Il dilemma dell’onnivoro

Cinzia Picchioni

Michael Pollan, Il dilemma dell’onnivoro, Adelphi, Milano 2008, pp. 494, € 14,00

Déjà-vu?

Sì, hai «già visto» questo autore nelle «pagine» della «newsletter» del Centro Studi Sereno Regis. L’argomento era simile, la recensione un’altra, il libro successivo. Ecco il link se vuoi rileggere:

E spero che tu abbia voglia di leggere anche gli ingredienti di quel che compri, metti nel carrello, poi nel frigo, infine nel tuo e altrui piatto (e ancor più in-fine nel tuo e nell’altrui corpo).

Una cosa l’ho capita chiaramente: la non voglia di leggere gli ingredienti e la non voglia di sapere la verità sono due delle cause dei disastri alimentari che compiamo ogni giorno (perché mangiamo ogni giorno, ricordiamocelo!). Pollan ce lo ricorda per tutto il libro, con siparietti simpatici – se non facessero rabbrividire, almeno me –; chiedendo a suo figlio se il Nugget che sta mangiando sa di pollo ottiene la risposta che no, sa di Nugget!

«Il Nugget è diventato un genere alimentare a sé […] Sta nascendo una nuova madeleine. A un certo punto me ne ha passato davanti un pezzo per farmelo assaggiare. L’aspetto e il profumo erano ottimi […]. Per consistenza e forma alludeva certamente al pollo fritto, ma l’unico sapore che sono riuscito a sentire era quello del sale […] sembrava più un’astrazione che un vero alimento», p. 126 ss.

Matrix e altre pellicole

Ma Pollan, in questo libro, non si accontenta di sensazioni. Non fa, come il perfido Cypher (Joe Pantoliano). Nel film Matrix, mentre tradisce i suoi amici della resistenza, mangia una bistecca in un ristorante del mondo virtuale. Sa che il sapore che sente in bocca non è reale, ma gustando la carne al sangue dice «L’ignoranza è un bene» e insiste per assicurarsi che non ricorderà più nulla della vera realtà dove ha vissuto fino a quel momento con gli amici che sta denunciando all’agente Smith. La scena è così famosa che basta cercare nel web «Matrix, scena della bistecca» per trovare ogni cosa che aiuti a saperne di più, filmati compresi.

Pollan, dicevamo, non fa come Cypher. Si immerge totalmente nell’industria alimentare, legge attentamente le etichette, visita gli allevamenti, assiste alle macellazioni, vuole conoscere la realtà di ciò che mangia, per quanto buono sia. Già «per quanto buono sia», perché non basta a Pollan (e non dovrebbe bastare a noi) dire «mi piace» o «è buono» per mangiare qualcosa; dovremmo chiederci «cosa c’è dentro?» «come è stato fatto?» «mi fa male o ha fatto del male a qualcuno?».

Il dilemma del'onnivoro

La copertina del libro

Pollan, rispondendo a domande, legge l’opuscolo dei McNugget che sta mangiando con suo figlio e capisce questo: «Dei trentotto ingredienti che compongono un McNugget, almeno tredici, secondo il mio calcolo, derivano dal granturco: il pollo in sé (alimentato con mangimi a base di mais), l’amido di mais modificato (che serve a legare la carne sbriciolata), i mono-, di- e trigliceridi (emulsionanti che impediscono ai grassi e all’acqua di separarsi), il destrosio, la lecitina […] la farina di mais, […] l’olio di mais», p. 127. Siamo già stanchi vero? È su questo che contano i produttori con le loro etichette infinite e scritte a caratteri minuscoli (perché altrimenti non ci stanno!).

Ma Pollan ci invita a resistere, così potremo scoprire che

«[…] un Mc Nugget contiene anche numerosi ingredienti completamente artificiali […] che arrivano da una raffineria o da un’industria chimica. Sono questi elementi a rendere possibile l’esistenza dei moderni cibi preconfezionati, perché impediscono agli ingredienti di origine naturale di deteriorarsi o di cambiare aspetto dopo mesi passati nei freezer o nei container in giro per il mondo. […] fosfato acido di sodio e alluminio, monofosfato di calcio, pirofosfato acido di sodio […] antiossidanti […] il dimetilpolisiloxane […] sospetto cancerogeno […] Ma l’ingrediente forse più allarmante dei Chicken McNuggets è il TBHQ […] spruzzato direttamente sulla crocchetta o all’interno della scatola per “aiutare a conservare la freschezza”. [Cinque grammi di TBHQ possono uccidere», p 128.

