India: la protesta del settore contadino continua a oltranza

Daniela Bezzi

Mentre l’attenzione del mondo è focalizzata sul molto prossimo insediamento di Biden a Capitol Hill, ancora sotto shock per l’attacco delle truppe pro-Trump il 6 gennaio, l’India sta seguendo con il fiato sospeso il braccio di ferro in corso da quasi due mesi tra il fronte contadino e il Governo di Narendra Modi, per via di quello stesso contenzioso che questo sito ha già avuto modo di raccontare qualche settimana fa con il giornalista P. Sainath, intervistato da Democracy Now

E una volta tanto verrebbe da dire: Grazie India! Perché lo spettacolo di unità, coesione, maturità politica, chiarezza di obiettivi, resilienza in tutte le possibili declinazioni, offerto dalla formidabile protesta contadina, per l’abrogazione delle leggi recentemente passate al Parlamento indiano, è semplicemente straordinario, Incredible India davvero.


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La protesta dei contadini indiani riguarda tre leggi che sono state ratificate il 20 settembre scorso al Parlamento indiano, bypassando il normale iter procedurale: senza alcuna preventiva consultazione con i vari governi degli stati principalmente interessati, né con le organizzazioni sindacali.

In sintesi il nuovo quadro legislativo dovrebbe (nel punto di vista del Governo) introdurre una radicale modernizzazione nel settore agricolo dell’India, in tre specifiche aree:

– quella della commercializzazione dei prodotti agricoli, sostituendo al sistema dei “mandi” (ovvero mercati generali statali) una totale liberalizzazione

– quella dei prezzi e dei servizi agricoli

– quella della materie prime considerate essenziali

In pratica l’obiettivo sarebbe liberalizzare, con l’ausilio anche di piattaforme on line, un settore obiettivamente molto arretrato, in sofferenza da tempo (come testimoniano le decine di migliaia di suicidi per debiti ogni anno), caratterizzato da una proprietà terriera molto frammentaria (oltre l’86 per cento di chi lavora nell’agricoltura possiede appezzamenti di terra sotto i due ettari), e in qualche misura tutelato da una forte presenza dello Stato. Il “prezzo minimo di vendita statale” che il Fronte Contadino vorrebbe di nuovo garantito, rappresentava una minima tutela non solo rispetto alle fluttuazioni del libero mercato, ma anche in considerazione di condizioni climatiche sempre meno prevedibili.

Con la liberalizzazione da poco varata, i lavoratori del settore agricolo perderebbero anche queste minime tutele, e sarebbero alla mercé della grande distribuzione privata.

Al di là delle motivazioni contingenti, derivanti da una legislazione frettolosamente passata dall’esecutivo senza alcuna consultazione con i vari Governi a livello statale, questa mobilitazione ha avuto il merito di riportare in primo piano la situazione di acuta sofferenza di un settore agricolo che occupa il 65% della forza lavoro dell’India – e dal quale dipende la sussistenza di una popolazione che gli ultimi dati quantificano nell’ordine di quasi 900 milioni, la popolazione rurale più numericamente consistente del mondo, e tra le più tartassate, oltre che (oggettivamente) in declino di produzione.

Se durante gli anni ’60 il settore agricolo dell’India riusciva infatti a contribuire intorno al 40% del PIL, i dati degli ultimi anni non superano il 15/16% – che risulta sì superiore alla media del resto del mondo, ma senz’altro non all’altezza delle ambizioni di un Governo Modi, la cui prevalente preoccupazione sembra quella di ‘rispondere’ al meglio alle pressioni del settore corporativo e delle banche d’affari.

Sorprendentemente, la prova di fermezza, compattezza, dignità offerta dal fronte contadino per un periodo così prolungato di tempo (quasi due mesi, dal 26 novembre scorso, in coincidenza con lo sciopero generale che ha coinvolto 250 milioni di lavoratori in tutta l’India) è riuscita a conquistare persino le simpatie del ceto urbano.

