8 dicembre a Venaus: la notte dei pestaggi nel racconto de La Stampa

redazione

La violenza di quella notte del 6 dicembre 2005 nella piana di Venaus, fu tale che persino la busiarda (come La Stampa di Torino viene spesso definita) non poté fare a meno di raccontarla per quel che fu: la spropositata, brutale aggressione dello stato contro una cittadinanza inerme. Due articoli a tutta pagina: il primo a firma di Ludovico Poletto, il secondo (ancor più partecipe del primo) di Carlo Grande, che quella notte era salito in valle pensando di trascorre una conviviale serata presso il “territorio liberato di Venaus”, tutti intorno al fuoco nel gelo della notte – e invece si trovò dentro La Guerra, come la pagina venne infatti intitolata a caratteri cubitali.

In evidenza in alto, l’info-grafica di una Val Susa in agitazione proprio totale, da Venaus fin giù ad Avigliana, tutto bloccato per protesta: saracinesche abbassate, scuole chiuse, strade interrotte dalle barricate, in corale risposta a quel blitz di violenza, nella notte, senza alcun preavviso, che aveva causato 31 feriti e acceso lo sdegno fin dentro Torino e oltre.

Qui di seguito alcuni estratti da entrambi gli articoli, rimandando per la lettura integrale all’ottimo archivio del Controsservatorio Valsusa.

***

“Alle 3,26 di ieri, circa quattrocento tra poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa hanno sfondato le barricate erette sulla carreggiata e preso possesso del terreno sul quale sorgerà il primo cantiere della Tav” così inizia il reportage di Ludovico Poletto circa un’operazione di sgombero durata in tutto una 40ina di minuti. Incredibile sfoggio di brutale efficienza, con le FFOO che manganellano i presidianti mentre i tecnici della Cmc (con tanto di passamontagna calati sul viso) riprendono possesso dei cinquantuno lotti di terreno che erano stati occupati.

“Alla luce delle torce, circondati da un cordone di poliziotti, misurano gli appezzamenti e li conquistano l’uno dopo l’altro: ‘Lotto 21, preso; lotto 22, preso…’ Lontano ci sono gli echi delle grida di questa notte di divise e di corse disperate nei prati. Ci sono i manifestanti spinti fuori dai terreni e quelli che provano invano a fare resistenza. Ci sono alcune persone ferite. Alle quattro e qualche minuto, l’operazione è finita.”

Tende calpestate con la gente dentro, smantella e squarciate senza pietà. Tavoli e sedie capovolti, tutto sparso ovunque, vettovaglie, pentole, cibarie, bottiglie, quanto serviva a mantenere alto lo spirito del presidio, mentre anche le ultime barricate vengono eliminate da una ruspa azzurra e bianca della polizia “ed è la fine di un sogno: stoppare con qualche rete, un po’ di assi e alcuni blocchi di cemento il treno ad alta velocità.”

Mentre tutt’intorno è solo urlare di sirene di ambulanze, eccoci di fronte al sangue e alle lacrime di una donna di 39 anni, Patrizia Triolo, vedova con figlia di 14 anni, da un paio di giorni presidiante pure lei essendo a casa dal lavoro per un recente incidente stradale. Ha il naso rotto, in stato di shock racconta dei colpi che le sono arrivati addosso mentre era ferma immobile con le mani alzate, il collare medico ben visibile sotto il mento:

“Ero lì per fare resistenza passiva: pensavo che in quelle condizioni non avrebbero avuto il coraggio di farmi nulla. E invece mi hanno dato una manganellata in piena faccia. Ho sentito il sangue che colava”.

È quasi l’alba quando dal campanile di Venaus arrivano rintocchi che Ludovico Poletto interpreta come richiamo, per sollecitare i rinforzi – e invece nel ricordo di un NoTav che ci ha aiutato a compilare questo redazionale furono proprio “campane a morto”, perché nel frattempo si era sparsa la notizia di un anziano in coma, forse già morto, insieme a centinaia di feriti. I feriti furono in realtà ‘solo’ una trentina, per la maggior parte tra i NoTav, e sia la Triolo che l’anziano pensionato ricoverati all’Ospedale di Susa ricevettero il giorno dopo la visita di Vittorio Agnoletto, allora europarlamentare.