Pillola rossa o pillola blu?

Ed eccoci arrivati al dilemma. Vogliamo continuare a leggere o preferiamo fare come Cypher? La domanda che attraversa tutta la trilogia del – per me sottovalutato e non capito – film Matrix è la stessa che si è posto Michael Pollan e a cui ha tentato di dare una risposta con questo libro intitolato appunto Il dilemma dell’onnivoro.

Troppo importante, troppo pieno di dati, troppo interessante per essere riassunto – anche se per una recensione – in poche righe. Posso tentare una «guida alla lettura» per chi si spaventasse di fronte alle quasi 500 pagine (ma vi assicuro, io che l’ho letto tutto per recensirlo, scorrono come un romanzo, anzi meglio, perché è una sorta di diario delle esperienze di Pollan alla ricerca della verità sul cibo):

Un prato che non è un prato è il sorprendente capitolo sul pascolo e sull’erba (da p. 202)

Wendell Berry è un autore molto citato nel libro (guardate l’Indice analitico, appare alle pp. 21, 161, 239, 275, 280, 456); se non lo conoscete o volete approfondire trovate i suoi libri – oltreché alla Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis di Torino – presso un editore indipendente illuminato di Torino che li sta ri-pubblicando.

E se n’è già parlato anche da queste «pagine»; qui:

 

e qui:

e qui:

e qui:

e altri ne hanno scritto:

http://blog.lindau.it/Diario-editoriale-47-la-giornata-mondiale-della-Terra-le-carte-in-tavola

Thich Nhat Hahn e l’«inter-essere»

Insieme a Pollan, anche quest’altro autore, Hahn, è presente nella Biblioteca del Centro Studi Sereno Regis, dove si trovano tutti i suoi lavori (e anche su di lui) se non lo conoscete. E se non conoscete il suo concetto dell’inter-essere leggete qua, a p. 212 del libro presentato questa settimana e ne avrete un’idea: Pollan, in una visita alla Polyface ricorda di aver già visto una mandria di mucche che mangiano

«[…] ma in quel caso ero immerso nel letame fino alle caviglie [all’] allevamento Poky Feeders […] nel Kansas. Le due scene non avrebbero potuto essere più diverse. La prima ovvia differenza era data dal cibo: le mucche della Polyface si servivano da sole, senza aspettare che un camion scaricasse nella loro mangiatoia una razione mista a base di mais coltivato a migliaia di chilometri di distanza, integrata con urea, antibiotici, minerali e grassi di altri bovini, secondo una ricetta stabilita in laboratorio da un esperto nutrizionista animale.

Qui le mucche si portavano al cibo, là era il contrario. E alla fine della cena non avremmo neanche dovuto pulire, perché le scorie prodotte dal bestiame sarebbero andate a finire proprio là dove erano più necessarie. Mucche che mangiano erba che si è mangiata l’energia solare: la catena alimentare all’opera in questo pascolo non avrebbe potuto essere più semplice […].

Nell’altro allevamento invece] si trattava di una piovra i cui tentacoli transcontinentali arrivavano a un campo di cereali nell’Iowa, a una zona ipossica del Goldi del Messico e ai giacimenti di petrolio del Golfo Persico da cui proveniva gran parte dell’energia necessaria per coltivare il granturco. I fiocchi di mais n. 2 presenti nella sua mangiatoia collegavano il manzo 534 a una complessa catena industriale (per non dire militare) che si estendeva per mezzo mondo», p. 212.

[Invece] Quei fili d’erba hanno trascorso la lunga giornata estiva a trasformare l’energia solare in zuccheri. [L’allevatore] sposta il bestiame nel tardo pomeriggio perché è il momento in cui il livello di zuccheri nelle piante raggiunge il suo massimo […]. Per alimentare la fotosintesi, le radici hanno estratto dal profondo della terra […] acqua e minerali che presto andranno a far parte del corpo della mucca».