E particolarmente a Delhi, nonostante le indubbie difficoltà create sul fronte-traffico a causa del blocco di accesso su ben 5 aree periferiche, questo immenso e organizzatissimo sit-in  è riuscito a interpretare le speranze di cambiamento di una pubblica opinione da troppo tempo rassegnata all’ineluttabilità di un Narendra Modi talmente certo della propria strapotenza, da permettersi di tutto, dal lockdown totale con sole quattro ore di preavviso per una popolazione di un miliardo e 400 milioni di persone, all’incarcerazione preventiva per chiunque osi esprimere il minimo dissenso, alla frettolosa ratificazione (appunto) di questa ‘riforma’ del settore agricolo, bypassando il previsto iter Costituzionale.


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E infatti, non c’è stato giorno nell’arco di questi due mesi di sit-in, che non abbia registrato nuove adesioni o manifestazioni di solidarietà. Alla coalizione delle cinquanta organizzazioni sindacali dello stato del Punjab, ecco aggiungersi da ogni angolo dell’India le delegazioni delle varie morcha, sabha, sanghatan, pronte a fare massa critica in caso di scontro, o con semplici contributi materiali, derrate alimentari, coperte, damigiane di ghee – qualunque assedio (si sa) richiede rinforzi anche per gli assedianti.  E non sono mancati i colpi di scena, o veri e propri trabocchetti. Come nel caso del pronunciamento emesso l’11 gennaio dalla Corte Suprema dell’India, che per bocca di cinque autorevoli giuristi, si è espressa sorprendentemente in linea con le rivendicazioni del fronte contadino, circa le tre leggi già ratificate in Parlamento, che il fronte contadino vorrebbe venissero abrogate.

“Un simile e autorevole pronunciamento avrebbe potuto alimentare l’illusione di chissà quale leva negoziale” mi dice da Delhi un’amica molto vicina alla leadership del BKU-Ekta Ugrahan, il più importante sindacato contadino. “Anche per la resistenza sul fiume Narmada, o per la concessione di sfruttamento della montagna Niyamgiri in Orissa, la Corte Suprema dell’India venne sollecitata a prendere posizione – ma con quali risultati? Lettera morta. L’ennesimo teatrino nell’infinita serie di illegalità promosse da tutti i Governi indiani degli ultimi decenni, nel perseguimento di questo o quel fine affaristico. Una volta tanto questo movimento non é caduto nel tranello. Ha visto in questa mossa un’ennesima dilazione, dopo nove incontri senza esito – e si è limitato a ripetere: we don’t move. Finché non sarà il Governo stesso a dichiarare nulla quella legislazione, noi da qui non ci muoviamo.”

Una dimostrazione di fermezza che l’India sta seguendo da settimane con ammirazione e apprensione al tempo stesso. Perché man mano che i giorni passano, di fronte alla fermezza del fronte contadino cresce anche la rigidezza del Governo, con non pochi tentativi di screditare l’intero movimento agli occhi dell’opinione pubblica, per esempio insinuando l’ipotesi di infiltrazioni terroristiche e connivenza con la causa separatista del Khalistan Movement. Ed ecco lo scorso 17 gennaio la notizia del mandato di comparizione da parte della temibile NIA (National Investigation Agency) per 40 membri piuttosto in vista del Movimento, tra cui l’attore Deep Sidhu, oltre ai leaders Baldev Singh Sirsa, Manjeet Sight Rai e altri. Tutti loro hanno ignorato il mandato e indetto una conferenza stampa per denunciare in questa intimidazione, l’ennesima dimostrazione d’indisponibilità da parte del Governo – ma l’accusa di “comportamento anti-national” potrebbe essere non lontana, con l’inevitabile corollario della detenzione preventiva.

Una partita insomma sempre più delicata, man mano che ci si avvicina alla fatidica data del 26 gennaio, che per l’India è da sempre Republic Day, giorno di Gran Parata Istituzionale, con aerei svettanti nel cielo e sfilata di tableau vivants rappresentativi delle tante facce dell’India – e Parata che i contadini minacciano di ‘movimentare’ con una loro sfilata ‘parallela’, e non solo trattori sventolanti di bandiere, ma carri rappresentativi delle diverse culture agricole dell’India, con l’obiettivo di aggregare il maggior numero possibile di movimenti e organizzazioni. Come se ne esce?

