Un errore di tempo: normare il cielo

Mirko Vercelli

Giovedì 20 ottobre, ultimo giorno del progetto. Un errore di tempo: normare il cielo

Alla fine Erdogan non è arrivato mai. Ad Amasra c’è stata un esplosione in una miniera, sulle coste del Mar Nero. 14, 28, 41 morti all’ultima conta e decine di intrappolati sottoterra. Il presidente s’è recato di persona e ha detto ai microfoni che “era destino”. Quando nel 2014 un esplosione uccise oltre 300 minatori, invece, osò un lapidario “sono cose che accadono”.  Il fatalismo provvidenzial-istituzionale di fronte alla carenza sistematica di misure di sicurezza sul lavoro lascia uno strano smarrimento.

Noi, a quell’ora, ballavamo la semmame tenendoci per i mignoli, con l’illusione di essere un corpo solo e con i piedi che pestavano un secondo piano condominiale. Un progetto politico nascosto nel battito della danza. Non lo sapevamo, non lo sanno, non lo saprete mai.

Il giorno dopo, la preghiera aveva dei silenzi più lunghi. Una volta finita, tutto è ripreso come prima. E mentre il mondo intorno rivoluziona su se stesso e i governi sopprimono le rivoluzioni, noi continuiamo con la nostra vita e iniziamo a chiamare “casa” il posto dove dormiamo. Il cuoco, H., continua a dire “chi cazo, vafanculo”, sorridendo, ogni mattina e mi ritrovo a pensare che mi mancherà non svegliarmi così. Le passeggiate mattutine.

Ogni viale ha un bar nascosto, un cortile di incensi e tazzine, un oasi di piante e divanetti. Teli sospesi in aria a riparare dal sole che filtrano la luce e proiettano una pioggia ocra su ogni cosa. E così quello che sembra un labirinto di vie strette e palazzi soffocati scopre polmoni sconfinati di intimo raccoglimento tra pietre e tè caldo. Dove il tempo semplicemente non arriva. Dev’esserci qualcosa nell’urbanistica che è pensata per far perdere il tempo, nel senso che è il tempo a perdersi per le strade e non trovarsi più. Ci sono muri dove non arriverà mai. Arrivano invece gli sguardi, le parole. Le erbacce, tra i mattoni. L’essere in strada per rivelarsi. Mani vive e odore di te, olive dai cesti e caffè, di quello con la miscela nella tazza che si deve depositare prima di berlo, il cezve. Gli alberi muoiono senza cadere.

Ragazzi in fila, seduti sui muretti, davanti alle saracinesche dei negozi che non apriranno mai, a fumare sigarette girate nei fogli di giornale. Osservano il mondo passare come l’acqua d’un fiume tra miracoli e cose normali. E così i curdi crearono il tempo del passo indietro. Senz’altro da fare che vivere e prendendo questo mestiere terribilmente sul serio. E noi, che forse non lo capiremo mai, andiamo dove portano i sensi e così la sera, che le vie sono argini di negozi chiusi e marciapiedi e deserti e costellazioni di luci artificiali, sentiamo una musica arrivare come fosse l’unico suono in tutto il Kurdistan e ci infiliamo in un vicolo.

Per capire il silenzio della vita di tutti, bisogna ascoltare della musica alle 4 del mattino, isolati nella propria camera. Che sia da telefono o da uno stereo, basta tenere il volume al minimo possibile, che sia appena udibile. Di sottofondo, si può percepire il silenzio del riposo di tutti. Poi, già alle 10 del mattino, nello stesso silenzio e isolamento, mettere la musica al minimo vuol dire doverla alzare di un po’. Quel poco che si alza, quello scarto che serve alzare la musica per poterla sentire, è il silenzio della vita di tutti.