Ma comunque le mucche che pascolano rovinano il prato! Qualcuno potrebbe obiettare. Pollan ha pensato anche a questo e fornisce altri dati per tranquillizzare i difensori dell’erba:

«[…] dal punto di vista di un osservatore umano: il morso della mucca ha mutilato il prato. Ma se potessimo osservare lo stesso evento stando dentro il terreno […] ci accorgeremmo che quel morso non è un gioco a somma zero tra animale e pianta. […] La pianta recisa, nel tentativo di bilanciare la parte aerea con quella radicale, si libererà di una certa porzione di radici, pari e quella di foglie che ha perso. Questo materiale muore e si decompone sotto l’azione di batteri, funghi e vermi, abitanti fissi del sottosuolo, fino a diventare una ricca porzione di humus.

Le antiche radici della pianta si trasformano in canali attraverso cui animaletti, acqua piovana e aria si spostano nella terra, stimolando la formazione di nuovo suolo di copertura. È in questo modo che il pascolo dei ruminanti, se ben gestito, riesce a costruire “dal basso” nuova terra», p. 231.

Partendo dall’affermazione di qui sopra, «se ben gestito», aggiungo una nota di ecologia profonda, riportando un dato evinto dalle pagine del fondamentale libro di Pollan. Se invece di coltivare 6,4 milioni di ettari di mais per nutrire le mucche (che poi mangiamo, anzi mangiate. Io non mangio animali fin dal 1979[1]) si organizzasse l’equivalente di pascoli ben gestiti, sarebbe come togliere dall’atmosfera 7-milioni-di-tonnellate-all’anno di carbonio. Sarebbe come togliere dalle strade 4-milioni-di-auto. Anche l’agricoltura contribuisce al riscaldamento globale: 1/3 di tutti i gas clima-alteranti sono attribuibili «all’ascia e all’aratro», come scrive Pollan a p. 215. Quindi occorre vigilare su che cosa/come coltivare.

L’essenza della nonviolenza

 

Durante la sua visita (più di una visita in realtà; la sua permanenza dovremmo dire) alla fattoria Polyface, Michael Pollan fa questa riflessione sul dilemma ben illustrato dalla vignetta qui sopra: «o.. o» oppure «e… e», pascoli o boschi?

«Avevo sempre creduto che erbe e alberi fossero antagonisti, attori in un gioco a somma zero in cui le vincite dell’uno corrispondono alle perdite dell’altro. Questo è in un certo senso vero: più prati, meno boschi, e viceversa. Ma l’aut-aut, “o questo, o quello”, è molto più tipico della nostra cultura che della natura, dove anche le specie in competizione dipendono l’una dall’altra e dove gli ambienti più brulicanti di vita sono quelli di transizione, e vale “sia l’uno, sia l’altro”. […] La cosa che conta di più sono i rapporti tra le parti, e la salute delle specie domestiche si rispecchia in quella delle specie selvatiche», p. 244.

Carne-petrolio-militari

In tutto il libro si parla di un certo manzo, il 534, per spiegare il lavoro che c’è stato dietro. L’autore ha seguito – letteralmente – il «suo» manzo, immaginando che fosse quello che avrebbe mangiato un giorno. E l’ha seguito per capire e quantificare l’impatto – sotto tutti i punti di vista – dell’allevamento industriale. Aiuto!:

«Ho risalito il flusso da questa mangiatoia [di mais industriale, NdR] fino al campo in cui è stato raccolto e mi sono ritrovato nel mezzo dei trecentoventimila chilometri quadrati di monocultura, sotto una fitta pioggia di fertilizzanti e pesticidi. […] guardavo il fertilizzante (e il carburante, e i pesticidi) servito per far crescere tutto quel mais tornare indietro da dove era venuto, dai giacimenti di petrolio del Golfo Persico. […] questo è oggi uno degli ingredienti principali nella produzione di carne.

[Il manzo 534] è entrato in una catena industriale spinta dal combustibile fossile, e quindi difesa dal complesso militare (un altro costo di cui non si tiene mai conto): […] ho chiesto a un economista che si occupa in modo specifico di agricoltura se fosse possibile calcolare precisamente quanto combustibile sarebbe stato necessario per far crescere il mio manzo […] fino al macello. Supponendo che 534 continui a mangiare dodici chili di mais al giorno e raggiunga i seicento chili di peso, consumerebbe l’equivalente di centotrenta litri di petrolio (quasi un barile).», pp. 96-97.

