Classe, nazione e le Filippine – Johan Galtung

I commenti chiave negli incontri a Manila del 4-9 febbraio 2009 sul processo fra le commissioni governative e le parti coinvolte per il cambiamento nelle relazioni di classe e nazionalità sono stati: paralizzato, nessuna prospettiva, limbo, bloccato, insincero, accordi non attuati, interrotto. Ma le parti sono ipnotizzate dal processo di pace, e vogliono sbloccarsi. Come?
Le posizioni chiave delle parti – sollevare dalla miseria i più bisognosi, e autonomia per la nazione Bangsamoro (i musulmani di Mindanao, che arrivarono ben prima dell’attuale maggioranza cristiana) – sono ancorate ai bisogni e diritti umani fondamentali per il benessere e l’identità. Ma il governo di uno stato moderno può avere altre priorità al di sopra dei bisogni e diritti basilari dei propri cittadini.
La modernità è una versione secolare del tradizionale governo del rex gratia dei, re per grazia del Dio onnipotente, onnipresente e onnisciente. Dei tre pilastri della modernità, lo stato è diventato vettore dell’onnipotenza, il mercato dell’onnipresenza, e la scienza dell’onniscienza. Le priorità assolute sono diventate il monopolio statale della forza contro ogni resistenza armata, uno stato unitario contro altri centri di potere, e l’accrescimento del potere. In quanto al secondo, un mercato unificato e la crescita economica, considerando la povertà come causa radicale della gran parte dei problemi sociali. In quanto al terzo, la razionalità, l’istruzione, le università e la crescita scientifica, come radice essenziale della conoscenza.
Questo predispone la scena a un fallimento. La povertà non è la causa, lo è l’iniquità (sono povero perché quelli sono ricchi). E lo è la repressione (voglio essere governato dai miei simili, per quanto imperfetti, ma sono governato da altri). Bisogna risolvere le problematiche dell’equità e dell’autonomia per instaurare una pace equa e sostenibile. La strada verso il disarmo, la smobilitazione e la reintegrazione passa per tale soluzione, non viceversa. Mettere il carro davanti ai buoi è pacificazione, non costruzione della pace, e non ingannerà nessuno.
Importano sì il dominio della legge, il primato della costituzione, la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità nazionale, ma i diritti umani universali importano anche di più. Le leggi si possono cambiare, le costituzioni emendare (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, Art. 28), la sovranità cala in un mondo che si regionalizza/globalizza, l’integrità territoriale cresce con sussidiarietà/autonomia/federalismo, e le Filippine non hanno unità nazionale, in quanto sussistono almeno tre nazionalità: i cristiani, i bangsamoro e gli indigeni non-islamici. Ma hanno invece molto senso dell’unità dello stato e una cittadinanza filippina condivisa.
I governi privilegiano disarmo, smobilitazione e reintegrazione per riacquistare il monopolio in “una guerra a conclusione rapida”, in stile Sri Lanka. La vittoria militare sarà poi confusa con la soluzione del conflitto. Ma per le parti in lotta da secoli è solo una battaglia perduta. La lotta continua, alimentata da ancor più amarezza e determinazione. Destinata al fallimento.
Se si ottiene il disarmo, le questioni essenziali possono essere lasciate perdere. E un governo ha più teste disponibili che una commissione. Qualunque Memorandum d’Accordo firmato può essere bloccato da poteri esecutivi superiori (come i militari e i servizi segreti); da poteri legislativi (come senatori-deputati) che vedano sminuito il proprio potere; da poteri giudiziari (come la Corte Suprema) che dichiarino incostituzionale un tale Accordo; da un referendum vinto da maggioranze né in miseria né in minoranza [etnica, ndt], o da potenze straniere (come gli USA e altri), per esempio includendo i contraenti fra i “terroristi”.
Questa è la realtà delle Filippine oggigiorno. La conclusione non è che una commissione governativa sia insincera, ma che ha parecchie teste. Lo stesso vale per il lato non-governativo delle tematiche di classe e di nazionalità, oggi ancora immutate, che rendono quel ricco paese (in risorse naturali e umane) molto meno prospero di quel che potrebbe essere, costretto a girare a vuoto intorno a un procedimento che non ha consistenza alcuna, evidenziando la divisione in più parti, anche per via della complessità della tematica. Ma le parti non-governative agiscono allo scoperto. Il governo no.