“Ce lo stiamo chiedendo tutti” è la risposta della mia amica di Delhi vicina al movimento. “La cosa certa è che il fronte contadino non cederà. E anche il Governo ne è consapevole. Negli incontri delle scorse settimane sono state abbozzate varie proposte, in termini di dilazione temporale, per agevolare l’adattamento al nuovo ordine presso i proprietari più piccoli, che sono la maggioranza.

Ma la risposta delle organizzazioni sindacali è stata fermissima nel ribadire la richiesta di abrogazione di tutte e tre le leggi. E ben sapendo di poter contare sul crescente sostegno di tutto il settore agricolo, non solo dagli stati più vicini a Delhi, l’Haryana, l’Uttar Pradesh, il Rajasthan; ma anche dal Madhya Pradesh, Maharashtra, persino Tamil Nadu e Kerala. Ed è ormai chiaro a tutti che in questa prova di forza non si gioca solo il destino di una legislazione sicuramente ingiusta per il settore agricolo dell’India. E’ in gioco la tenuta stessa di un Governo che, nonostante le tante prove di forza, è uscito parecchio indebolito da quest’anno di pandemia.”

Infatti: indici di crescita precipitati, export in difficoltà, disoccupazione più rampante che mai, continui scontri sul confine con la Cina. Per coloro che stanno seguendo con più partecipe apprensione questo momento, è chiarissimo che in questa partita si è aperta una straordinaria opportunità per il futuro di tutta l’India. E la data del 26 gennaio che si fa ogni giorno più vicina, è ben più di una data simbolica, ma una speranza vera: quella di poter festeggiare (forse) una Nuova Liberazione dopo anni di cupa deriva.

Ma intanto non si può fare altro che seguire l’evolversi della situazione per quel che è possibile, ovvero sui social, perché tra i tanti aspetti straordinari di questa grande tendopoli che per decine di chilometri è andata crescendo soprattutto a Singhu, nell’area in cui buona parte di Delhi fa già parte dell’Haryana, è che i media, soprattutto quelli TV, non sono graditi. Niente riprese frettolosamente strappate dal reporter di turno, per finire in chissà quale rissa sui talk show – anche sul fronte della comunicazione questo movimento sta esprimendo un livello di consapevolezza altissimo circa la partita che sta giocando, e circa la sfida (inaudita) che essa rappresenta per il Governo Modi.

Ed ecco sul canale Kisan Ekta Morcha attivato apposta su Facebook, Instagram, You Tube, Snapchat, Twitter  “per controbattere alla propaganda ostile che sta cercando di affossare la nostra protesta” la femminista Kavita Krishnan che denuncia il tentativo di escludere le donne dalla presenza attiva all’interno del movimento: “All’interno della comunità sikh del Punjab, le donne sono una componente importantissima, protagoniste di una parità di genere che in altre parti del mondo si sognano! Impensabile escludere da questa protesta le compagne, le madri, le figlie di questo fronte contadino, con la scusa dei rigori invernali! Come se non facesse freddo nei campi che le vedono ‘tradizionalmente’ al lavoro, spesso alla guida di quegli stessi trattori parcheggiati ora alle porte di Delhi!”

Ed ecco solo pochi giorni prima la scrittrice Arundhati Roy, che dalla località di Tikri assicura la vittoria certa, alla folla di turbanti assiepati intorno a lei: “Avete già vinto! L’esempio di forza, fraternità, unità che state dando a tutta l’India, è un’ispirazione per tutti noi, perché è solo così, unendoci tutti insieme che potremo vincere su tanti altri fronti!”    

Qualche post più sotto, immortala l’ennesima sfilata di trattori in arrivo dall’Haryana, con la didascalia: “In caso di guasto a qualche trattore, tutto il villaggio se ne farà carico. Ogni famiglia ha assicurato la partecipazione di un suo membro al movimento. Inquilab Zindabad (W la Rivoluzione)”. Ed ecco un’altra foto simile ma infiocchettata di bandiere rosse per segnalare la partenza dei trattori anche dal Kerala, a 2.600 km di distanza, sperando di arrivare in tempo per Republic Day!

