Domenico Lucano, il fuorilegge crocefisso

Autore
Maurizio Del Bufalo


Domenico Lucano
Il sindaco Mimmo Lucano all’Anfiteatro di Riace
| Foto Hiruka komunikazio-taldea, CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons

Con la pubblicazione della sentenza di primo grado a carico di Domenico Lucano, ex Sindaco di Riace, stiamo vivendo in questi giorni in Italia, un momento di grande emozione collettiva, come non accadeva da tempo. L’esito di questa vicenda ha diviso in due un Paese già provato dalla pandemia e dalla crisi economica. Un Paese che non ha più fiducia nelle sue istituzioni e nella giustizia, purtroppo seriamente malate, nella cui storia riaffiorano continuamente fantasmi del passato peggiore.

Come nella vicenda delle stragi degli anni 70, una vicenda di formale legalità fa da schermo a quello che sta realmente accadendo nelle viscere del Paese dove, spesso, l’accoglienza dei migranti è diventata un business.

Lucano, bersaglio eccellente, leader e icona della sinistra, profondamente amato dalla gente, era da alcuni anni nel mirino di Prefetture e Procure calabresi e la sentenza di primo grado del 30 settembre scorso (colpevolezza punita con 13 anni e 2 mesi di reclusione) appare come un colpo profondo alla sinistra italiana.

Non è eccessivo definire Lucano un leader politico. E’ innegabile che egli abbia conquistato negli ultimi tre anni il ruolo di riferimento assoluto per tutti quelli che chiedono un cambiamento dal basso, cioè un’azione rivoluzionaria che, in alcuni punti d’Italia e d’Europa, si sta già conducendo contro il sistema di sviluppo industriale e finanziario che sta strangolando il pianeta. Nessuno in Italia ha finora raccolto tanta attenzione ed è arrivato al punto di sperimentare nuovi equilibri possibili come quelli di Riace. Questo dà la prova della gravità di quanto successo l’altro ieri a Locri.

Che Domenico sia il leader simbolico di tutta la sinistra italiana, lo provano le centinaia di interviste, articoli, conferenze e riconoscimenti che gli sono stati tributati in tutto il mondo, dall’Europa all’America; la sua intuizione, e anche la sua prassi, sono state apprezzate ovunque e sono un fattore di vera novità nel panorama del pensiero unico mondiale, un po’ come le dichiarazioni di Greta Thurnberg. Basti pensare alle parole di Wim Wenders, alla lettera del Papa e alle classifiche di Fortune, fino all’attenzione riscossa nelle più grandi Università italiane e straniere, per rendersi conto che non si tratta di un’esagerazione, ma di un primato morale, di un vero soffio d’aria nuova che ha attraversato la nostra società, affascinando giovani e meno giovani.

Lucano è dunque il simbolo più amato di quello che resta della sinistra italiana, in sintonia perfetta con le avanguardie tedesche e francesi, e le manifestazioni di protesta e indignazione che sono scattate in tutt’Italia confermano questo dato di fatto. Proprio per questo la nostra riflessione non vuole e non deve fermarsi alla mera speculazione processuale, ma partendo dalla gravità della pena inflitta, cercherà di capire il perché di un accanimento che dura da alcuni anni e che ha evidenti riscontri nell’agire ostinato delle Prefetture calabresi. E’ chiaro che colpendo Lucano si colpisce molto più in alto di Riace e del suo piccolo Villaggio Globale.

Mirare al bersaglio grosso

Lucano è un leader. Lo dicono scrittori, poeti, musicisti, missionari, filosofi, uomini politici e pensatori, saggisti, registi e attivisti dei Diritti Umani che gli hanno reso omaggio, sedendosi con lui sulle scale della taverna Donna Rosa, il suo quartier generale di Riace, dove fino a pochi mesi fa erano visibili i segni lasciati dai pallettoni della ndrangheta sparati contro le finestre del suo ufficio, per capire da dove venisse fuori tanta energia da sfidare il sistema politico europeo. Tutti hanno trovato un uomo semplice che raccoglie, nella sua storia personale, gli insegnamenti di molte generazioni e tanti sogni negati del suo popolo.

Eppure Domenico Lucano ha rifiutato di svolgere la parte dell’eroe che dispensa ricette, del padre nobile che prepara la successione e lascia un testamento di regole a cui attenersi; ha solo accettato di parlare con tutti e spiegare qual era il motore che lo muoveva e quanto bisogna rischiare in proprio per “restare umani”, come affermava Vittorio Arrigoni, altra figura profetica che voleva addirittura seminare la pace in Palestina.