Quella notte il silenzio della vita di tutti è così vibrante e vivace che si distinguono chiaramente, senza sentire alcun suono, persone cenare attorno a un tavolo pieno di riso e ceci e foglie di vite e teste di capre, compagni ricongiungersi nel letto, qualcuno piangere da solo, famiglie condividere l’unico momento di intimità, qualcuno pregare, qualcuno pregare di non pregare più. Ma noi, sopra questo silenzio, seguiamo la musica e raggiungiamo un piccolo café, l’unica cosa illuminata della via, un fendente arancione che squarcia l’obliato tendersi al cielo della strada. Appena ci vedono, un gesto della mano e ci invitano ad entrare. Il café è una piccola stanza coi mattoni di pietra a vista, illuminata a giorno, con i quadri alle pareti di Ahmet Kaya e i pochi avventori che fumano rilassati sui divanetti bassi. Balliamo con loro, beviamo qualcosa e sembriamo essere il centro dell’attenzione di tutto il locale. Quando capiscono che siamo italiani, alcuni si alzano in piedi ed applaudono, sorridono. Il riflesso di chi mi vede appare più generoso del mio riflesso allo specchio. Non capisco perché. Quando parliamo a U. del posto dove siamo stati, ci dice che lì suonano tutto il giorno. Tutte le sere, lo correggo. No, tutto il giorno, insiste.

Un pomeriggio incontriamo A., attivista vicina al PKK, anche lei di Diyarbakir o Amed, come la chiamano qua. Ci parla della ginealogia; la filosofia curda femminista, parte del confederalismo democratico ideato da Abdullah Öcalan, che scopro essere cittadino onorario di Pinerolo. Pinerolo? Suona come Vladivostok. Cosa ne sa la giunta comunale di Pinerolo del post-anarchismo curdo? Cosa ne sa Abdullah di Pinerolo, condannato prima alla pena di morte e poi all’ergastolo, imprigionato da più di vent’anni in una prigione su un’isola dall’altra parte della Turchia?

Foto di Mirko Vercelli

In realtà, guardando meglio, le cittadinanze onorarie italiane sono numerose, Napoli, Campobasso, Berceto, Reggio Emilia, Riace. Ma apprendo che i legami con lo stivale sono anche più importanti. Quando Öcalan era ancora un uomo libero, quando lottava contro il capitalismo e il patriarcato, cercava disperatamente rifugio presso le ambasciate di tutto il mondo e le autorità turche lo braccavano come una partita di Scotland Yard su scala internazionale. Siria, poi Grecia, infine Russia. Quando quest’ultimi, però, lo costrinsero ad andarsene, Ramon Mantovani, di Rifondazione Comunista, lo scortò da Mosca fino a Roma. Immagino la carovana lunghissima.

Una volta arrivato, lo invitò a consegnarsi alla polizia, sicuro che gli sarebbe stato concesso l’asilo politico. Ma il pragmatismo tipico italiano si riversò nel governo D’Alema I, che per evitare di incrinare i rapporti con la Turchia, consegnò l’attivista che era fuggito per tanto tempo, ai servizi segreti turchi, violando, tra l’altro, gli articoli 10 e 26 della Costituzione Italiana. Una volta imprigionato, è stato torturato e posto in isolamento e noi, per fare ammenda della nostra codardia, gli abbiamo dato la cittadinanza onoraria di mezza Italia. Sia mai che se venisse a trovarci ancora gli venissero negati tarallucci e vino. 

Öcalan è stato a lungo l’unico prigioniero in tutta l’isola di Imrali, un Napoleone di un mondo egualitario e libertario, un pirata curdo ecologista e femminista che è ancora attivissimo. Studia, scrive, pubblica articoli per il suo popolo. Instancabile. Come instancabile è il tempo che sottostà alle leggi turche e fa passare i giorni del suo ergastolo al confino. Più di mille guardie sono poste al controllo di un solo uomo. Una vittoria morale che manifesta il terrore del governo per le idee di libertà. Il pericolo che rappresentano i suoi scritti.

U. accenna agli arresti, alle torture dei suoi familiari, di sua sorella e suo padre e ci sentiamo in bilico su un capello. Basta niente a far crollare una democrazia, a diventare qualcuno che non piace al governo e finire in prigione. Questo posto è cosi simile a casa, ma le dinamiche sono così diverse. E pensiamo alla resistenza, al sacrificio in carcere, alla resistenza alle torture e pensiamo alle brigate partigiane, a Dante Di Nanni.