Sissì, avete capito bene: un solo manzo=un barile di petrolio. Fate voi i conti di tutti gli allevamenti intensivi del mondo…

… può nuocere ai minori…

… e anche ai maggiorenni, in verità. Come ha nuociuto a me che l’ho letto, questo brano non è per emotivi e iper-sensibili. Ma credo che sia da trascrivere per far capire il «carattere» di questo libro che tutti dovrebbero leggere per decidere della propria e dell’altrui alimentazione.

Ma ho premesso l’avvertimento, così chi non vuole non leggerà il «nostro» modo di risolvere i problemi. Si parla di maiali e dei loro proverbiali codini «a truciolo». Si parla del fatto che nella fattoria Polyface (dove l’autore ha trascorso parecchio tempo conoscendo un diverso modo di gestire gli animali da allevamento, i pascoli, i manzi, le galline, i maiali…) proprio i maiali fanno il lavoro di rendere aerobico il processo di compostaggio; i rosei animali rovistano nel letame bovino col robusto muso in cerca di chicchi di mais fermentati.

«Semisepolti dal letame in fermentazione […] questi animali, con le codine a cavatappi, mi sembravano i più felici che avessi mai visto. Vedere quella flotta di riccioli rosa spostarsi sul mare marrone come tanti periscopi di sottomarini mi fece venire in mente il destino ben diverso delle code dei maiali allevati in modo tradizionale. Detto brutalmente, non esistono. Gli allevatori gliele tagliano alla nascita, seguendo una pratica che ha una sua logica perversa nel culto dell’efficienza che domina una porcilaia industriale», pp. 236-237.

Proseguiamo? I maialini vengono svezzati prematuramente, perché ingrassano meglio e più in fretta con un pastone pieno di medicina che col latte della scrofa. Ma il «distacco prematuro frustra il loro desiderio innato di succhiare e mordicchiare, una voglia che cercano di soddisfare nelle gabbie con la coda di chi sta davanti a loro. Un maiale sano si ribellerebbe […] ma agli esemplari depressi degli allevamenti non importa più nulla. In psicologia si parla di “impotenza appresa” […]. non deve stupirci che un animale così intelligente si deprima […] e si lasci mordere la coda fino a farsi venire un’infezione.

Visto che curare gli esemplari malati non conviene economicamente, queste unità produttive non più efficienti vengono in genere ammazzate sul posto a bastonate. Il ministero dell’Agricoltura raccomanda la mozzatura delle code come soluzione al “vizio” porcino di mordersele. Con l’aiuto di un paio di pinze, ma senza anestetico, si strappa via il codino lasciandone però un pezzetto […] perché lo scopo […] non è eliminare del tutto l’organo, ma renderlo ipersensibile. Dopo questo trattamento il morso […] è talmente doloroso da provocare la reazione anche del maiale più depresso. Per quanto terribile ci possa sembrare questa pratica, è facile capirne la logica: la strada per l’inferno porcino è lastricata delle buone intenzioni dell’efficienza industriale», p. 237

Angelo Branduardi

Ma sì, certo, cari animalisti, anche l’allevamento «dei maiali felici» li sfrutta e li inganna perché producano compost oltre che costolette. Ma lo fa cercando di seguire le preferenze naturali delle bestie, «e non secondo le specifiche di una macchina industriale, a cui gli animali si devono poi adeguare. La felicità di questi animali è semplicemente conseguenza del fatto che li si tratta come veri maiali, non come macchine difettose, con “difetti” come la coda e la tendenza a stressarsi se allevato in cattive condizioni», p. 238.

L’ autore termina il suo racconto con un profumo, che parlando di maiali sembra strano no? Dopo che i maiali hanno fatto il loro lavoro, il letame bovino con trucioli di legno ora emanava «un odore caldo e dolce. Un miracolo di transustanziazione. Non appena i maiali finiscono la loro alchimia, il compost viene sparso sui pascoli, dove nutre l’erba che a sua volta nutrirà le mucche, che a loro volta nutriranno le galline e così via, fino a quando cade la prima neve: una lunga, elegante e convincente prova del fatto che in un mondo dove l’erba si fa con il sole e gli animali si fanno con l’erba è davvero possibile mangiare gratis», 238. … e venne il gatto, che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò…

Che facciamo noi?