I suoi miti sono stati uomini semplici del Sud d’Italia, martoriato dalle mafie: Peppino Impastato, Giuseppe Lavorato, Peppe Valarioti e poi don Natale Bianchi, il vescovo Giancarlo Bregantini, padre Alex Zanotelli. Preti e comunisti, come nella migliore tradizione della teologia della liberazione che ha impregnato quell’America Latina cui i calabresi sono legatissimi, per via di storie di emigrazione che affondano le radici nel Novecento. Già… l’emigrazione, tutto si tiene lungo il filo di memoria che Domenico tesse da anni e che lo ha spinto a cercare i suoi conterranei in tanti Paesi stranieri e poi lo ha portato sulle rive dello Ionio, dove, nel 1998, il vento spinse una nave di profughi curdi a Badolato, ad un passo da Riace. E lì cominciò il suo destino, collegando la storia dell’Oriente bruciato dalle guerre a quella del Meridione ospitale.

Ma stavolta la partita è diversa dal passato, c’è di mezzo l’economia. Le braccia dei migranti servono, ma non devono disturbare il circuito di interessi che si muove attorno alla migrazione. I migranti sono utili ma non sono sempre graditi e si preferisce pagare qualcuno che li tenga chiusi nei lager e torturarli, pensando che questo basti a fermare un continente alla deriva. Facciamo finta di non vedere che l’Africa e l’Asia ci stanno presentando il conto di tre secoli di colonialismo. Non sarebbe meglio accoglierli e aiutarli a ritrovare la propria giusta dimensione, anche nei loro Paesi d’origine?

È quello che sostiene Domenico Lucano, che non è pazzo o missionario e neppure un sempliciotto pasticcione come qualche giudice afferma, ma soltanto un uomo pragmatico, che sa che questo gioco di respingimenti, oltre che inumano, non potrà durare a lungo. Per questo, a mio avviso, chi tenta di ricondurre la persecuzione di Lucano alla semplice critica di gestione del progetto SPRAR ospitato nel paesino calabrese, non è sincero e finisce per chiudersi nella misera diatriba innocente/colpevole, che oscura il senso dell’agire umano e rivoluzionario di quest’uomo e quindi non spiega il vero motivo per cui è stato crocefisso.

E veniamo ad alcune delle ragioni di questa condanna mostruosa che ad alcuni può apparire eccessiva e immotivata, ma, a guardar bene, esprime tutta la paura di chi non vuole una vera accoglienza dello straniero.

Disobbedire per superare i limiti della legge

Ai suoi amici più fidati, Domenico ha più volte rivelato le continue pressioni che la Prefettura di Reggio esercitava su di lui, chiedendogli continuamente di accogliere nuove ondate di profughi perché era noto che a Riace questi avrebbero trovato un’accoglienza vera. Il punto è che la legge dello SPRAR imponeva tempi di permanenza molto brevi per gli ospiti (sei mesi) nei quali è praticamente impossibile garantire accoglienza, ospitalità e integrazione com’era annunciato nei principi della legge. Di fatto, i gestori dei progetti di accoglienza si sarebbero dovuti limitare a trattenere i migranti per pochi mesi, durante i quali l’unico obiettivo possibile era quello di assicurare un tetto e un pasto, null’altro. Ogni sei mesi si doveva scaricare la “merce” e caricarne di nuova. Un’ipocrisia sostenuta da somme considerevoli messe a disposizione dall’Europa per far fronte temporaneamente all’ondata migratoria, senza affrontare veramente i problemi di questa umanità in movimento.

Domenico Lucano non era d’accordo con questa continua movimentazione di esseri umani perché, oltre al rifiuto per questi metodi più adatti alle merci che alle persone, l’emergenza ha dei costi elevati e scarsi risultati, anche di efficienza. Per questo ha trasgredito la legge, allungando quasi sempre questi periodi di permanenza, nel tentativo di garantire ad ogni ospite un tempo minimo di inserimento nella situazione locale.

Spesso gli ho sentito dire che non è possibile strappare un bambino dalla scuola dove sta frequentando l’anno scolastico perché è scaduto il semestre di assegnazione al progetto dei suoi genitori. Non è così, diceva, che si può fare integrazione e accoglienza; questi atteggiamenti generano altri traumi e difficoltà alla famiglia migrante e tradiscono lo spirito della legge e della Costituzione. Per questo e altri motivi, la divergenza di Lucano dalle richieste “a tempo” della Prefettura è stata radicale e qui sta un primo motivo di disobbedienza. Chi ha intravisto in questo atteggiamento un delirio di onnipotenza non conosce l’uomo Lucano e non ha mai avuto a cuore la sorte umana, la giustizia, i Diritti Umani, ma solo il rispetto della norma.