E F. mi confida, è proprio così, dire “io non potrei mai resistere alle torture, restare zitto, non rinnegare” è lasciare aperta la porta all’arrivo dell’oppressione. Ma sapere che l’essere umano dentro di sé ha quella forza, per necessità, amore, identità o disperazione, quella forza eroica di resistenza che hanno tirato fuori gli attivisti qui, ti fa ancora avere fede. “Nella memoria, l’esempio, nella lotta, la pratica”, recita un muro a Torino, dietro l’Askatasuna. E poi, qua, ogni arresto di un giovane ingenuo dà il tempo di formare uno stratega convinto, un esercito di Gramsci. Quando un pastore entra in prigione, ne esce filosofo, dice U.

Tornando alla ginealogia e al colloquio con A., la teoria alla base è semplice quanto radicale. Come si può avere una nazione libera se le donne non sono libere? Non violentare il lato femminile della vita, dalla natura alle donne, vuol dire camminare verso la libertà, la comprensione dell’altro e l’accettazione. Il bilanciamento che include entrambi i poli in sé e solo così è davvero cosciente. Ma al di là di questo lato quasi spirituale, la questione è anche squisitamente pratica. Il livello di libertà e di uguaglianza della donna determina la libertà e l’uguaglianza in tutte le altre aree della società. Quello che in antropologia verrebbe forse definito un fatto totale. Quindi la democratizzazione della donna è decisiva per la costruzione permanente della democrazia e del laicismo. Per una nazione democratica, la donna liberata costituisce la società liberata. La società liberata a sua volta costituisce la nazione democratica. E con donna si intende sia la donna che il femminile in senso lato. 

E poi parliamo della collega intellettuale uccisa il mese scorso in Soulemania dalle autorità turche, delle teorie di Bookchin, di teoria pronta all’uso, che non si scrive per le accademie, perché qui si fa politica come si fa il pane, con le mani, tra le persone, per consumarla subito dopo. Sorride tutto il tempo, mentre parla. Lei, giovanissima, i capelli neri e lisci che spiovono sulla canotta nera come fili di ragnatela. C’è l’imbarazzo dell’inglese e l’orgoglio di un progetto di nuova vita che ci mostra come un arazzo appena terminato. Parla dell’importanza della lotta come paradigma di cambiamento dai molteplici radicamenti.

La scienza delle donne, la ginealogia, è un osservatorio radicale e uno strumento di decostruzione innatamente anticapitalista e post-anarchista, come un ministero orizzontale che sorveglia la libertà delle donne all’interno di un progetto più ampio. Allora le chiedo se non abbia paura che il federalismo democratico, l’idea di auto-gestione femminista e comunitaria senza confini, che non mira alla creazione di uno “stato-nazione”, non venga cooptato pezzo per pezzo, come successo in occidente con il movimento LGBTQ+ o l’ambientalismo. Le tematiche che vengono rese identitarie facilmente vengono poi assorbite dal sistema quando perdono il loro potere rivoluzionario. Diventano semplice nazionalismo strumentale alla repressione e alla competizione tra individui. Allora mi risponde molto semplicemente, con quello che non capiscono in Occidente gli attivisti.

Non c’è alcuna volontà di mediare, di trattare o trovare una via di mezzo con la repressione. Si vuole il cambio di paradigma; o quello, o niente. Ogni ramo del movimento lotta per cambiarlo, che sia il lato sociale, civile o economico: nessuno del movimento accetta una vittoria solo nel proprio campo; si lavora, invece, per un cambiamento generale del paradigma partendo dal proprio specifico tema. I diritti delle donne all’interno del capitalismo sono diritti del capitalismo. La protezione dell’ambiente all’interno del capitalismo è protezione del capitalismo. Parla dei “compagni” arrestati con lo stesso sorriso con cui si era presentata, del suo passaporto ritirato perché considerata terrorista. Ma credere che lei voglia andarsene da qui vuol dire non aver capito la sua lotta. E mentre parla, sembra la cosa più lontana che abbia mai visto da un essere umano, eppure è solo il vivere in una terra che ti uccide o ti innalza. Poi lo capisco. Che sì, comunque un giorno si dovrà morire, per forza. Ma tutti gli altri no. Sia prima che dopo. E allora per vivere davvero, continuando ad amare e sognare, sono disposti a perdere tutto. Ma non il sogno e l’amore. 