Con le prime luci dell’alba ecco che Poletto registra la dichiarazione di Antonio Ferrentino, all’epoca Presidente della comunità montana bassa Val Susa:

“«Lo hanno voluto loro, adesso dovranno controllare tutta la valle. Metro per metro. Hanno usato i manganelli, hanno aggredito la nostra gente inerme, l’hanno fatto senza alcun preavviso». Al telefono chiede ai suoi collaboratori di contattare i parlamentari del suo partito. I sindaci in fascia tricolore cercano di mediare. Carla Mattioli, prima cittadina di Avigliana, sveglia nel cuore della notte Piero Fassino: «E’ rimasto sconvolto da ciò che gli ho raccontato. E’ originario di questa valle, nella sua famiglia ci sono stati partigiani che hanno versato sangue per la libertà e la democrazia. Non può restare indifferente di fronte a tutto questo…»” situazioni che oggi non oseremmo neppure immaginare.

È quasi giorno quando l’intera valle è in rivolta: in sciopero tutte le fabbriche della Val Susa oltre a una ventina nel torinese, oltre alle scuole, oltre alle saracinesche abbassate per centinaia di negozi, oltre ai blocchi sull’autostrada Torino-Bardonecchia fino a pomeriggio inoltrato, e persino sulla ferrovia. E il cuore della protesta si è spostato a Bussoleno, come già avevamo letto nella rievocazione del sacerdote Don Daniele: “Vengono erette barricate all’ingresso e all’uscita del paese sulle due provinciali. Quando non sono i cassonetti dell’immondizia a bloccare le auto, sono gli alberi, segati lungo la strada e ammucchiati sulla carreggiata. Automobili e Tir restano in coda per ore: non si può fare un metro né avanti né indietro. La polizia fa da cuscinetto; gli uomini della Digos controllano e cercano la mediazione. (…) Volano insulti, qualche pietra, ma le forze dell’ordine non reagiscono…” 

Nel ruolo di mediatore si segnala Don Piero Cordola, parroco di Bussoleno, NoTav pure lui. L’articolo si conclude con un breve flash su Alberto Perino: «hanno agito con arroganza, ora inizia la vera battaglia».

8 dicembre a Venaus

Segue in taglio basso la testimonianza dell’inviato Carlo Grande, che già nell’occhiello esclude qualsiasi forma di violenza da parte dei presidianti: “tutti pensavano solo a parare i colpi…”

Racconta di essere arrivato a Venaus verso mezzanotte, invitato da un amico ultra pacifico che suona la fisarmonica. E racconta degli interscambi inizialmente cordiali con le forze dell’ordine, delle “barricate” che in effetti sono solo una rete sbilenca e cumuli di ramaglie, “niente di inespugnabile”.

Racconta delle chiacchiere intorno al fuoco, qualche bicchiere di vino, gli anziani che intonano cori alpini. “Non ho sentito discorsi facinorosi, faceva freddo, la gente era tranquilla, c’erano una dozzina tra ragazzi, ragazze, sessanta-settantenni della vallata, una signora assessore ad Avigliana. (…) Alle 2,30 io e l’amico siamo scesi alla baracca della Pro Loco per sgranchirci e scaldarci. Abbiamo attraversato i prati, c’erano una decina di tende, avrò visto in tutto una trentina di persone che dormivano, parlavano, suonavano la chitarra. Una donna aveva un collare medico. Non pareva gente facinorosa, nessuna agitazione, teste calde, tipi con l’aria e la grinta da antagonisti anarchici.”