Non è un caso che Riace, seguendo questa linea di umanità ad ogni costo, sia riuscita a ospitare un numero di migranti quasi uguale a quello della popolazione locale senza mandare le spese alle stelle, ma addirittura coinvolgendo i propri cittadini in questa rivoluzione, fino a creare un centinaio di posti di lavoro nuovi, tutti nel settore dell’ospitalità e dell’integrazione dei migranti. I migranti a Riace godevano di un trattamento umano e di una prassi di inserimento vera, partendo dal cibo e dalla casa fino al lavoro, ai corsi di italiano, alla salute e all’avviamento al lavoro. Di questo si parla troppo poco e spesso senza cognizione e si preferisce non fare confronti con gli altri centri di accoglienza.

In tutto questo, né lui né i suoi collaboratori hanno intascato nulla anche se le procedure di assegnazione degli appalti hanno molti punti di incongruenza. Ma qui va fatta un’altra considerazione, forse più importante.

Il valore del contesto

Oltre che soffermarsi sui criteri di assegnazione dei contratti di appalto, sarebbe il caso che chi ha il dovere di capire e giudicare, indagasse su quello che accadeva ordinariamente in Calabria, nelle altre esperienze di ospitalità. Ci sono alcuni casi di centri di accoglienza, soprattutto emergenziali come i CARA, in cui gli appalti venivano assegnati ai “soliti noti” cioè ad imprese in odore di mafia o controllate direttamente da mafiosi. Lo dimostrano le cronache giudiziarie degli ultimi anni.

Se Lucano ha ritenuto che la trafila ordinaria della concessione di appalti tramite evidenza pubblica lo esponeva al rischio di collusione e ha deciso di optare per l’assegnazione diretta, ha commesso un reato, ma ha anche interrotto il flusso di finanziamenti di danaro pubblico su cui la ‘ndrangheta poteva contare, sfruttando il fenomeno dell’accoglienza. Limitarsi quindi a reprimere e condannare questo sistema di assegnazione diretta adottato a Riace, peraltro assolutamente privo di interessi privati, è solo apparentemente corretto, perché ignora del tutto che in quell’area il crimine ha consolidato una prassi nota a tutti, specialmente alla magistratura che ne ha rilevato la presenza e l’adozione abituale, ma di cui evidentemente non si è avvertita tutta la pericolosità.

Se così è andata, Lucano appare come un fuorilegge che ha scelto la via della responsabilità personale per mostrare le storture di un sistema “legale” che finisce spesso per alimentare la mafia e da cui sarebbe ora di prendere le distanze. E paga per essersi battuto per difendere lo spirito della legge. E di questo tutti dobbiamo tenerne conto.

La stessa riflessione può essere fatta, in misura diversa, per i ritardi dei pagamenti dei fondi del progetto SPRAR. Trattandosi di cifre significative, considerato che il numero degli accolti era di molte centinaia, un ritardo di due-tre-quattro anni nei pagamenti avrebbe costretto il Comune di Riace a ricorrere a prestiti bancari che avrebbero portato, a causa degli interessi passivi, a una contrazione delle somme disponibili di circa il 30% cioè ad un taglio alle prestazioni dell’accoglienza.

Per questo Lucano inventò la “moneta di Riace”, ovvero delle banconote con l’effige di Che Guevara e altri, che servivano come garanzia ai fornitori locali e consentivano al Comune di fruire dei servizi, e ai migranti di spendere la loro “paga”, senza incorrere nel rifiuto dei commercianti. Anche su questo nessuna indagine ha riscontrato interessi privati o appropriazioni indebite, ma solo l’ovvio reato di “battere moneta” alternativa a quella in corso. Un reato talmente dichiarato e noto a tutti che stupisce lo stupore con cui è stato svelato.  

Non è il caso di andare oltre, il concetto di fondo mi sembra chiaro.