Il pomeriggio ripassiamo dal centro e sentiamo effettivamente suonare dal café dell’altra sera. Allora era vero che suonano tutto il giorno. Gli elicotteri passano sopra le nostre teste e se alle prime voltavo la testa all’insù per cercarli, ora sono come il suono delle campane che scandiscono le ore. 

Foto di Mirko Vercelli

E poi il castello di assiro di Egil, costruito settemila anni fa, ora sede di barbecue domenicali. Un sito candidato per essere patrimonio UNESCO, una testimonianza storico-architettonica inestimabile nella quale si intuiscono ancora scale, finestre e stanze di un impero lontanissimo e pangea della modernità, è pieno di lattine, cartacce e bottigliette. Ma non sembra un problema, anzi, è quasi rincuorante. Anziché essere divorato dalla polvere e dimenticato dalle cartine geografiche, le strade sono ancora battute, gli antichi magazzini hanno dentro scope e secchi, ci sono segni di fuochi, scatole di cibo.

La popolazione ne sente ancora il possesso ed occupa lo spazio, lo usa quotidianamente. Alla fine non c’è né più ne meno sporcizia di un classico posto da campeggio del fine settimana. Solo che questo è un castello assiro. Non è che la popolazione non ne senta la sacralità, ma è proprio che sentendola sa che appartiene a loro, al loro passato. E mentre scendiamo dalla montagna, una vista sconfinata tutt’intorno, sulle luci delle città bianche costruite per i turisti, sulle bandiere rosse della Turchia e un deserto infinito, che preme sul petto e ti costringe a respirare a fondo, col sole che crolla dietro la lama dell’orizzonte, inizia a piovere.

Foto di Mirko Vercelli

Mentre qualcuno scatta foto, mentre altri raccolgono fossili da terra. Piano, delicatamente e tra le nuvole che s’annodano nel cielo, si dipinge un arcobaleno. Così grande che si staglia dalla punta del castello e crolla dietro una montagna. Tutti, istintivamente, volgiamo al cielo lo sguardo. In Turchia gli arcobaleni, come simbolo queer, sono illegali. Non si possono mostrare in Tv, né sui cartelloni pubblicitari o sulle grafiche dei vestiti. Qualche mese fa, un turista con un ombrello arcobaleno, che non sapeva niente della questione, è stato fermato dalla polizia. Mi chiedo se i conservatori turchi si guardino le scarpe quando finisce di piovere e nascono gli arcobaleni. O se sognino di cancellare il Sole. E penso alla pazzia del voler negare i sentimenti umani di comunione, d’amore, collaborazione e condivisione. Di voler mettere leggi e armi tra i fratelli. Tentativi che vanno contro la natura umana. Che per quanto ci si provi, crollano nelle azioni quotidiane in tutta la loro irrazionalità. Come a voler normare il cielo.

E dopo tutto, l’uomo. 

Non vivere su questa terra | come un estraneo o come un turista nella natura. | Vivi in questo mondo | come nella casa di tuo padre: | credi al grano, alla terra, al mare | ma prima di tutto credi all’uomo. | Ama le nuvole, le macchine, i libri | ma prima di tutto ama l’uomo. | Senti la tristezza del ramo che secca, | dell’astro che si spegne, | dell’animale ferito che rantola | ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo. | Ti diano gioia tutti i beni della terra: | l’ombra e la luce ti diano gioia, | le quattro stagioni ti diano gioia | ma soprattutto, a piene mani | ti dia gioia l’uomo!

Nazim Hikmet


 

 

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