Come scrive Carlo Petrini nella quarta di copertina:

«[…] questo libro dovrebbe essere usato nelle scuole, e […] ognuno di noi dovrebbe correre a comprarlo senza esitare, per capire finalmente che, se siamo davvero quello che mangiamo, è quanto mai necessario apportare qualche correzione urgente alle nostre diete e a come facciamo la spesa».

Già, fare la spesa. Occorre anche un nuovo tipo di consumatore – oltreché un nuovo tipo di produttore – che acquisti, conservi e prepari il cibo con piacere; che trovi intollerabile il gusto di un Big Mac. Questo mi fa tornare in mente un episodio di parecchi anni fa, che sta benissimo qui. Con mio figlio – allora di 7 anni – entriamo in un Mc Donald’s con un amichetto (e sua madre) che voleva assolutamente mangiare un hamburger. Mio figlio, che non l’aveva mai assaggiato in vita sua, lo trovò disgustoso e lo lasciò al suo stupitissimo amico, mangiando le patatine di accompagnamento. Semplicemente l’amico era abituato al gusto e mio figlio era abituato a gusti più naturali.

Questo nuovo consumatore – prosegue Carlin Petrini – ricorderà e capirà l’affermazione di Wendell Berry (vedete? Ancora lui, a p. 280):

«”mangiare è un atto agricolo”. E politico, avrebbe potuto aggiungere». Sottoscrivo ogni lettera. Anche di questo: «[…] la rivoluzione inizia quando il cliente si prende la briga, e si accolla il costo aggiuntivo, di comprare direttamente da un produttore del quale si fida […] L’unica garanzia significativa dell’autenticità di un alimento si ha quando venditore e compratore possono guardarsi negli occhi […]. “Non trovi strano che la gente faccia più attenzione a scegliere un meccanico o un agente immobiliare che la persona che produce il suo nutrimento?», p. 259.

Prima della fine

E poi si parla di funghi (cercate: 17 voci nell’Indice analitico!) e il capitolo più bello di tutto il libro è il n° 10: L’erba: mille modi di vedere un pascolo; e non perdetevi la lunga riflessione sul disgusto e sulla paura della morte, a partire da p. 378, paragrafo I due macellai, sulla cattura, uccisione e macellazione di un maiale.

Bella fine, alla fine

L’autore ha organizzato una cena tutta fatta da lui. Un pasto “perfetto” perché preparato tutto da zero, non comprando quasi nulla; gli ingredienti di quel pasto perfetto non avevano etichette, codici a barre, prezzi stampigliati ecc. La cena non era stata solo cucinata dall’autore. Nel corso del libro scopriamo che ha cacciato, ha coltivato, ha assistito alla macellazione e alla lavorazione del maiale che sarebbe stato la sua cena, ha lavorato in un allevamento di galline e ne ha uccise, ha raccolto la frutta, ha spalato letame, ha pescato ecc.

Voleva sentire il sapore di quella cena così diversa e unica. Il Ringraziamento dell’onnivoro ha proposto di chiamarla, perché «vale la pena preparare un pasto e consumarlo in piena coscienza di quanto è costato, se non altro per ricordarci il vero prezzo delle cose che diamo per scontate».

Certo un pasto preparato così non puoi farlo tutti i giorni, può essere solo rituale, per una ricorrenza. Infatti Michael Pollan conclude il libro con queste parole:

«Non ho intenzione di mangiare così tutti i giorni. Voglio sentirmi libero di aprire una scatoletta […]. Ma proviamo a pensare per un momento cosa accadrebbe se tutti noi ritornassimo a conoscere come dato di fatto, queste banalità: cosa stiamo mangiando; da dove viene; come è arrivato sul nostro piatto; quanto costa davvero […]. Allora […] non avremmo più bisogno di ricordare a noi stessi che, in qualunque modo decidiamo di nutrirci, lo facciamo per grazia della natura, non dell’industria, e che ciò che mangiamo non è né più né meno che il corpo del mondo», p. 436,


Nota

[1]    « […] gran parte di noi, ivi compresi gli allevatori di animali da carne […] non vuole avere niente a che fare con l’uccisione di ciò che mangia. [Ma] Come scrisse Ralph Waldo Emerson: “Hai appena cenato, e per quanto il mattatoio sia scrupolosamente celato alla vista dalla grazia della lontananza, la complicità rimane (R.W. Emerson, The Conduct of Life, Houghton, Mifflin and Co., Boston, 1860, p. 12)», p. 245.

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