A un certo punto nella baracca giunge voce di un certo movimento, si valuta il da farsi in caso di carica, anche perché è tardi, difficile sperare nel pronto intervento dei rinforzi. Sono le 3.30 quando le milizie arrivano davvero:

“Da una stradina fra i boschi all’improvviso è piombata una colonna di camionette e furgoni, una settantina, hanno inchiodato davanti alla ‘barricata’, sono scesi centinaia di agenti in tute antisommossa, scudi, manganelli, elmetti, spazzata la barricata sono entrati dimenando i manganelli. (…). Nei prati sentivo urlare, vedevo gente correre, inseguita dagli agenti. Un ragazzo scendeva barcollando, urlava: «Bella impresa, mi avete dato un manganello in faccia». Qualcuno urlava: «Non picchiate la gente», un anziano ha detto «Sono sulla mia terra», hanno manganellato anche lui. Non ho visto scontri, nè colluttazioni – individuali o di gruppo – contro gli agenti, nessuno che si ribellasse mentre gli mettevano le mani addosso.

Cercavano di proteggersi, di parare i colpi. Ho fatto due passi verso i prati, un agente si è staccato dal cordone di polizia: «Si allontani». Ho fatto alcuni metri più indietro: «Voglio vedere, sono un giornalista», «Non c’è niente da vedere» ha detto. «Ma stanno urlando», «Urlano sempre» ha risposto. Stavo per allontanarmi lungo la strada, lui mi ha  afferrato per un braccio: «Adesso vieni qui», mi ha spinto nella baracca piena di gente: tra loro quattro o cinque ragazzi seduti o sdraiati, sanguinanti, con labbra e fronti spaccate. «Dormivo, mi hanno picchiato» ha detto uno; la donna col collare era seduta, tremava e piangeva a dirotto, col ghiaccio in testa e sangue sulla fronte. «Una manganellata».”

Carlo Grande prova a dire che è un giornalista, ma gli sbirri non fanno una piega. Tutt’intorno le urla: «Vergognatevi», «Potrebbero essere i vostri padri e i vostri nonni, le vostre figlie», e anche le agenti-donne restano impassibili. Finalmente arriva il sindaco di Venaus (Nilo Durbiano ndr) con la fascia tricolore, e sono già le 5 di mattina quando gli permettono di raggiungere la macchina e lasciare il campo di battaglia: “Sono sceso lungo l’autostrada alle sei. Nell’altra corsia luci blu di camionette e di ambulanze, che risalivano la valle” e così si conclude il doppio reportage su La Stampa.

Ma chiaramente l’esperienza vissuta non può concludersi con un articolo per Carlo Grande, perché dall’archivio di notavtorino.org ecco spuntare una sua dichiarazione, che così recita:

Sono un giornalista della Stampa. Questa notte (6 dicembre, ndr) ero dentro il presidio No-TAV e ho visto con i miei occhi quello che è successo: poco dopo le 3.30 celerini, polizia e carabinieri sono arrivati in forze, (almeno cinquanta tra furgoni e camionette, più di 500 persone) e hanno caricato e picchiato a sangue freddo. Uno stava dormendo, era avvolto nelle coperte e sdraiato per terra; un’altra, la persona più imbelle che si possa immaginare, con un collare medico al collo, colpita in fronte, sanguinante; un anziano sui settant’anni, buttato per terra e picchiato.

Ci hanno chiusi nella baracca che la gente usava per scaldarsi, la tensione era altissima e c’erano feriti. Solo quando è arrivato il sindaco di Venaus, mi hanno fatto uscire. Gli altri sono rimasti lì fino a stamattina alle sette, mi han detto che hanno caricato di nuovo.A parte TUTTE le altre considerazioni, che sono tante, dico solo una cosa: NON C’ERA BISOGNO DI PICCHIARE, NON C’ERANO FACINOROSI, NON CI SONO STATI “SCONTRI”, “TAFFERUGLI”, MA UNA CARICA CON  PESTAGGI, MANGANELLATE su persone che non opponevano resistenza fisica, “armate” solo di tende e un po’ di fuoco per scaldarsi.

In quelle ore lo Stato e la Democrazia sono state una parola vuota.”


(3 – continua)


 

 

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