealismo del cuore” (p. 485).

Sull’etica della pace come riduzione della sofferenza, leggiamo nello stesso luogo: «Molte cose sono necessarie se il compito dell’operatore di pace è ridurre la sofferenza (dukkha) e migliorare la vita (sukkha), tutta la vita. (…) Come per la pace negativa, com-patire è solo una parte della storia; c’è anche il bisogno di con-gioire per la felicità degli altri» (pp. 484-485). (…)

Il volume è organizzato in quattro parti: teoria della pace (pp. 18-128), teoria del conflitto (pp. 129-231), teoria dello sviluppo (pp. 232-354), teoria delle macroculture(pp. 355-498), ed è «l’unico tentativo di mettere insieme questi quattro campi» (p. II). La cultura della pace è una prospettiva di pensiero e di azione fortemente critica verso il mondo attuale e le culture che lo interpretano. Ecco come Galtung presenta, insieme all’impegno che propone, la sua viva personalità, volentieri ironica ed autoironica: «Quando si fa ricerca sulla pace uno dei primi compiti è liberarsi dalle forme accademiche di violenza culturale, che per il fatto di essere sopravvissute così a lungo sono diventate non meno bensì più violente. E il compito successivo è quello di non diventare prigionieri di coloro che si presentano come liberatori – compreso l’autore del presente libro» (pp. III-IV).

Studi per la pace

Gli studi per la pace si distinguono in empirici, critici, progettuali (p. 20). Essi cominciano dallo studio della violenza e del conflitto. Il punto di partenza è analogo alla scienza medica: diagnosi (stati di violenza), prognosi (processi di violenza), terapia (processi di riduzione della violenza, pace negativa, e processi di miglioramento della vita, pace positiva) (pp. 54-55). Molti capitoli o sezioni del libro si concludono con un paragrafo intitolato “Cosa si può fare a questo riguardo?”.

La domanda è: qual è la causa e quali gli effetti della violenza? La quale domanda va posta in sei spazi: natura, persona, società, mondo, cultura, tempo. Riguardo alla persona, tanto la violenza come la pace si distinguono in intrapersonali ed interpersonali (pp. 54-56). (…)

Gli studi sulla pace devono andare dalla conoscenza alla capacità, dalla teoria alla pratica, possibilmente integrate nella stessa persona. «La costruzione di teorie non è la meta: la meta è l’azione per ridurre la violenza e accrescere la pace» (p. 482). Ma «non esiste nessuna controindicazione agli studi e alla ricerca sulla pace puri, non condizionati dalla richiesta di attuazioni immediate e realizzabili». Una possibile strutturazione di un corso di conoscenza e capacitazione per la pace è suggerita dall’Autore, in una forma ampia, ma riducibile, e comunque nettamente alternativa alla formazione offerta dalle accademie diplomatiche, che non analizzano interamente la violenza (pp. 63-64).

«È assolutamente necessario istituire in tutto il mondo, in quanti più posti possibile, come formazione post-universitaria, un Master sulla pace e sulla risoluzione del conflitto». Piccoli e deboli sono i tentativi di questo genere in Italia. «Nella migliore delle ipotesi l’università fornisce solo la conoscenza nella tradizione positivista, lasciando fuori le altre tre» disposizioni necessarie, che sono l’immaginazione, la compassione, la perseveranza (p. 485).

Come vedremo, delle tre principali forme di violenza, la più radicale è la violenza culturale. Ciò fa sì che gli studi sulla pace debbano contribuire «alla fondazione di una grande impresa scientifica ancora visibilmente assente nel pantheon delle discipline accademiche, la scienza della cultura umana, la “culturologia”» (p. 378).

Seguiranno i paragrafi: Analisi della violenza (diretta, strutturale, culturale); Violenza culturale; Teoria del conflitto; Teoria dello sviluppo; Teoria della pace.

Recensione pubblicata in Annuario della Pace, Italia 2000-2001, ed. Asterios, Trieste 2001, pp. 368-377


 

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