Quindi, se il progetto Riace ha funzionato, ha funzionato anche avvalendosi di stratagemmi come questi, altrimenti sarebbe diventato un ostello come tanti altri sistemi emergenziali di accoglienza, con carichi e scarichi periodici di persone, senza la possibilità e la capacità di offrire una vera integrazione, come stabilito dalla legge, perché le circostanze del contesto (un credito inefficiente, ritardi burocratici, infiltrazioni della malavita nei servizi essenziali etc) lo avrebbero impedito. E invece Riace ha indicato concretamente la strada del riscatto dei piccoli borghi abbandonati e molti, nel mondo, lo hanno capito e premiato.

Certamente l’esempio di Riace ha disturbato chi aveva scoperto il business dell’accoglienza e lo faceva funzionare rigorosamente, gonfiando costi e tagliando prestazioni. E questo, probabilmente, ha alimentato la campagna diffamatoria che ha accompagnato questi anni di persecuzione.

Forse l’errore più grande di Lucano, se di errore si può parlare, è stato quello di avere persistentemente voluto, per il suo paese, un ruolo di faro nell’accoglienza, senza ipocrite collusioni con le mafie e senza nascondere i punti critici del sistema SPRAR, le sue contraddizioni, ma affrontandole a viso aperto, gettando il cuore oltre l’ostacolo, anche nell’interesse di Riace e del suo riscatto.

Lucano ha voluto correggere certe storture, forzandole, ispirandosi ad alcune affermazioni costituzionali e alla profonda onestà personale. A conti fatti credo che la sua determinazione ci abbia illustrato la verità sottesa da certe leggi, l’ipocrisia nascosta in certe affermazioni ufficiali; una disobbedienza che Don Milani aveva benedetto come il coraggio degli umili.

Riflessioni conclusive

Pochi fanno notare che il progetto Riace ha mostrato che con le stesse somme stanziate dallo SPRAR e da altri progetti nazionali ed europei, si poteva ottenere molto di più e servire lo Stato e i migranti nel modo migliore, senza sprechi e favori, seminando fratellanza e lavoro, opportunità e solidarietà, in questa società malata in cui alcuni sono costretti a fuggire rischiando la vita in mare mentre altri (noi), possono solo guardare impotenti questo diluvio universale che si scatena attorno.

Lo scopo di queste parole è solo quello di spiegare alcuni aspetti di questa triste vicenda, sono solo riflessioni personali, ma sicuramente l’avere vissuto a fianco di Domenico Lucano alcuni momenti della mia vita, mi porta a riflettere sul senso della sua esperienza, sui rischi che si è accollato per poterci raccontare il suo punto di vista.

La sua è stata la scelta di un calabrese forte e autentico che è stanco di vedere emigrare la sua gente e riconosce nella forza dello Stato l’opportunità per risolvere antiche contraddizioni presenti nella sua terra; Domenico ha visto una luce in fondo al tunnel e ha pensato finalmente di fare vera solidarietà, di applicare i Diritti universali e costituzionali, senza però sprecare tempo e danaro in inutili giri burocratici. Lucano ha creduto veramente nello Stato e nella sua funzione unificante, di questo sono più che sicuro, ma non ha fatto bene i conti con altre categorie di istituzioni che forse hanno meno a cuore di lui i Diritti Umani ed universali.

Credo che in questo consista la sua colpa maggiore, nell’aver creduto nello Stato così come descritto nella Costituzione, negli uomini come descritti dal Vangelo, nell’avere contrastato la guerra e l’odio, nell’essersi battuto per l’uguaglianza di ogni essere umano. E non a chiacchiere, ma coi fatti. E senza protezioni di lobby e di partiti. Sostenuto dalla sua coscienza di uomo solo e libero. Per questo lo hanno punito, perché ha mostrato che si doveva fare diversamente e meglio.

Non so se ne è valsa la pena, dovrà dirlo lui e non so quanti altri possono vantare questo coraggio e tanta onesta determinazione. Ce lo diranno i prossimi anni in cui misureremo se questi messaggi, con tutti i loro limiti, sono arrivati al cuore e alla mente degli Italiani e dei legislatori. Tocca a noi, ora, agire perché Riace non muoia.

Personalmente, preferisco quella giustizia che non ignora il contesto in cui accadono certi reati e che non commina pene spropositate, sommando le violazioni e sottraendo i principi, ma considera attentamente le circostanze in cui i fatti sono avvenuti. Un innovatore, purtroppo, paga il peso della sua solitudine, ma il giudice ha facoltà di valutare tutto questo, anzi è questo il suo vero compito.

Io sto con Mimmo Lucano.


Maurizio Del Bufalo

Maurizio Del Bufalo è coordinatore del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli


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