Per non dire dell’ottima organizzazione logistica che da settimane consente a una popolazione di decine di migliaia di uomini, moltissime donne, non pochi anziani, di resistere nonostante tutto. Nonostante il freddo pungente dell’inverno. Nonostante la pioggia battente per giorni. Nonostante il disagio di vivere in tende di nylon precariamente attraccate ai trattori – più si è, meglio è, per trasmettersi calore, farsi forza a vicenda. Nonostante i numerosi decessi, per ipotermia, per banali incidenti, alcuni per suicidio. Nonostante la precarietà di cucine improvvisate in grandi tendoni, con cucinieri di ambo i sessi che si danno il turno notte e giorno – il tutto comunitariamente gestito in spirito di sewa, reciproco aiuto, solidarietà. Che è la cosa più bella, la cosa più spesso raccontata, descritta, ammirata, portata ad esempio non solo sui socials.

Come andrà a finire? E’ la domanda che in questi giorni rimbalza su tutti i media dell’India, e che sollecita i pareri più diversi. Più che mai gettonato il mitico P. Sainath, ex corrispondente per gli affari rurali del quotidiano The Hindu, e fondatore del website PARI (People’s Archive of Rural India) ripreso spesso anche da questo sito.

L’aspetto indubbiamente positivo di questa mobilitazione, è l’aver rimesso al centro del pubblico dibattito la questione della terra. La sofferenza così spesso ignorata delle campagne, le decine di migliaia di morti suicidi ogni anno perché sommersi di debiti, la miseria di condizioni lavorative nel comparto più fondamentale che esista: la produzione di granaglie, farine, verdure, frutta, insomma cibo. La questione della sovranità alimentare non in termini di mera competitività a tutto vantaggio della grandi corporations (come vorrebbe la nuova legislazione), ma in termini di equità, rispetto per la terra e per chi ci lavora, salvaguardando quelle minime tutele già esistenti e semmai ragionando sulla necessità di sostanziosi investimenti, incentivi, ammodernamenti, in un’ottica di reale sostenibilità: questi i temi al centro del dibattito che monopolizza da giorni l’infosfera dell’India.

Ma la data del 26 gennaio, Republic Day, che si fa ogni giorno più vicina, rischia di volgere in scontro aperto quella che fino ad oggi è stata ‘guerra’ di posizione. Il fronte contadino ha detto e ripetuto di essere pronto a resistere in sit-in a oltranza, fino a quando Narendra Modi in persona non avrà annullato le tre leggi già approvate – un “ricatto” che il Governo non è disposto ad accettare. E vari comunicati stampa del 18 gennaio confermano la determinazione a partecipare alle celebrazioni del 26 gennaio: in modo ovviamente pacifico, con tableaux vivants non meno rappresentativi delle diverse realtà dell’India, come previsto dalla parata ufficiale – ma sicuramente rappresentativi anche delle istanze, delle tante irrisolte problematiche dell’India rurale, e dei movimenti, sindacati, organizzazioni che ne sono capofila. Una sfilata insomma molto poco… ufficiale.

Il Governo ha già fatto sapere che, trattandosi di un problema di Ordine Pubblico, spetterà alle Forze dell’Ordine della capitale decidere chi ammettere in città per la Festa della Repubblica, e ha chiesto alla Corte di pronunciarsi entro e non oltre il 20 gennaio. Ma è già chiarissimo che un contenzioso già fin troppo difficile fino a ieri sul fronte economico-sindacale, sta pericolosamente scivolando in sfida aperta, con esiti quanto mai incerti.

“Dobbiamo solo sperare che la forte componente di sikh, all’interno delle forze dell’ordine, renda possibile una qualche mediazione nei prossimi giorni” è il commento della mia amica di Delhi. “Sarebbe terribile se questa storia diventasse scontro vero…”


 

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