Ecco alcuni punti per sbloccare il processo di pace:
1] Uscire da questa verticalità e dalla limitazione delle due parti (fatale in Israele-Palestina e Sri Lanka), per promuovere dialoghi orizzontali, multi-parti e multi-canali. Le tematiche sono correlate e possono essere meglio affrontate mediante dialoghi in tavole rotonde in tutto il paese.
[2] Chiedere consiglio alla gente, per esempio con gare-saggio a scuola e dialoghi dappertutto su “la repubblica delle Filippine dove vorrei vivere”, puntando alla creatività, non al consenso.
[3] Mirare a immagini avvincenti di soluzioni future, non solo accordi verbali firmati, secondo la tradizione giuridica della Legge Ispano-Romana.
[4] Far fiorire centinaia di zone di pace e progetti sociali con equità e armonia, acquisendo esperienza, pubblica e ispiratrice, attingendo dal pragmatismo stile USA. Mas hectos. Menos pactos (Più fatti, meno patti).
[5] Il governo dovrebbe aprirsi, portando le questioni al tavolo di discussione con le parti in contesa, per un dialogo aperto, ivi comprese le argomentazioni di certe potenze straniere, non come politica di corridoio.
[6] Le parti in lotta di classe, pur mantenendo aperto il canale governativo, dovrebbero continuare a esplorare con altre parti, per esempio:
*Aperture a mediatori che, forse senza successo, agiscano direttamente come cooperative per consumatori con prezzi equi per i produttori.
*Per quelli socialmente più in alto, proporre inevitabilmente gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio, che mirano a soddisfare i bisogni basilari dei più bisognosi, sollevando così il livello sociale più basso – tenendo presente che la problematica è togliere di mezzo non solo la povertà ma anche l’ingiustizia.
*Per quelli socialmente più in alto che temono che quelli più in basso se si affrancano un po’ possano trattarli come loro li hanno trattati, progettare strategie sociali ed economiche non minacciose.
*Distribuzione equa dei profitti minerari fra le comunità locali, le regioni e lo stato (cfr Art. 1 della Convenzione sui Diritti Umani per i Diritti Economici, Sociali e Culturali).
[7] Le parti in conflitto per la nazionalità, pur mantenendo aperto il canale governativo, dovrebbero continuare a esplorare con altre parti, per esempio:
*Direttamente con i cristiani, con i quali i Moros continueranno a convivere, per forme di coesistenza eque e sostenibili secondo gli esempi riportati qui sotto, un elenco assolutamente non esauriente:
** Cooperazione economica, come aziende in compartecipazione.
** Cooperazione militare, come pattugliamento e peacekeeping congiunto.
** Cooperazione culturale, come azione ecumenica, istruzione religiosa reciproca, liturgie comuni, testi religiosi congiunti rivisti accettabili da entrambi, testi di storia congiunti rivisti accettabili da entrambi, che evidenzino i temi di contesa per il giudizio dei lettori.
** Cooperazione politica, come opzioni di sussidiarietà e federali combinate con una condivisione di potere al Centro, e processo decisionale congiunto fra le comunità contigue Moro e Cristiane.
*Con gruppi in Indonesia per un’eventuale potestà condominiale formale o informale indonesiana-filippina su isole fra i due paesi.
*Con l’ASEAN (5 membri buddhisti, 3 musulmani, 1 confuciano e 1 cattolico) per uno status di osservatori e l’estensione all’ASEAN di alcune problematiche.
*Con l’Organization of the Islamic Conference (OIC, 56 membri) per lo status di membro associato.
*Con gli ex-sultanati, da Aceh-Pattani a Sulu-North Borneo-Mindanao, per una reviviscenza di quell’arcipelago storicamente importante.
Con tutti i consolati (non le ambasciate, rappresentanti di stati) formali o informali di cui sopra in quanto rappresentanti dei Bangsamoro.
E, tutti quanti nella tradizione islamica del dar-al-ahd (dimora degli accordi), invece di dividere il mondo solo in dar-al-harb (dimora della guerra) e dar-al-Islam (dimora dell’Islam).
E, tutti quanti nello spirito gandhiano di essere il futuro che vuoi vedere, non solo aspettando un accordo per vincolare legalmente il futuro, con innumerevoli pur minimi passi.
E, ammonendo il governo della repubblica delle Filippine di non vedere i Bangsamoro come problema ma come risorsa della repubblica, che dischiuda [proficue] relazioni con tutti i 56 membri OIC su una base di diversità, equità e rispetto.
E, memori che lungo il percorso da farsi ci sono masse traumatizzate, fra cui i tanti sfollati, le minoranze conculcate e i tanti altri bisognosi di consolazione e riconciliazione, si offra il conforto della religione e della spiritualità che spesso può tanto di più che la razionalità scientifica, imparando dalla riconciliazione degli australiani con i loro predecessori aborigeni, e ci si apra alla cooperazione con la Cina.
E, approfittando della fioritura economica che si produce riducendo l’iniquità e facendo partecipare attivamente più persone e della fioritura politico-economica – come in India – senza esclusione di nazionalità.
E, memori di mantenere la dignità di ogni persona, creata a immagine di Dio, che benedice i costruttori di pace in quanto riflettono il Suo carattere.

Johan Galtung, 16 febbraio 2009
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Sereno Regis
Titolo originale: CLASS, NATION AND THE PHILIPPINES
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=828